Sul numero 698, del 22/28 giugno, del settimanale “Internazionale”
vi è, nella rubrica “Italieni. L’Italia
vista dai nuovi italiani” - pagine 26 e 27 - uno scritto del professor Chang
Yafang, dell’università di Urbino, che racconta le ‘peripezie’ affrontate nei
rapporti con gli ‘indigeni’ che lo definiscono ‘cinese’ senza neppure peritarsi
di chiedergli da dove provenga. Su una
cosa questo signore ha ragione, quando alla fine del suo intervento scrive
<Da quando l’Asia è diventata un unico paese, la Cina? Da quando gli
asiatici che girano in Italia sono diventati tutti cinesi? E da quando la gente
non fa più la domanda fondamentale: ‘Da dove vieni?’>. La maggioranza degli italiani ormai dà per
scontato che chiunque abbia gli occhi a mandorla debba forzatamente essere
cinese, il che ovviamente rappresenta una semplificazione inaccettabile.
Il problema è che questo signore, essendo egli un docente, dovrebbe
essere in possesso di quel poco di cultura necessario per sapere che la sua
amata ‘madrepatria’ - quella della quale va così orgoglioso da rispondere
<Vengo da Taiwan, grazie!> alla domanda retorica che pone alle persone
con le quali viene a contatto nel breve volgere del suo scritto - altro non è
che una provincia della Repubblica Popolare Cinese, la ‘provincia ribelle’ come
la definiscono le autorità di Peking, e pertanto egli è proprio un cinese.
Potremmo concedergli la definizione borghese di Cina nazionalista,
così tanto in voga fino a qualche anno fa da queste parti per indicare la
provincia ribelle senza che gli eredi del dittatore sanguinario Chang Kai-Schek
si sentano colpiti nell’animo per essere stati accomunati agli odiati comunisti
- peraltro massacrati a centinaia di migliaia con inaudita ferocia, dalle
truppe del sopracitato dittatore, nel corso della guerra civile seguita alla cacciata
dei giapponesi e terminata con la proclamazione, il 1° ottobre 1949, della
Repubblica Popolare Cinese dal presidente Mao Tse-tung in piazza Tien An-men, e
la fuga dello sconfitto leader nazionalista all’isola di Formosa. Ricordiamo a questo dispensatore di cultura
che fu proprio Chang Kai-Schek a voler rompere i rapporti con i comunisti, e ad
incominciare così la guerra civile con l’intento di spazzarli via e far sì che
la Cina continuasse ad essere un paese semifeudale e semicoloniale, questa
volta sottoposto al regime degli yanqui: il fatto che i suoi piani siano stati
sconfitti non fa certo di lui un eroe.
Stefano Ghio
Torino, 27 giugno 2007