(traduzioni dallo
spagnolo da Un mundo que ganar, rivista del Movimento rivoluzionario
internazionalista, n.30,2004)
foto recente di un martire di una recente azione anti-sionista e del simbolo del suo partito,il FPLP
(traduzioni da A
worl to win n° 30, 2004, e commenti a cura di Paolo Dorigo, militante comunista
prigioniero m-l-m, carcere di Spoleto, 19-11-2004)
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traduzione n°2004/15
vai a: LEYLA
KHALED e la PALESTINA DI OGGI
La scomparsa di Abu Ammar
dirigente di Al Fatah e dell’OLP, nonostante gli errori che questo dirigente
nazionale Palestinese aveva compiuto con gli accordi di Oslo e le successive
conseguenze di una politica che legittimando l’esistenza dello Stato usurpatore
fondamentalista religioso di “israele” aveva di fatto indebolito la portata
della lotta nazionale di indipendenza, nonostante la politica borghese assunta
nell’ambito dell’Amministrazione Nazionale Palestinese e il ruolo anche di
repressione della stessa guerriglia e lotta popolare assunto in taluni
frangenti e con il mantenimento in detenzione di numerosissimi combattenti
dalla Polizia Palestinese, è comunque un duro colpo per il Popolo Palestinese
che vedeva in lui comunque una bandiera, un simbolo in quanto si tratta del
dirigente della guerriglia Palestinese degli anni ’60 che comunque ha saputo
fondare la Organizzazione per la Liberazione della Palestina come sede unitaria
della varie componenti della lotta popolare (che all’inizio comprendeva anche
le organizzazioni del successivo Fronte del rifiuto, Fronte Popolare e Fronte
Democratico innanzitutto) e guida anche dopo la crescita di talune
organizzazioni islamiche di lotta nazionale Palestinese, più reazionarie per
costituzione politica.
Anche per questo la traduzione
che segue, nonostante sia datata di alcuni mesi, ha un valore politico in
quanto colloca la lotta di liberazione nazionale Palestinese nel quadro
internazionale di scontro tra proletariato mondiale ed imperialismo.
[La dicitura tradotta ‘israele’ è adottata dal
traduttore in omaggio a questo stile proprio del FPLP-Comando Generale che la
utilizza nella sua testata Forward, e non è invece utilizzata nell’articolo
originale qui tradotto. I commenti tra parentesi quadre sono del traduttore.]
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Con il cambiamento della strategia globale yankee,
grazie alla presa del potere da parte della squadra di Bush, avvenne un
cambiamento nella politica sulla Palestina. Bush e soci criticarono fortemente
i negoziati di Camp David del presidente Clinton, poiché consideravano che si
incentravano troppo sull’idea che per rafforzare la posizione yankee in Medio
Oriente, era necessario risolvere il conflitto in Palestina. I membri di rilievo della squadre di
politica estera di Bush sottolineavano: “Il futuro a Gerusalemme passa per
Baghdad”. Ossia, la migliore maniera, ossia l’unica, di pacificare la lotta
Palestinese era quella di abbattere il governo di Saddam ed usando un Irak
dominato dagli Stati Uniti come leva per riconfigurare il Medio Oriente. Una
grande parte di questa agenda fu di cancellare i resti del “vecchio ordine
mondiale”. Gli strateghi di Bush sostenevano che uno dei principali fattori che
propiziavano dei governi anti-yankee nella regione fu la presenza di un campo
avverso guidato dai socialimperialisti sovietici. Come evaporò l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti poterono
approfittare per abbattere questi governi, incoraggiare le forze subordinate
loro nella regione, soprattutto “israele”, e consolidare una dominazione senza
rivali nella regione.
Questa regione, in Palestina,
caccerebbe Yasser Arafat ed Hamas dallo scenario della storia e li avrebbe
rimpiazzati con Palestinesi filooccidentali moderni, con i quali Bush potrebbe
“accordarsi”. [Questo la dice lunga sul grado di demonizzazione americana delle
forze più moderate Palestinesi, ossia l’OLP ed Hamas, che è in pratica uno
Stato islamico nello Stato Palestinese, e che non è certo tra le organizzazioni
più estremiste, ndT]. Per quasi un anno, il governo yankee si è rifiutato di
fare trattati con Arafat, che taccia di essere “uomo del passato”, al di là il
presidente eletto dall’Autorità Palestinese.
Nell’ottobre 2003, gli Stati Uniti erano ancora più lontani, vietando la
adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU [utilizzando
una norma feudale, il diritto di veto, ndT] che condannava la minaccia
israeliana di mandare in esilio Arafat o di “buttarlo fuori gioco” con altri
mezzi non dichiarati [di cui l’avvelenamento mortale di poche settimane fa è la
dimostrazione più evidente del carattere nazista assunto dallo Stato israeliano
verso le vittime della loro occupazione militare del 1948, ndT].
Come parte della preparazione
della drammatica presa del potere in Irak, Bush lanciò un “cambio di rotta per
la pace” in Medio Oriente, copatrocinato dall’ONU, dall’Unione Europea e dalla
Russia. È un processo in tre fasi, che stabilizzerebbe nel 2005 uno Stato
Palestinese e garantirebbe la sicurezza di Israele. Sulla carta, si tratterebbe
di un processo “uguale”, in cui ogni aspetto avanzerebbe parallelamente
all’altro [l’impostazione della politica pianificata dall’alto che non tiene
conto né degli eventi né della volontà popolare, ndT]. Nella prima fase, per esempio, gli
israeliani intendono “congelare le attività della colonizzazione” nei Territori
Occupati (ossia, occupati a partire dal 1967 e non dal 1948) e smantellare gli
insediamenti costruiti a partire dal settembre 2001 [NON A CASO, sfruttando
l’effetti massmediatico di emozione per gli avvenimenti del 11 settembre, un
po’ come se dopo il golpe in Cile l’Unione Sovietica e la DDR avessero invaso
la Baviera, ndT]. Bush la chiama una
“domanda forte” e Sharon dice che sarebbe “un sacrificio doloroso”. Però, la occupazione israeliana di queste
terre è una violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’ONU
(242) e la situazione si complica per la costruzione di insediamenti qui, così
come “israele” sta facendo da decenni sotto governi retti da “liberali” e
partiti di “destra”. La colonizzazione illegale è cresciuta in ragione di
10.000 persone all’anno durante gli ultimi 3 anni, facilitata da un sussidio di
10.000 dollari del governo israeliano ad ogni famiglia di coloni. [Un po’ come
mussolini ed hiltler utilizzavano i malavitosi nelle loro prime bande armate
antioperaie, una forma di scatenare guerre tra poveri per occupare spazi e/o
territori nuovi, ndT]. Quantunque si
mascheri in movimento dei coloni con spropositi religiosi a proposito di chi
dette agli ebrei la terra, le colonie sono fortezze fortemente armate il cui
scopo è quello di rafforzare il controllo israeliano su ciò che rimane del
territorio Palestinese. [Con grande differenza da quello che era lo stile delle
prime colonie di sperimentazione comunitaria nel secondo decennio del 900,
ndT]. Così che il cambio di rotta richiederebbe che i Palestinesi
abbandonassero la lotta contro i ladroni della loro terra e che rimangano ad
osservare mentre i sionisti consolidano questo controllo e rubano più terre.
Punto per punto, il cambio di
rotta mostra questo “tratto parallelo”: richiede concessioni israeliane minori
delle politiche ingiuste che da decenni lo hanno posto in violazione del
diritto internazionale e in opposizione alla opinione pubblica mondiale, mentre
richiede che i dirigenti Palestinesi abbandonino le loro giuste domande e
reprimano ogni resistenza ad “israele” ed ai loro amici yankee.
Mentre gli israeliani hanno
continuato a violare impunemente il cambio di rotta, Bush e Blair hanno
condannato ripetutamente e fortemente l’Autorità Palestinese, dicendo che sono
i Palestinesi ed Arafat le principali cause della mancanza di avanzamenti del
processo di pace. Mentre gli
imperialisti anglo-nordamericani predicavano ipocritamente in ogni modo che le
armi non avrebbero potuto mai aiutare la causa Palestinese [cosa che ricorda il
discorsetto con energia e abuso compiuto dai dirigenti dei partiti democratici
insieme agli yankee dopo il 25 aprile ai nostri Partigiani, ndT], si
preparavano per difendere la loro stessa causa attraverso invasioni e guerra.
Gridano “assassini sanguinari” ogni volta che un pugno di israeliani muoiono
mentre inviano 150.000 soldati fortemente armati ad uccidere molte migliaia di
civili irakeni e ad occupare il paese.
In nessun luogo del mondo si dimostra tanta ipocrisia imperialista come
nel Medio Oriente.
Da poco, questa ipocrisia
giunse al culmine, quando dopo aver liberato una guerra in Irak, “per eliminare
le armi di distruzione di massa”, che non esistevano ancora, il governo yankee
ammise che fornì missili da crociera armati con testate nucleari per i
sottomarini israeliani. Siccome gli israeliani hanno di stazza un sottomarino
nucleare nel golfo Persico e un altro ne hanno nel Mediterraneo, rappresentano
nel Medio Oriente l’unica potenza nucleare con la capacità di colpire uno
qualsiasi dei loro vicini arabi. Mentre
gli imperialisti yankee predicavano la pace e disarmavano l’esercito di Saddam,
armarono con entusiasmo una formidabile macchina da guerra israeliana con
missili nucleari nella regione più conflittuale del mondo.
ANCOR PIU’ MATTONI
NEL MURO
Un ruolo chiave della recente
campagna per estendere il suo controllo nell’ultimo anno è quello che gli
israeliani chiamano la “valle della sicurezza” e che i Palestinesi chiamano “il
muro di Berlino” o il “muro dell’apartheid”. Il muro ha nove metri di altezza e
si penetra profondamente in Cisgiordania; isola una decina di migliaia di
Palestinesi e li obbliga a passare per i posti di blocco israeliani per
giungere ai loro appezzamenti di terra, posti di lavoro e scuole. Mentre Sharon dice che il muro serve per
proteggersi dai loro attaccanti-suicidi e non in nessuna maniera delimitare una
frontiera permanente, l’opinione unanime dei Palestinesi è che questo è
esattamente il suo proposito.
Il muro
suscitò una forte condanna internazionale: si intende che un muro gigantesco
fortemente pattugliato da dove gli israeliani sparano a quelli che transitano
senza permesso, sia opera adatta a dei repressori totalitari della democrazia,
non un governo come “israele” a cui gli Stati Uniti ci facciano passare per
“l’unica democrazia nel Medio Oriente”.
Il governo yankee fa alcune critiche soavi al muro, ma vietò una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro il muro e quando si
presentò la risoluzione davanti all’Assemblea Generale dell’ONU, gli Stati
Uniti furono uno dei quattro che votarono contro. Il giorno successivo,
“Israele” disse che ignorava la risoluzione [che se ne fregava, il che per
uno Stato in un consesso internazionale non è il massimo dell’educazione, ndT].
Negli ultimi anni, “israele”
ha usato il muro e la sua opprimente infrastruttura di controllo e repressione
per peggiorare la vita dei Palestinesi. Nel 2003, una commissione parlamentare
della Gran Bretagna fu in Palestina.
Alcuni deputati ebbero la forte impressione che Bush e Blair li
ingannassero e che usassero il cambio di rotta per eliminare l'opposizione dai
problemi bellici dei governi anglo-nordamericani, che non avevano l’intenzione
di obbligare ‘israele’ di fare alcuna concessione ai Palestinesi.
La relazione
incolpa il muro di sicurezza, come le incursioni israeliane, periodi di
coprifuoco, posti di vigilanza ed altre restrizioni, di aver affossato la
economia Palestinese. Osserva che la
disoccupazione ha raggiunto il 70 % che è un serio dato del declino del livello
di vita e del tasso di denutrizione alto quanto nell’Africa sub-sahariana. “Ciò che fa sì che la povertà sia così
sgradevole è il livello di privazione [che subisce il popolo Palestinese] in
confronto ad “israele” e al fatto che non si deve a cause naturali ma ad azioni
deliberate del governo di “israele”. La relazione descrive una pratica molto
“emotiva”: che le ambulanze Palestinesi debbano attendere così davanti ai posti
di blocco. Dice: “è quasi impossibile
ignorare che esiste una strategia israeliana deliberata di mettere la vita dei
Palestinesi sotto pressione come parte di una strategia di dominare la
popolazione.”
Mentre “israele” sottopone i
Palestinesi ad un livello di oppressione senza precedenti, gli Stati Uniti
continuano a rifornire la macchina militare sionista con armi e denaro
indispensabili al suo funzionamento criminale.
Il Dipartimento di Stato yankee ha chiesto al Congresso 2.200 milioni di
dollari in aiuto ad “israele” nel 2005, un aumento di 60 milioni dal 2004. E ha convenuto su 9 mila milioni in più di
garanzie di prestiti nei prossimi tre anni per risollevare la economia israeliana
[il che ha dell’offensivo, dato che il costo della guerra ricade in misura
molto maggiore sull’economia Palestinese, soggetta anche ai vincoli
dell’occupazione e ai limiti alla circolazione delle merci]. In tutto,
“israele” riceve quasi il 40% di tutto l’aiuto militare ed economico
statunitense.
IL
CAVALLO DI TROIA DI SHARON
Mentre chiudiamo questo numero
della rivista, Ariel Sharon annunciava che il suo governo intendeva liberare
Gaza dalle colonie ebraiche. I commentatori liberali, come quelli del The New York Times, di Le
Monde e di molti altri, raccomandavano di dare il benvenuto alla iniziativa
di Sharon e di lavorare perché questa sia solo il “primo passo” di una ritirata
israeliana generale dalla Cisgiordania, di modo che si possa iniziare lo
scambio di “terra in cambio di pace” che è stata la pietra angolare dei piani
di pace patrocinati dagli imperialisti per la regione.
Di fronte al risultato della
iniziativa, è chiaro che la classe dominante israeliana non ha la minima
intenzione di abbandonare la Cisgiordania dopo Gaza né di abbandonare
“israele”. La maniera in cui la cosa è
presentata dal New York Times e da molti altri organi di informazione liberali
imperialisti abbellisce quella che è una trappola israeliana. Per accettare la proposta di Sharon, si
dovrà ignorare ogni cosa che “israele” ha fatto negli ultimi anni, con
l’appoggio yankee.
Il fine più probabile
dell’iniziativa è di abbandonare le piccole colonie di Gaza, da 7.500 coloni in
insediamenti isolati e remoti in zone povere e difficili da difendere, allo
scopo di prendersi un grande pezzo della Cisgiordania, di molto maggiore
importanza strategica ed economica, con più di 210.000 coloni.
Leyla Khaled e
la Palestina di oggi
Stando ai fatti, è
molto probabile che gli israeliani impongano una composizione, se necessario
unilaterale, che ridefinisca gli insediamenti in Cisgiordania alle spalle del
muro e ghettizzi i Palestinesi in un microStato con ciò che resta della
Cisgiordania e di Gaza. Alla fine, il
lemma “prima Gaza” potrebbe tradursi in “solo Gaza”. Dopotutto, Le Monde
e The New York Times pensano che “israele” non voglia che il
muro, largo 6-700 km e costruito ad un costo di 1,4 milioni di dollari per km,
funzioni esclusivamente come un muro di frontiera ? Questo lascerebbe agli israeliani una buona parte della
Cisgiordania e almeno la maggioranza degli insediamenti ebraici in questo
luogo, che occupano una posizione decisiva per controllare l’acqua ed il
sistema dei trasporti di tutta la zona. I Palestinesi [in questo caso] saranno
prigionieri in ciò che rimane della sua stessa terra, dietro il gigantesco muro
che accerchierebbe Gaza e a quello che rimane della Cisgiordania, in mezzo al
territorio controllato da “israele”.
Nella partecipazione originale del Mandato Palestinese britannico del
1948, dell’ONU, “israele” ricevette il 50% ed i Palestinesi l’altro 50% del
territorio. Dopo la guerra che seguì alla divisione ed occupazione del 1967
della Cisgiordania e di Gaza, “israele” mantenne il 78% del Mandato Palestinese. Con la occupazione della porzione della
Cisgiordania che sta dietro al muro, “israele” terrebbe tra l’80% e l’85% della
terra. I Palestinesi rimarrebbero con
l’amara consolazione di ricevere quello che Sharon chiamò con sfacciataggine
“gli attributi di uno Stato”, il che significa che una bandiera ed un inno
nazionali nel loro stesso bantustán nello stile dell’apartheid sudafricano.
L’imposizione
unilaterale di tale sistemazione in Palestina sarebbe una manovra
disperata degli israeliani e in un certo senso, una ammissione della impotenza
degli israeliani e dei suoi amici imperialisti. Dalla fine degli anni ’80, quando i Palestinesi nei campi
profughi incominciavano le massicce battaglie della prima Intifadah, “israele”
e gli Stati Uniti hanno previsto che, per porre fine alla Resistenza
Palestinese, non avranno alcuna possibilità salvo quella di giungere ad un
accordo con una Amministrazione Palestinese docile. Questa è stata la logica degli accordi di Madrid e di Oslo, e del
cambio di rotta.
È possibile che
“israele” lanci una manovra unilaterale. Da una parte, considera che ci sono
alcuni fattori a suo favore, come una certa iniziativa che hanno in mente gli
imperialisti yankee dopo la occupazione militare dell’Iraq e la pressione che
hanno potuto esercitare su re Assad di Siria e i mullah iraniani. E gli israeliani affrontano nuove
difficoltà. La immigrazione ebraica si
è fermata davanti al risveglio della Seconda Intifadah ed è al livello minimo
degli ultimi 15 anni; il turismo ha collassato; l’economia è in crisi; e
appaiono crepe nel “monolitico esercito israeliano”, giacchè centinaia di
riservisti ed alcuni ufficiali si sono rifiutati di andare nel Territori
Occupati.
Nell’ultimo anno nei
circoli governativi israeliani è aumentato il consenso ad una “separazione”
unilaterale dai Palestinesi ed ad asserragliarsi dentro delle “frontiere
difendibili”, e lasciare in qualche modo loro un “miniStato”. Questa fu una piattaforma importante del
partito laburista nelle elezioni presidenziali del 2003. Sharon,
indipendentemente dall’aver appoggiato la espansione sionista in tutta la
Palestina, da parecchio tempo sostiene una soluzione come questa. Così, da due anni, si oppone alla
risoluzione del partito likud sostenuto dall’ex primo ministro Netanyahu contro
questo Stato. È chiaro che, per Sharon, la fase due, che fa appello alla
istituzione di uno Stato palestinese “provvisorio” in mezzo a poco meno della
metà della Cisgiordania, è ciò che rende praticabile il cambio di rotta. Puede che Sharon tenti di trincerare le
forze israeliane, per esempio nelle colonie illegali, dietro la scusa della
sicurezza, lasciare ai Palestinesi l’istituzione di un microStato nella Gaza e
aprossimativamente la metà della Cisgiordania, e quindi proclamare che è si è conclusa
la fase due del cambio di rotta ed assicurare che questa soluzione
“provvisoria” sia “permanente”.
Il lavoro che costa
loro l’ottenere una soluzione [?] che ponga fine al conflitto violento in
Palestina, si deve fondamentalmente al fatto che la causa degli imperialisti e
dei sionisti è ingiusta. Ma c’è di più.
Nel mondo attuale, ogni causa delle classi dominanti è ingiusta … ma non tutte
le classi dominanti impattano la impalcabile resistenza che i sionisti affrontano
giorno per giorno. La situazione dei
Palestinesi rappresenta in molte forme una concentrazione dei crimini
dell’imperialismo: l’espulsione di un popolo intero dalle loro terre, espulso
dalle sue case e obbligato a vivere nei campi
profughi, e lo sviluppo di uno Stato colono nella principale avanzata
armata dell’imperialismo occidentale nella regione, di cui alcuni milioni di
coloni europei dominano decine di milioni di arabi.
Chiunque abbia vissuto
subito la ruberia, l’intimidazione e il maltrattamento, chiunque abbia sofferto
la frusta dell’oppressore o che abbia dovuto assistere con impotente
furia mentre l’oppressore armato umilia e disprezza i suoi fratelli e
sorelle, vede nella Palestina la propria condizione. La ribellione dei Palestinesi, il negarsi alla resa, al di là di
quelli che appaiono come ostacoli insuperabili, ispira milioni di loro
ad esaminare ancora la loro propria situazione, e, in alcuni casi, a verificare
le possibilità di resistere laddove precedentemente si pensava non ve ne
fossero.
Il Popolo Palestinese
sta affrontando, forse, il più intenso e globale colpo di tutta la storia. I
sionisti e gli imperialisti sperano di aver massacrato talmente i Palestinesi
che gli diano il benvenuto, o almeno si risolvano a tenersi dell’attuale Stato
palestinese, un microStato soggetto ad una banda di compradores corrotti
in un territorio grande meno di un quarto delle sue terre originali.
Ma i sionisti non hanno
conosciuto la pace e nemmeno la conosceranno. Il centro del problema che
affrontano è che il loro Stato coloniale repressivo si erige sulla terra di un
altro popolo, ed i figli e le figlie della popolazione iniziale, che
raggiungono oggi i 10 milioni, [aspirano a “riconquistare” la “loro patria”],
sentimento molto forte anche nei milioni di rifugiati nei campi profughi. Quantunque Arafat [volesse] concludere un
accordo con il primo ministro laburista israeliano Barak a Taba nel 2000 e
indipendentemente dalla percentuale precisa dei Territori Occupati che
“israele” pose sul tavolo dei negoziati.
Arafat sapeva, come gli imperialisti sapevano, che qualsiasi accordo che
abbandonerà il diritto di ritornare dei rifugiati e formalizzerà la
subordinazione del popolo palestinese in un miniStato, non porterà mai alla
pace. Ironicamente, per questo talvolta
Sharon si propone in maniera unilaterale: così, “israele” potrebbe far sì che
gli elementi feudali e compradores abbiano il miniStato che tanto agognano [su questo argomento della
borghesia Palestinese che prese possesso dell’ANP, una decina d’anni fa
scrissi: “Il processo di pacificazione del conflitto
sionista/palestinese, verte anche sull’abbandono, di parte della borghesia
palestinese, dell’obiettivo dello Stato palestinese. Un abbandono che è logica
conseguenza di fattori intervenuti a modificare lo scenario negli ultimi anni:
il venir meno di appoggi economici e politici, la sconfitta della Guerra del
Golfo, il rischio di un totale isolamento hanno spinto parte della borghesia
palestinese verso l’accettazione degli accordi liquidazionisti, fondati sulla
mutazione dell’obiettivo della conquista dell’identità nazionale palestinese
quale avanguardia del processo di conquista della nazione araba, con
l’obiettivo dell’ “autonomia” palestinese, acquisendo così il diritto a
partecipare alla spartizione delle briciole residuali dei mercati
dell’area. La resistenza palestinese
non ha alternative, e lo ha compreso fin da subito, con la lotta di popolo e
con l’iniziativa della guerriglia, sia in tutto ‘israele’” –all’epoca usavo
ancora il sostantivo al maiuscolo, l’orrore non era ancora abbastanza forte per
l’odio che necessita ovunque oggi- “che nel vicino Libano. Il proseguimento
dell’Intifadah, il carattere repressivo e antipopolare della ‘polizia
palestinese’ a Gaza, l’incessante guerriglia contro l’esercito israeliano, i
coloni, e contro l’Armata del Libano del Sud, lo dimostrano”], senza
dover firmare una proibizione pubblica del decreto di far ritornare i
palestinesi che ancora stanno nei campi profughi, e così avere un modo di
accettare alcune condizioni che rappresenterebbero una capitolazione assoluta.
I Palestinesi
affrontano oggi forze formidabili, e non hanno una guida [unica riconosciuta],
ed hanno bisogno di fare dei passi ancora per sconfiggere il nemico sul campo
di battaglia, ma non vi sono dubbi che continueranno la lotta e che gli
oppressi del mondo staranno fianco a fianco con loro.
La lotta dei
Palestinesi illustra potentemente la verità di Mao Tse-Tung secondo cui:
“Creare disordini, fallire, creare ancora disordini, fallire ancora, fino alla
loro disfatta: questa è la logica degli imperialisti e di tutti i reazionari
del mondo nei confronti della causa del popolo; essi non andranno mai
contro questa logica. … Lottare, fallire, lottare ancora, fallire ancora,
lottare ancora, fino alla vittoria: questa è la logica del popolo e anch’esso
non andrà mai contro questa logica.” [Cinque interventi per l’Agenzia
Hsinhua in occasione della pubblicazione del libro bianco del dipartimento
Abbandonate le illusioni, preparatevi alla lotta; 14 agosto 1949; articolo
facente parte di un gruppo di di Stato degli USA e della lettera di Dean
Acheson, in Opere di Mao Tse-Tung, vol.11, pag. 137-144, Ed.Rapporti
sociali]
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