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La terra trema
di Giulietto Chiesa (da il manifesto del 30.12.2001)

Con la guerra afghana, Bush ha saziato la sete di vendetta degli americani e allargato a dismisura l'influenza degli Usa in Asia. Il prezzo è stato il grande ritorno in campo della Russia.

"They have done a good job". Un amico americano, sicuramente liberal, riassumeva così la situazione bellica in Afghanistan dopo il definitivo massacro dei taliban e di Al Qaeda. "Loro" erano e sono il team di George W. Bush, primo Imperatore del XXI secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi, anche se non tutti, sono stati raggiunti. E cercherò qui di spiegare in cosa consistono. Tra questi, tuttavia, non c'è la vittoria contro il terrorismo internazionale. Del resto essa non poteva esserci poiché la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non può concludersi così in fretta. Altrimenti verrebbero contraddette le previsioni del vice-imperatore Dick Cheney, secondo cui essa durerà ben oltre l'aspettativa di vita della presente generazione.
Il primo obiettivo raggiunto è la vendetta. Il numero dei taliban e degli arabi annientato è e rimarrà sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le notizie ufficiose provenienti dal campo dei vincitori (altre notizie non abbiamo, essendo quelle del nemico, per definizione, false), possiamo calcolare che almeno 20.000 uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei combattimenti, nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri di prigionieri (non si fanno prigionieri in questa guerra).
Un rapporto di cinque contro uno, se si assume che il numero dei morti nell'attacco dell'11 settembre si aggiri attorno ai 4000. Un rapporto certo inferiore a quello delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale, ma comunque tale da soddisfare i requisiti della proclamazione di guerra ("la nostra causa è giusta, la nostra causa è necessaria", ha detto George Bush) e l'ira del consumatore americano.
Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'è noto - non erano un obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Come tali esse non sono state né fornite, né indagate, e dunque non le conosceremo mai. Anche perché, quando qualcuno comincerà a contarle, l'Afghanistan sarà già sparito dalle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, e dunque non varrà la pena occuparsene.
Il secondo obiettivo raggiunto è la profonda modificazione delle linee di demarcazione dell'influenza degli Stati uniti in tutta l'Asia, particolarmente nell'Asia Centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati uniti si sono assicurati il controllo diretto di almeno quattro delle repubbliche ex sovietiche collocate tra il Medio Oriente e l'area del Mar Caspio. Per la precisione la dipendenza di Georgia e Azerbaijan - entrambe guidati da ex membri del Politburò del Pcus - era già un dato di fatto prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa è sancita poco meno che ufficialmente e, comunque, ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In altre epoche sarebbe stato detto che la Georgia di Eduard Shevardnadze e l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano diventate due colonie degli Stati uniti, ma ora si usano espressioni più soft.
Si aggiungono ora al bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il Turkmenistan di Saparmurad Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno installato una base militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione, anche perché Ashkhabad, la capitale, è impenetrabile agli stranieri, in particolare ai giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashì (il padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare) avrebbe consegnato in mani americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico per i sovietici nel corso della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche quello di Charzhou. Naturalmente Nijazov si è anche dichiarato disponibile ad ospitare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come vedremo meglio più avanti, risale alla metà degli anni '90 ed è strettamente connesso alla nascita del regime dei taliban.
In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una Yalta asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti geo-politici continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo internazionale sta pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che anche le fasi future della superguerra saranno accompagnate da analoghe modificazioni geo-politiche in altre aree del pianeta.
Ciò varrà per l'area della Palestina, dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la guerra per la liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat è la via per questo disegno, che chiuderà ogni via per un negoziato. Ciò varrà per l'Iraq, dove la fine di Saddam Hussein porterà all'instaurazione di un protettorato statunitense e all'installazione di basi americane, analogamente a quanto fu fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo del 1991.
Altrettanto vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa accompagneranno le previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare che la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limiterà allo sterminio sistematico delle tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A Washington sanno che ciò non basterà a eliminare il pericolo, anche nell'ipotesi di un successo totale delle operazioni di polizia.
Infatti la tensione sociale nel pianeta - già dilatatasi spasmodicamente nell'ultimo ventennio - è destinata anch'essa a crescere di pari passo con il rilancio (in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione americana. E dunque si pone fin d'ora il problema della moltiplicazione di basi e presidi permanenti degli Stati uniti in tutte le aree del pianeta in cui sarà possibile prevedere il risorgere della minaccia agl'interessi economici e politici americani.
Ciò detto occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della medaglia del "good job". La Grande Yalta asiatica implica l'esistenza di una partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo partner-avversario è la Russia. Che è rientrata in gioco dopo il lungo limbo decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l'assoluta subalternità di Eltsin agli interessi americani) l'avevano relegata.
Paradossalmente è stato proprio l'Imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità, costretto a pagare un prezzo che potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto appaia oggi. Occorreva la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la Grande Alleanza contro il terrorismo internazionale. L'esistenza stessa di una Grande Alleanza forniva infatti la prova apparentemente inconfutabile della legittimità morale della guerra afghana. Per ottenere l'appoggio di Mosca l'amministrazione Usa non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, viaggi in Russia, missioni diplomatiche, concessioni di vario genere, dispiegate dal poker d'assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell.
Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato offrendo, per primo, addirittura più tempestivo di alcuni alleati occidentali, condoglianze e solidarietà dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento si è avuta l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington. Impressione che è stata accresciuta da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l'informazione occidentale nel confermare quella sintonia. In realtà abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto rude) trattativa tra Stati uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci rapporti e per ridisegnare - appunto - la carta asiatica alla luce cruda dell'11 settembre. Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto che le carte che aveva in mano non erano né molte, né decisive. Il primo a sapere che la Russia è debole, è proprio lui. Così Vladimir Putin ha giocato a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch texano di Bush, tutto intero, il quadro del contenzioso tra Russia e Stati uniti.
Si è dunque negoziato su molte questioni contemporaneamente. Ci si è lasciati con una stretta di mano perché ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di avere conquistato qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto la fine di ogni ingerenza esterna sulla Cecenia. Cioè sia la fine dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri abbondantemente fornito, attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi segreti turchi con la benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche lamentele occidentali in tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora in poi, e per qualche tempo, il silenzio dell'Occidente è garantito. Putin, dal canto suo, ha inghiottito la perdita delle due repubbliche ex sovietiche di Uzbekistan e Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza poter fare quasi nulla, quella di Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in cambio, l'assicurazione che l'area d'influenza russa su Armenia, Kazakhistan, Kirgizia, Tajikistan non sarà minacciata nell'immediato futuro.
La Russia compie una cospicua ritirata strategica da una parte dell'Asia Centrale, riconoscendo implicitamente la rivendicazione americana sull'area, già proclamata da Clinton come "area d'interesse vitale per gli Stati uniti d'America". E' probabile che Mosca consideri questa ritirata come temporanea, o tattica, ma essa, per quanto dolorosa, rappresenta un riconoscimento dei rapporti di forza reali.
Tanto più ferma, di conseguenza, è stata la posizione di Putin in tema di regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione del regime talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso l'Afghanistan.
L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come protagoniste, due importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana) e la Delta Oil (di proprietà del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord di oleodotti e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter mettere d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere di combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan e consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo Persico.
Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da un lato avrebbe consentito una soluzione molto economica per il movimento di ingenti quantità di energia verso le grandi economie occidentali. Dall'altro avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso principesche royalties e l'influenza sull'intera area centro-asiatica. Quest'ultimo aspetto era in stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo collasso, la sua trasformazione in "confederazione debole", infine la suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia Occidentale e Estremo Oriente).
Il progetto fallì per l'impossibilità di mettere d'accordo le fazioni afghane. Al suo posto venne deciso di "pacificare" l'Afghanistan mediante un nuovo regime, costruito artificialmente dall'esterno. Il movimento dei Taleban era nato così, tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrassas (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani, che fornirono istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici vennero così formati a una nuova Jihad, addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi della North-West Frontier. In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban del mullah Omar conquistarono o comprarono quasi tutti i comandanti militari ex mujaheddin, costrinsero gli altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del territorio del paese. Era il 1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non era rimasta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l'operazione taliban era diretta a colpire a fondo gl'interessi russi, avevano cominciato a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul terreno a contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah Massud, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.
Il fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan. Ma ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban, che nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione che il futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra condizione: che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia gestito assieme alla Russia e non contro la Russia.
Alla luce degli eventi successivi sembra di poter dire che l'accordo raggiunto nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu né chiaro, né completo. Gli Usa devono soddisfare le esigenze del generale Musharraf, pericolante e infido, mentre la Russia ha tutto l'interesse a sostenere fino in fondo le richieste dei tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e Islamabad non c'è pacificazione possibile, poiché l'assassinio di Massud è opera di Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence pakistana.
Si spiega così perché i tagiki sono entrati a Kabul per primi, contro l'avvertimento di Bush, impadronendosi di fatto del potere, certo d'accordo con Mosca, senza aspettare il via libera americano. E si spiega così anche l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, del contingente russo: secondo il proverbio "fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Che nella versione russa suona: "abbi fiducia, ma prima verifica" (doveriaj, no proveriaj).
Ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto in questa chiave, se si vorrà capire qualcosa. Putin non è disposto a regalare l'Afghanistan all'America. Né è disposto a lasciare che Washington decida da sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle risorse energetiche ivi contenute.
E' vero che Mosca è relativamente debole, che non è più potenza globale. Ma è anche vero che nell'area in questione - il suo "cortile di casa" - Mosca è ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte situazioni. Ad esempio la tenuta di regimi come quello di Tashkent e quello di Ashkhabad può essere messa rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di essere stata ingannata o colpita nei propri interessi. A Mosca non c'è più Eltsin, manutengolo degl'interessi occidentali. Putin, convinto assertore del capitalismo in Russia, è anche un altrettanto convinto fautore degli interessi nazionali russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i conti con quei settori dell'establishment russo che premono perché essi vengano difesi.
Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi che sono stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi non c'è stato accordo. Su uno si è registrata una modesta convergenza, sull'altro si è registrata una completa divergenza. Si tratta, rispettivamente, dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del 1972. Colin Powell - ma Donald Rumsfeld è di altro avviso - è disposto a concedere molto a una Russia che conceda molto. Per esempio anche un avvicinamento della Russia alla Nato, che le consenta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in materia di decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interessato a una tale eventualità, riservandosi di decidere quando le cose si faranno più chiare e, soprattutto, quando a Washington si sarà deciso cosa s'intende regalare alla Russia. Niente di più.
Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento verso est dei confini della Nato sarà deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio spazio di manovra è segnato dai rapporti di forza concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non dà in escandescenze (come amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potrà far valere la sua forza. D'altro canto la vicenda afghana, cioè l'inizio della guerra infinita, sembra dire che Washington non ha più molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al più con l'aiuto dell'Inghilterra.
Pensa di potere e di dovere farcela da sola, senza impacci, senza remore. La Nato avrà, sempre di più, un valore politico diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione simbolica. Anche questo ha capito. L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, è stata una tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko. Washington aveva - ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso. Ma dovrà ora dilazionare questo obiettivo per non creare altri problemi con Mosca. Minsk può aspettare. Il "modello Belgrado", della sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del rovesciamento del leader nazionale di turno, usato con successo contro Milosevic, per ora non si ripeterà.
La completa divergenza c'è stata soltanto in materia di "scudo stellare". Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia "unilaterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o senza il terrorismo internazionale. L'America è l'unica superpotenza rimasta. Come tale non si sente più tenuta a negoziare con chicchessia. Al massimo, quando lo riterrà opportuno, potrà comunicare agli altri le sue decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo "scudo stellare" (cioé la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio globale del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo saranno anche un utile strumento "keynesiano" per rimettere in moto la disastrata new economy.
Come ha scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle Twin Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche a questo proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli è stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati uniti si apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo ministro della difesa, laconicamente, che la Russia comincerà a installare sui suoi missili Topol non più una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha annunciato che la messa in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2 sarà sospesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nucleare Ghepard: una nuova generazione capace di gareggiare con il meglio della tecnologia americana.
Detto in termini più concisi, è cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale. Perché è del tutto evidente che la Cina sta accelerando il proprio sviluppo tecnologico-militare, poiché sa di essere stata già eletta a nemico principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro il mondo islamico sarà terminato.
Dov'è la "Grande Alleanza" contro il terrorismo internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per giustificare la sua "inevitabilità" e la sua "legittimità"? Semplicemente non c'è mai stata.

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