La sentenza del 4 aprile
n.113-2011, depositata il 7 aprile, data casualmente significativa nella storia
giudiziaria italiana, suona come una beffa al potere falsamente garantista del
Presidente del Consiglio.
La Presidenza del Consiglio
infatti nel 2010 si era espressa contro il ricorso dei difensori di Paolo
Dorigo, il compagno nostro militante, conosciuto alle cronache e spacciato per
lunghi anni come “brigatista rosso”, per la sola condotta di rifiuto della falsa
dialettica processuale di un processo liberticida ed emergenziale, quello per
l'attentato ai dormitori della base aerea militare americana di Aviano del 1993.
Berlusconi, che paventa ancora una volta, tra bunga bunga ed attacchi al diritto
del lavoro, modifiche alla Costituzione che ancora difende dei principi di
equità sociale e di diritto dei cittadini e dei lavoratori, da una parte cavilla
modifiche ai codici processuali, dall'altra quando il diritto non riguarda i
suoi processi ma quelli dei rivoluzionari, invoca leggi d'emergenza.
Tuttavia gli argomenti
della Avvocatura dello Stato monopolizzata dalla Presidenza del Consiglio, non
hanno trovato accoglienza dalla Corte Costituzionale. I loro argomenti, ripresi
anche e non a caso dal Sole 24 ore, si fondavano sullo “spacciare”
l'argomentazione del diritto alla revisione allorquando una Corte europea boccia
un processo italiano, come se si trattasse di un “quarto giudizio”. E' evidente,
nel momento storico in cui la borghesia mafiosa a guida Berlusconiana, argomenta
di semplificare i processi e di ridurli a puro mercimonio tra il potere di chi
può pagarsi enormi spese difensive e la debolezza di chi può solo assurgere al
gratuito patrocinio, il riferimento al “quarto giudizio” come tentativo
liberticida, proprio da parte di chi si è proposto ridicolmente in passato come
portatore di “libertà” e più recentemente, come giustiziere di pubblici
ministeri scomodi. Infatti la Consulta ha seccamente liquidato tale argomento,
che eludeva le questioni giuridiche, e tentava una mossa conservatoria delle
norme, per impedire il nuovo processo a Paolo.
Il ricorso alla Corte
Costituzionale, che già si era espressa, pur ammettendo il diritto alla
“revisione”, contro l'istanza, a causa del vuoto legislativo nei casi
“retroattivi” (Paolo era stato condannato definitivamente dalla Cassazione nel
1996, ben prima delle nuove leggi che avevano di fatto bocciato le “eccezioni”
nei confronti del diritto processuale, per i reati di “terrorismo” e di mafia),
verteva infatti sull'assurdo giuridico, non solo specifico (le nuove leggi,
comprese le modifiche all'art.114 della Costituzione, erano sorte proprio dal
suo ricorso alla Corte di Strasburgo, accolto da questa nel 1998), ma anche
complessivo: la sentenza contro Paolo era sospesa dalla Cassazione sin dal
dicembre 2006, la quale chiedeva la revisione della sua posizione processuale,
ma Paolo non poteva ottenerla a causa di un vuoto legislativo. Va detto anche
che il compagno aveva anche rifiutato la ipocrita proposta di “grazia” del
ministro leghista alla giustizia nel 2004, durante un periodo di lunghe lotte
carcerarie e di lunghi scioperi della fame.
Oggi la pesante sentenza ai
suoi danni e ai danni dell'intero movimento di classe, quasi interamente
scontata, è annullata, il processo da rifare, e quelle centinaia di articoli, di
sentenze e di diffamazioni orchestrate per anni allo scopo di legittimarne la
carcerazione, allo scopo di isolarlo e di impedirgli di lottare, hanno il valore
di una piuma.
Vediamo brevemente il
“succo” della lunga sentenza, che porta le firme di insigni giuristi borghesi,
alcuni dei quali da anni erano intervenuti sulla vicenda, considerata
“scandalosa” anche per la giustizia borghese stessa, anche per la “pubblicità
negativa” e specifica che ne aveva ottenuta l'Italia dai ripetuti inviti del
Consiglio d'Europa ad uniformarsi al rapporto CEDU del 9.9.1998, cui l'Italia
peraltro non aveva proposto appello.
La Consulta dapprima fa la
storia giuridica delle istanze rivolte ad ottenere la revisione, introdotte
addirittura dalla procura di Udine prima, quindi dalla Corte d'Appello e dallo
stesso procuratore generale di Bologna poi, su istanza della difesa a riaprire
il processo sulla base della illegittimità della sentenza contro Paolo, cassata
da un organo superiore quale è riconosciuto nel nostro ordinamento attuale, la
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Va detto che le posizioni assunte anche in
altre vicende dalla CEDU, sono improntate in punta di diritto borghese, non
esprimono cioè una valutazione “nel merito” delle vicende che affrontano su
istanza delle parti, ma puramente giuridica. Nel caso della bocciatura CEDU
della sentenza per l'attentato di Aviano, l'argomento è stato il mancato
rispetto della Convenzione sui diritti dell'Uomo, sottoscritta dall'Italia negli
anni'80, che prevede il diritto ad interrogare e controinterrogare i testi
dell'accusa da parte della difesa. Un diritto processuale che era stato negato
di fatto ai difensori di Paolo dall'atteggiamento processuale dei testimoni
dell'accusa, principalmente Angelo Dalla Longa, i quali si erano rifiutati di
deporre in aula dopo aver reso lunghe e -secondo l'accusa- dettagliate e
verificate testimonianze.
La illegittimità costituzionale dell'art.630 cpp era stata quindi sollevata dal
procuratore generale di Bologna, che aveva accolto in pratica la istanza della
difesa nel processo del 2008 tenutosi a Bologna su istanza dell'Avv.Marina
Prosperi; la Consulta spiega che questa illegittimità costituzionale verteva
nella lesione dell'art.117 Costituzione, in riferimento all'art.46 paragrafo 1
della Convenzione Europea, che sancisce l'obbligo degli Stati che riconoscono la
Convenzione, di conformarsi alle sentenze della CEDU.
L'impossibilità della revisione, nella situazione precedente a questa sentenza,
per il caso di Paolo (e non per quelli SUCCESSIVI alle nuove leggi), viene
quindi identificata in una norma dell'art.630 cpp, e la Consulta precisa: rifare
un processo non significa assolvere un condannato che abbia diritto a revisione,
significa riconoscere che quel processo non fu regolare. Dice la Consulta:
“laddove, di contro, l’accertata violazione del diritto all’equo processo non
equivale a prova dell’innocenza”. Vero è che fino a sentenza definitiva, un
cittadino, e quindi teoricamente anche un militante del proletariato, è
innocente per la stessa giustizia borghese. Ben sappiamo che invece per la
giustizia informale, per le leggi non scritte della lotta di classe e della
repressione della borghesia, un militante del proletariato, tra l'altro accusato
di aver osato ridicolizzare una struttura militare come la base USAF di Aviano,
non è certo innocente fino a sentenza definitiva.
Paolo infatti fu dichiarato colpevole prima ancora di leggere il suo ordine di
cattura. Non ebbe alcun accesso al “diritto” formale, vennero pubblicati
centinaia di articoli, servizi radio e televisivi, pilotati direttamente dalla
Digos, che addirittura lo qualificavano come uno che “riconosceva” l'accusa. Ben
diversa la sua posizione, che emerse solo dopo molti mesi dall'arresto, al
processo, quando ormai le etichette erano state ben affibbiate, allo scopo di
impedire proprio quello svolgimento processuale, che sin dal 1998, nonostante la
sentenza della CEDU di Strasburgo, si è voluto ancora impedire per altri 12
anni, complessivamente per 18 anni, e questo in un processo in cui,
fortunatamente, non vi erano né morti né feriti.Per non dire delle accuse
mediatiche ed informali, che per alcuni anni furono scagliate contro Paolo,
scandalosamente da media asserviti alle veline delle forze di polizia, senza il
benché minimo straccio di una prova e senza nemmeno una formale accusa contro di
lui: accordi con Bin Laden, progetti di sequestro contro industriali,
corresponsabilità in attentati che avvenivano in Veneto, di tutto e di più, per
giustificare ben altro, un trattamento carcerario e tecnologico che non doveva
avere alcun oppositore.
La Consulta nel trattare le
argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato, in particolare quelle che cercano di
definire l'abnormità del caso in senso lesivo verso lo Stato anziché del
condannato ingiustamente e comunque iniquamente colpito dallo svolgimento
processuale a senso unico che si era avuto, mette in campo invece le
problematiche relative ai criteri in cui occorrebbe stabilire se una certa
violazione sia o non sia accettabile nel diritto borghese stesso. Interessanti
problemi, che sorgono da un caso giudiziario reso ingestibile dalla resistenza
di un compagno. L'Avvocatura argomenterebbe, dice la Consulta, che simili
problemi trovano soluzione in una misura conciliatoria di “equa riparazione”,
ossia nel mercimonio all'italiana. Proprio ciò che non è accaduto in questo
caso, proprio perché il compagno qui ha sempre riproposto le due questioni da
lui denunciate, la tortura che subisce sin dai primi anni di questa
carcerazione, e l'impossibilità di uno svolgersi processuale formalmente
corretto ai sensi delle leggi vigenti (denunciando quindi l'essere “speciale”
sia la detenzione, che il Tribunale). Cose non accettabili, ai sensi della
nostra Costituzione, ma che nel “sistema vigente” trovano il più delle volte le
verità e le violenze del potere, affossate, insabbiate, nascoste.
Secondo l'Avvocatura, dunque, solo il legislatore avrebbe titolo per giudicare
la questione. In realtà, una precedente sentenza della Consulta (129-2008),
aveva demandato proprio al legislatore (al Parlamento borghese) le modifiche di
legge necessarie all'effettuazione della revisione. Modifiche che due
Parlamenti, sordi come chi non vuol sentire, si erano guardati bene dal
legiferare. Qui l'autogol della Presidenza del Consiglio, e qui la sentenza
della Corte Costituzionale, che inizia il dispositivo finale così: “La Corte di
appello di Bologna dubita della legittimità costituzionale, in riferimento
all’art. 117, primo comma, della Costituzione e all’art. 46 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
dell’art. 630 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la
rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna
siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti
dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi
dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo”.
La Consulta quindi ha
analizzato la questione, e ha concluso, dopo ampia trattazione giuridica, con
ampi riferimenti alla giurisprudenza della CEDU in materia -citando anche il
caso del Presidente Oçalan contro la Turchia- che occorre rimediare “a un
“vizio” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga
l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della
lesione.” Affermando appunto che comunque, “rimediare al difetto di “equità” di
un processo, d’altro canto, non significa giungere necessariamente a un giudizio
assolutorio”. Il “rimedio” trovato dal potere nel caso di Paolo Dorigo, ossia
aver “sospeso” l'esecuzione di pena, rimettendo la persona in libertà, e per il
resto, cazzi suoi, (e questo dopo 12 anni e mezzo di detenzione) secondo la
Consulta, è in ogni modo ed “al di là di ogni altra possibile considerazione”,
“inadeguato: esso “congela” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo
elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”.
Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza
primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che
consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione.” Non solo:
“L’assenza, nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio diretto a tale
fine è stata, d’altronde, reiteratamente stigmatizzata dagli organi del
Consiglio d’Europa, anche e soprattutto in rapporto al caso concernente il
condannato nel giudizio a quo.”
Più specifici e in punta di
diritto, tutti i riferimenti all'interesecazione tra norme interne e norme della
Convenzione, ed al rispetto di una ragione superiore (il rispetto della
Convenzione da parte degli Stati contraenti) rispetto alle specificità
processuali che interessano di più lo Stato (che nel caso dei processi di
“terrorismo” generalmente si costituisce parte civile).
La Consulta afferma la
necessità, contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura dello Stato, di una
composizione tra “verità storica” e “verità processuale”, e quindi riconosce
comunque l'interesse di una revisione, anziché di una “composizione
conciliatoria”, qui del resto impossibile.
La Consulta, nella
declaratoria finale di parziale incostituzionalità del 630 c.p.p., afferma che
comunque poi è al Legislatore, in linea generale, il diritto di dare
successivamente, diverse risposte. Avanza quindi la possibilità che lo Stato
possa introdurre una specie di risarcimento d'ufficio, nei casi bocciati dalla
CEDU per violazione dei diritti processuali fondamentali come quelli dell'art.6
della Convenzione europea, mentre nel caso specifico, finalmente, riconosce il
diritto di un condannato (in un processo che ha violato le fondamentali regole
processuali giungendo peraltro ad un giudizio definitivo, nel tempo record da
formula 1, di 2 anni e 5 mesi), alla riapertura del processo.
"Innocente" quindi per il diritto borghese, sino a nuova condanna. Innocente, in
ogni caso, per il proletariato.
Interessante l'intervista parzialmente riprodotta dal quotidiano locale “il gazzettino”, laddove il giornalista ha parlato di “vita distrutta”. In realtà Paolo ha parlato di carriera lavorativa ed artistica, e di situazioni familiare, distrutte, ma al riguardo ha precisato al giornalista, che non ne ha fatto menzione: “vita distrutta no, perché comunque sono riuscito a continuare la militanza politica lungo tutta la detenzione”.