ERMANNO FAGGIANI, operaio e militante delle Brigate Rosse sino alla spaccatura ed espulsione della colonna 2 agosto, caduto il 17 marzo 1993 a Barcellona, Spagna

(qui inseriremo una sua foto appena reperibile)

Questo compagno di Varmo,  in provincia di Udine, era un quadro politico complessivo delle Brigate Rosse, e come operaio della Montefibre partecipò a numerose lotte e a tutto il percorso di lotta della classe operaia di Marghera lungo la fine degli anni 70 ed inizio degli anni 80, quando attorno alla ristrutturazione del polo chimico si concentrarono nuove forze, organizzazione di classe, autonomia di lotta operaia, in legame e unità con altri segmenti della classe nel polo, con ripercussioni politiche importanti su tutta la regione, o meglio le regioni (Veneto e Friuli), che, al di là delle diversità, avevano e hanno molti elementi strutturali e di storia in comune.

In queste lotte, come nelle riunioni operaie, Ermanno era una avanguardia che stava nella classe, e svolgeva poi clandestinamente la sua attività di militante delle Brigate Rosse.

La campagna delle fabbriche, con il sequestro di un dirigente della maggiore fabbrica del Nord-Est, il Petrolchimico di Marghera, coincise con mobilitazioni di massa indipendenti e contro la logica e le piattaforme arrendiste dei sindacati confederali, e si concluse con un’ondata di criminalizzazione e con il tentativo di isolare e demonizzare i compagni che attorno e nel Petrolchimico e nelle altre fabbriche di Marghera portavano avanti con forza da anni, contro le spiate dei partiti di sinistra ed il tentativo di criminalizzarli, la lotta di liberazione e coscientizzazione dall’interno della classe operaia (il contadino fattosi operaio che costituiva la composizione principale della classe nel polo chimico).

Questa situazione generò purtroppo delle divisioni, ancora vive oggigiorno, nel Movimento Rivoluzionario, che proprio nel 1981 si catalizzava attorno alle BR, le quali tuttavia all’epoca continuavano, anziché superarle, a produrre una serie di rotture politiche, tutte incentrate attorno ad un problema: la linea di massa, la dialettica masse-partito, gli organismi di massa.

Chi aveva visto nella classe operaia solo un obiettivo da dirigere, continuò in un certo modo.

Chi aveva esaltato le lotte ed il loro caratere di rottura, anziché dare priorità alla sedimentazione di coscienza politica e di classe nella classe stessa, continò in un altro modo e presto vide dissolversi la propria ipotesi politica.

Quelli che, come me, lavoravano alla dialettica movimento-avanguardia, sia costruendo movimento, sia praticando avanguardia, dando direzione nella classe e per la classe, presto o tardi vennero quasi tutti, a trovarsi ad un bivio, la dissociazione o la continuità, con quello che c’era.

E’ in questa continuità che si inserisce il rapporto politico che il compagno Ermanno, una volta catturato, cercò di collocarsi, senza cercare di dirigere alcunchè all’esterno, ma contribuendo con un importante saggio analitico, che fu da base ad una lunga analisi poi apparsa su Guardare avanti !, [ed oggetto di “acutissime” attenzioni dei carabinieri di Ganzer, ridicolizzzate dall’esito delle inchieste del 1985, 1987 e 1988], alla comprensione di quel reale e specifico che all’interno della divisione lavoro-capitale e classe-stato, veniva a trovarsi nella nostra area territoriale Veneto – Friuli.

Ciò, ed altri fatti, dettero modo alla repressione folle e maligna, di imprigionare molti compagni e compagne, anche una giovane nipote di Ermanno, costei solo perché ne difese il diritto ad esprimere le sue idee e lo andò a trovare in carcere, allora era a Trani.

Queste montature, si risolsero in nulla, con assoluzioni dopo alcuni anni, ma nel frattempo lo stato, con i suoi folli magistrati e dubbi capitani dei Ros, oggi sotto processo per altri e frequenti fatti strani, aveva fatto danni profondi nella classe operaia del Veneto, portando i compagni e gli operai al terrore non già di detenere armi o volantini per conto terzi, ma addirittura di discutere di politica rivoluzionaria, obbligando a riunioni semiclandestine per sole discussioni politiche.

Nel frattempo altri sperimentavano terreni specifici per ritagliarsi i propri orticelli intoccabili o quasi, e finivano per diventare un elemento del sistema.

E’ in questo contesto che va collocata la “dissociazione” di Ermanno, il quale, militante della “2 agosto” e quindi espulso dalle BR, come del resto quasi tutti quelli della “Walter Alasia”, si trovava in carcere con pesanti condanne, e nessuna identità attiva precisa, il che lo esponeva maggiormente alla repressione; non vogliamo qui stendere un velo di indulto sulle pratiche dissociatorie contro riduzioni di pena, né tantomeno dimenticare però che mentre la dissociazione nel gruppo di Negri ed in quello di PL fu di gruppo e quasi totale, nelle BR si trattò di fenomeni individuali o comunque non rivendicati come atti politici; infatti la “colonna 2 agosto” subì un tracollo sin da subito dopo gli arresti, e questo proprio a causa della desolidarizzazione interna, che poi è il male che ha portato la lotta armata nella concenzione delle BR, a dimostrarsi inadeguata a dirigere costantemente e costruttivamente il processo rivoluzionario della classe operaia, giustificando le proprie defaiance con la “forza” dello Stato borghese o la sua capacità di ridurre al lumicino le forze rivoluzionarie, che invece nel 1981 erano assai estese. Senza contare che fu proprio uno dei massimi dirigenti all’epoca della posizione affermatasi, che dette vita alle BR-PCC, Savasta, a fare i massimi danni di tutta la storia della rivoluzione in Italia dopo il 1968, con circa 2-300 arresti al suo “attivo”.

Ermanno si dissociò, dunque, e sbagliò indubbiamente. Forse pensò di ingannare lo stato, ed a questo portano a pensare i suoi atti successivi. Ma di sicuro non pensò mai alla resa. Ci riprovò, gli andò male. Ci riprovò ancora. Morì in combattimento durante un esproprio in Spagna, a Barcellona. Morì nello stile di chi va avanti troppo, in una azione che forse, con una adeguata copertura, non avrebbe portato a nessun caduto. Ma morì. Nessun partito, nessuna organizzazione, lo rivendicò, nemmeno una telefonata fasulla di copertura.  Morì con le armi in pugno, in terra lontana, dove combattono molti compagni e uomini e donne indipendentisti, e non morì certo per vivere da nababbo. Era un operaio comunista, non un batterista che pensava alle auto o alle moto di lusso.

E per questo lo ricordo come un compagno caduto che ha espresso quanto ha saputo e potuto alla causa della classe operaia e del comunismo, sapendo di dispiacere a qualcuno, che a mio parere vive di troppe mura e occlusioni alla comprensione dialettica. Forse sbaglierò in questa valutazione, ma è difficile, che mi sbagli, anche se ovviamente non è impossibile.

Paolo Dorigo, 13 giugno 2005