Il 12 gennaio è prevista l'udienza che deciderà l'ultimo capitolo della
vicenda Marcello Lonzi: se riaprire il caso in base alla controperizia
medica presentata o archiviarlo definitivamente. La morte di Marcello
non è, purtroppo, un caso isolato, i pestaggi in carcere non sono certo
un evento raro e a volte può succedere che "ci scappi il morto"; nel
carcere di Livorno però, nei due anni precedenti l'uccisione di
Marcello, la sequenza di suicidi e di morti "sospette" è stata a dir
poco impressionante

Marcello, molto probabilmente, è stato ucciso durante un pestaggio come
quelli che sono stati effettuati sistematicamente a Sollicciano nei mesi
di ottobre/novembre 2005. Le due storie del resto hanno alcuni elementi
in comune, oltre alla violenza gratuita.

Il primo elemento di continuità è il Dott. Cacurri, direttore del
carcere Le Sughere al tempo della morte di Marcello e direttore di
Sollicciano al tempo dei pestaggi e ancora oggi.

Altro elemento che accomuna le due storie è la strenua volontà di
mettere tutto a tacere, di fare finta che non sia successo niente, di
non far trapelare niente all'esterno.

Un atteggiamento che se può essere "comprensibile" da parte della
direzione e degli agenti (lo spirito di corpo innanzi tutto), lo è molto
meno da parte di altri soggetti che in carcere entrano quotidianamente.

Possibile che medici, infermieri, educatori, assistenti sociali non
abbiano proprio nulla da dire?

Chi lavora in carcere sa praticamente tutto di quello che succede
all'interno. Se non parla, è perché è inserito nei meccanismi omertosi
dell'istituzione carceraria: teme di perdere il posto, teme di mettere
in discussione i rapporti con direttori, comandanti, agenti e altri
operatori; o semplicemente condivide quanto accade.

Ma si può tacere di fronte alla morte di un ragazzo? Si può tacere
davanti a pestaggi sistematici?

Nel caso di Sollicciano anche una parte del volontariato ha assunto
questa posizione: pur avendo la certezza di quanto successo, alcuni
volontari hanno cioè taciuto, giustificando il loro silenzio come una
salvaguardia per i detenuti, per "non esporli ad ulteriori ritorsioni".
Ritorsioni che sono ovviamente possibili, ma tacere non vuol dire forse
legittimare le violenze, riconoscere che dentro il carcere non esiste
tutela possibile, consolidare nei torturatori la certezza della loro
impunità?

Le autorità penitenziarie considerano il carcere come un proprio feudo
impenetrabile, protetto da muri di cinta contro i quali si infrangono i
tentativi di conoscere ciò che succede all'interno; da muri di gomma che
riducono al silenzio i tentativi di accertare la verità e di ottenere
giustizia per quanto accade all'interno.

Non sempre è così. La caparbietà della madre di Marcello ha permesso che
questa morte non sia passata sotto silenzio come chissà quante altre,
nonostante le archiviazioni, le intimidazioni e le minacce personali. E'
la caparbietà di una madre che cerca la verità anche perché altri non
debbano fare la stessa fine di suo figlio.


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