www.paolodorigo.it/ClasseOperaia.htm

www.prolcom.org/

 

LA FORNASA DI NOVENTANA E I SUOI LAVORATORI

di Severino Gambato, compagno marxista-leninista

ricevuto il 29 giugno 2006 durante la trasmissione a Radio Cooperativa

 

Il programma di trasformare l’area della Fornasa a Noventana in parco pubblico è sicuramente un passo avanti per il recupero di una parte importante anche della storia sociale e lavorativa di questa zona.

La struttura della Fornasa era ormai vecchia, ma era rimasta simbolicamente in piedi a ricordare a tutti la propria maestosità e le vite dei lavoratori che al suo interno si erano consumate.

In effetti, la Fornasa raccoglie in sé degli elementi che ricordano la sua cultura operaia fatta di lotte e sofferenze.

La Fornasa nasce e si sviluppa tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento insieme con il Calzaturificio Voltan, essa costituiva la principale attività produttiva a livello industriale dell’area. La Fornasa non è solo una storia di sfruttati, ma anche di lotte estese che hanno segnato la storia dei rapporti lavorativi.

È doveroso ricordare i sacrifici passati dai fornasieri impegnati in un lavoro duro e massacrante con orari prolungati “da un sole all’altro”.

La terra veniva scavata dai campi circostanti con i badili; si riempivano poi i carrelli sistemati in una piccola ferrovia, “il lavoro in cava”, che trasportava il materiale nel “Monte”.

Ogni carrello doveva essere riempito a mano da un unico lavoratore in tempi strettissimi, venti minuti; chi non riusciva a stare ai tempi doveva cercarsi un altro lavoro.

La cava era il posto in cui i nuovi arrivati “disoccupati” mandati dall’ufficio di collocamento iniziavano a lavorare, quando si apriva la stagione primavera-estate si lavorava, autunno-inverno quasi tutti rimanevano a casa.  All’arrivo dei nuovi operai in cava, i più anziani dicevano “te gaiu manda qua a caricar carei ?  I o fa’ per provarte.   Se no te ve, i te manda a casa”.

Tra i molti c’era chi non era abituato al duro e pesante lavoro ed erano costretti a rinunciare.

Gli uomini erano immersi nel Monte, dove la terra veniva bagnata per impastarla e renderla adatta a fare le pietre.

Nei banchi, i maestri mettevano la terra che non doveva essere né troppo secca né troppo bagnata per gli stampi.

Le pietre venivano poi “calate nell’Aia”, mestiere che era assegnato ai giovani, spesso bambini dai 9 ai 10 anni; “caeare piere”, era detto questo lavoro.

Si lavorava prevalentemente a mano anche se progressivamente furono introdotte macchine alquanto rudimentali che costituivano una fonte di pericolo ulteriore per i lavoratori.

In effetti, diversi lavoratori sono stati menomati perdendo le loro mani o addirittura le braccia, con conseguenze tragiche per tutta la vita dato che non c’era nessuna assicurazione che tutelasse i lavoratori infortunati.

Alcuni dei menomati, per vivere continuavano a lavorare lo stesso, mentre altri erano ridotti “a carità”.

Si potrebbe scrivere la tragica storia di ognuno, ma un esempio è bene ricordarlo: Antonio Gambato perdette un braccio e riuscì a sopravvivere grazie al lavoro della moglie Eva e dei suoi figli impegnati in un lavoro estenuante nei pochi campi vivendo di ristrettezze.

A Eva si dovrebbe assegnare una medaglia d’oro al valor civile.

Anche nei forni dove il materiale veniva cotto, il lavoro era pesante.

Il materiale veniva posto all’interno dei forni e poi riposto nei carrelli quando era cotto.

I lavoratori erano esposti a forti calori e al cambiamento continuo di temperature.

Gli addetti a questa mansione avevano spesso delle fasciature alle mani perché la pelle delle dita si consumava nel manovrare le pietre ruvide.

La polvere presente in maniera diffusa provocava problemi ai bronchi ed ai polmoni. I fochisti che alimentavano il forno a carbone erano esposti a gravi rischi.

L’operaio Paolin, ad esempio, che lavorò nei forni per molti anni ebbe tragiche conseguenze con ripetute bruciature sul corpo esterno e una morte precoce dovuta sicuramente al lavoro, anche se mai riconosciuta ufficialmente.

In questa situazione di intenso sfruttamento con bassi salari e senza diritti il malcontento aumentava fino a che alcuni lavoratori contattarono il miglior membro del Partito socialista della zona, il ferroviere Silvio Barbato che si adoperava per organizzare i proletari.

Si era negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale.

In seguito moltissimi fornasieri vennero chiamati alla guerra, a partecipare cioè a quella carneficina, molti non sono più tornati.

Al ritorno i fornasieri trovarono la fornace pronta a riassumerli.

Con la fine della guerra e la ricostruzione vi era infatti molta richiesta di materiale da costruzione.

Grazie alla vicinanza del canale navigabile Padova-Venezia, molta produzione poteva essere spedita celermente nella zona di Mestre e di Marghera.

I reduci della lunga guerra dopo aver passato molti rischi e tribolazioni, spesso più di tre anni di trincea, e avendo ascoltato le prediche dei comandanti che li incitavano a combattere e dare la vita per la patria, tornarono arrabbiati per qullo che avevano visto e patito.

Il ritorno al lavoro nella Fornasa avvenne quindi in una situazione nella quale i reduci non avevano più intenzione di stare zitti e di accettare ogni cosa.

Il numero dei dipendenti nel frattempo era in aumento arrivando a 200-300 persone.

I lavoratori si misero nuovamente in contatto con il Partito Socialista e la CGL formulando delle richieste precise: otto ore di lavoro, salario adeguato, democrazia nei rapporti con la padrona e i capi, assicurazione per malattie e infortuni e pensione.

Su questa piattaforma di richieste venne eletta la Commissione interna composta da Antonio Moscato, Mosè Gogna e  Giuseppe Gambato.

I padroni Morandi cercarono di convincere i lavoratori che le loro richieste non potevano essere soddisfatte perché i guadagni erano pochi.

Ma i lavoratori, aiutati dalla CGL, sapevano far di conto e dimostrarono che le richieste magari gradualmente potevano essere soddisfatte.

Gli incontri tra i padroni e i membri della Commissione interna si ripetevano senza risultati costringendo i lavoratori a entrare in lotta con scioperi anche duri.

D’altra parte, la padrona cercava di sostituire gli scioperanti con crumiri provenienti da altre aree, ma senza riuscirci.

Intanto in Italia la questione dei diritti trovava il padronato disposto a tutto pur di non mollare sui profitti. Iniziarono a formarsi così squadre di teppisti in camicia nera al soldo dei padroni.

Dopo una riunione tra Commissione interna e direzione svolta alla fine della giornata lavorativa, all’uscita dell’ufficio i membri della Commissione interna furono aggrediti da una banda di fascisti.

I fornasieri si trovarono quindi ad affrontare non solo il padrone, ma anche le squadre fasciste.

Non mollarono e continuarono a lottare anche se i fascisti erano protetti dalla forza pubblica.

Nessuno infatti puniva i fascisti che giravano armati, mentre al contrario la lotta operaia venva considerata contro l’ordine pubblico.

Anche dopo la “marcia su Roma” i lavoratori non si piegarono.

In Fornasa i fermenti antifascisti continuarono e molti lavoratori parteciparono poi alla lotta di resistenza.

La mancanza di manodopera durante il periodo della Seconda guerra mondiale portò all’assunzione di molte donne che non furono da meno per combattività dei loro compagni negli anni precedenti.

Anche dopo la Liberazione i fornasieri sono stati un elemento centrale nella diffusione di idee socialiste, comuniste, nonché dell’organizzazione sindacale.

In effetti tutto quello che avveniva dentro la Fornasa si ripercuoteva poi nel territorio ed è per questo che Noventana ha sempre costituito un punto rosso nella zona.

È questa anche la storia che ci piacerebbe venisse raccontata in occasione dell’inaugurazione del nuovo parco della Fornasa.

SEVERINO GAMBATO

049-503929