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DAL 1985 al 2010
14-4-2010
- LA CADUTA DEGLI “DEI”
FINALMENTE UN RAPPRESENTANTE DELLO STATO ITALIANO
PRESENTA IL CONTO A GIAMPAOLO GANZER
egregio emergenzialista pessimo
italiano ? 08.02.1985 DO YOU REMEMBER ?
Zorooo,mezzobiondoemezzomoro…
GRAN PARTE DI QUESTO COLLAGE E' COSTITUITO DA
ARTICOLI DI REPUBBLICA, CHE TUTTAVIA NEL SUO ARCHIVIO NON HA CITATO GANZER A
PROPOSITO DELLE SUE MONTATURE VENETE QUANDO PERSEGUITAVA I PROLETARI ED I
COMUNISTI. ABBIAMO CERCATO DI COMMENTARE CON IRONICA SERIETA' LE ATTIVITA' DI
QUESTO PERSONAGGIO CHE NON VUOLE ANDARE IN PENSIONE...
GANZEREIDE-media
RO$$
2010
Processo al
comandante del RO$$ Giampaolo Ganzer: La
Procura di Milano chiede 27 anni di reclusione
Avrebbe organizzato e gestito un'associazione criminale dedita allo spaccio
internazionale di stupefacenti e altri reati
http://www.spoletonline.com/?page=articolo&id=131104
di Daniele Ubaldi
Associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al
falso e ad altri reati, con lo scopo di realizzare una rapida carriera.
Un'associazione che sarebbe stata composta da
ufficiali e sottufficiali dei carabinieri del Ros -
raggruppamento operativo speciale - in combutta con alcuni malavitosi. Queste
le pesanti accuse rivolte dal pm di Milano Luisa Zanetti a Giampaolo Ganzer, comandante
del Ros, lo stesso reparto che - il 23 ottobre del
2007 - organizzò l'operazione paramilitare che portò
all'arresto di Michele Fabiani e degli altri 4
ragazzi di Brushwood.
Al termine dell'udienza di ieri, la Zanetti ha
chiesto ai giudici di Milano di spiccare 18 condanne tra i 5 e i 27 anni di
reclusione. Le due più pesanti, appunto da 27 anni di carcere, sono per lo stesso Ganzer e per
Mauro Obinu, anche lui in precedenza nel Ros e poi passato al Sisde. I
fatti cui si fa riferimento risalgono tra il 1990 e il 1997
In particolare, il 9 dicembre del 1993 Ganzer e Obinu, che secondo la procura "promossero e
diressero" l'associazione criminale, avrebbero importato
in Italia, a bordo della motonave Bisanzio, salpata
da Beirut per Ravenna, "119 kalashnikov, 2
lanciamissili, 4 missili e munizioni". Tutti gli armamenti sarebbero stati
venduti alla malavita organizzata: parte del ricavato sarebbe
poi servito ad acquistare stupefacenti "da utilizzare per giocare a
fare i finti trafficanti in modo da incastrare quelli veri", mentre il
resto sarebbe stato spartito fra i componenti dell'associazione criminale. Pare
che anche i narcos colombiani e libanesi avrebbero fatto parte dell'affare, che prevedeva anche una
serie di cosiddetti "blitz" ai danni di pesci più piccoli, e con il
recupero di modeste quantità di droga. Infine, Ganzer
e i suoi sono anche accusati di essere andati oltre i limiti della legge che
consente l'uso degli infiltrati e il ritardo nei sequestri di droga per
arrivare ai vertici delle bande.
Nessun commento da parte del generale, che si è limitato a
dichiarare: "Continuo con la serenità e l'impegno di sempre a fare il mio
lavoro".
2
2009 un lavoro comunque
interessante, con i book delle prostitute ...
quello che dovrebbe essere
compito della buoncostume o di una normale polizia urbana, diventa necessario
muovere i RO$$
"Aborti per le
prostitute, due medici arrestati"
Repubblica — 25 giugno 2009 pagina 15 sezione: ROMA
TARIFFE dai 300 ai 2.500 euro per far abortire (spesso in fase di gravidanza
già avanzata) le schiave del sesso arrivate dalla Nigeria. Sono finiti agli
arresti domiciliari due "camici bianchi" con studio a Villa Bonelli: un uomo
di 76 anni, E.F.T., medico di base e una donna di 48, M.T., otorino. I
carabinieri dei Ros hanno la prova di almeno 27 interruzioni di gravidanza
clandestine nel giro di soli quattro mesi ma gli aborti potrebbero essere
stati molti di più. L' inchiesta, intitolata "Foglie nere" è stata coordinata
dalla procura di Ancona, è durata almeno due anni e ha permesso di
ricostruire, spiega il generale Giampaolo Ganzer, comandanemissari dell'
organizzazione che esaminavano i loro book fotografici. Ciascuna di loro
pagava una media di 40 mila euro. Una cifra enorme che rendeva le giovani
donne schiave, per annie anni, dei loro aguzzini. Il sistema, ormai
collaudato, per fiaccare la volontà e domare, fin dall' inizio, qualunque
velleità di resistenza erano i terribili riti voo-doo praticati dalle "Maman",
vere e proprie kapò che governavano con mano di ferro. Con i documenti falsi
forniti dalla gang, le giovani donne arrivavano via terra, attraverso l'
Olanda o la Francia) o per mare da Turchia, Grecia, Libia o Marocco. Una
trentina di "schiave" sono già entrate nei programmi di assistenza e di
riabilitazione e forse potranno tornare a una vita normale. Forse. te dei Ros,
"L' intera filiera del traffickin", tratta di esseri umani cheè ormai uno dei
business preferiti della grande malavita internazionale. Ben 34 gli arrestati,
molti dei quali africani, in diversi paesi. La banda aveva ramificazioni in
Spagna, Francia, Olanda, Germania, Grecia, San Marino e in numerose regioni d'
Italia ma tutte le donne che restavano incinte durante rapporti sessuali non
protetti (richiesti spesso dai clienti) venivano portate nello studio di Villa
Bonelli per abortire, nonostante la legge che consente (ancora) agli
extracomunitari di presentarsi in ospedale senza rischiare l' espulsione. Le
ragazze (quasi tutte sotto i 20 anni) venivano reclutate dagli -
MASSIMO LUGLI
2008
2007
ARRESTO DI ANTONIO LAGO
IGLESIAS A NOVARA
http://www.paolodorigo.it/2007_08_12_SRPveneto.htm
ARRESTO DI MICHELE FABIANI ED
ALTRI ANARCHICI A SPOLETO
http://www.paolodorigo.it/Questalastoriadiunodinoi.htm
2007
un po' di
allarmismo non guasta mai ...
Al Copaco l' allarme del Sismi Militari a rischio di attentati
Repubblica — 07 marzo 2007 pagina 6 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - «I nostri militari a Kabul sono a rischio di attentati». Palazzo San
Macuto, ieri mattina. È in corso al Copaco, il comitato parlamentare che
"sorveglia" i servizi segreti, l' audizione del capo del Sismi Bruno
Branciforte. La notizia del sequestro del giornalista Daniele Mastrogiacomo
non è ancora stata diffusa. Ma Branciforte descrive già a tinte fosche la
situazione in Afghanistan. Ad ascoltarlo ci sono gli otto componenti del
Copaco. «Le operazioni militari in corso delle truppe Usa ci preoccupano - è
la sintesi dell' intervento del direttore del Sismi - perché hanno innestato
un' escalation di violenza che non può non coinvolgere i nostri soldati». Le
dichiarazioni allarmistiche dell' ammiraglio, e i rapporti riservati del
Sismi che, già da tempo, hanno indicato tra le minacce cui sono esposte le
truppe italiane in missione all' estero gli attacchi kamikaze con autobomba
e i rapimenti, hanno trovato drammaticamente conferma nella notizia del
sequestro del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo catturato in
Afghanistan dal mullah Dadullah. Al Copaco il capo del Sismi ha poi
annunciato un fatto che non può non avere importanti risvolti di politica
internazionale. «Sono fresco di incontri - ha detto - con i responsabili dei
maggiori servizi segreti esteri: c' è voglia di collaborazione e di
ristabilire l' operatività con l' intelligence americana». «Proprio di
recente - ha aggiunto Branciforte - ho incontrato gli esponenti della Cia,
la cui collaborazione aveva avuto momenti di difficoltà a causa delle note
vicende». Il riferimento è alle tensioni dovute alle indagini sul sequestro
Abu Omar e la richiesta di estradizione (non ancora firmata dal ministro
della Giustizia), avanzata dalla procura di Milano nei confronti di una
ventina di agenti Cia. Subito dopo, però, l' ammiraglio ha gelato gli otto
parlamentari che lo hanno convocato denunciando forti difficoltà di gestione
dell' intelligence in seguito al taglio del 40 per cento del budget da parte
del governo, in parallelo con quanto dichiarato qualche giorno prima da
Franco Gabrielli, direttore del Sisde, che aveva lamentato una riduzione
ancor più drastica, del 60 per cento. Questa notizia, in un momento così
critico, ha portato il vicepresidente del Senato, Milziade Caprili, membro
del Copaco, a dire che «dopo l' approvazione della legge di riforma dei
servizi, e alla luce di quanto è accaduto in Afghanistan, va rivisto in
finanziamento all' intelligence». Il sequestro di Mastrogiacomo, per il
presidente del Copaco, Claudio Scajola, «fa parte del complesso scenario
afgano che ora si complica ulteriormente perché è evidente che i taliban
hanno guadagnato nuovi territori. La situazione politica italiana, però, non
cambia». «Ora - ha aggiunto - siamo nelle mani della capacità dei servizi
che io spero sia alta. L' ammiraglio Branciforte ha definito la nostra
presenza in Afghanistan "qualificata". Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia
forte preoccupazione per la vita del rapito». Il Sismi, in Afghanistan, non
è solo a lavorare per la liberazione del giornalista di Repubblica Daniele
Mastrogiacomo. A dare la caccia agli uomini del mullah Dadullah s' è creato
un pool di 007 internazionali. Oltre alla nostra intelligence, infatti, la
più presente nel territorio che si trova fra la provincia di Kandahar e
quella di Hellmand risulta essere in questo momento quella inglese. Sono gli
agenti dell' MI6 che in queste ore stanno riversando ai nostri 007 tutte le
informazioni in loro possesso sull' organizzazione terroristica talibana che
ha rivendicato il sequestro. «Nessuna strada è stata tralasciata - ha
assicurato il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti, con la delega ai
Paesi asiatici, fra cui l' Afghanistan - la nostra intelligence ha attivato
tutti i canali già sperimentati durante il sequestro del fotoreporter
Gabriele Torsello». «Abbiamo una notizia che ci conforta - ammette Vernetti
- che il sequestro è avvenuto senza feriti».
Per individuare il posto nel
quale è tenuto nascosto il giornalista di Repubblica, gli investigatori
(sono presenti anche i carabinieri del Ros del generale Ganzer) potrebbero
chiedere anche la collaborazione dei servizi segreti americani che,
avendo in corso operazioni militari nella zona di Hellmand, hanno tutto il
territorio sotto il controllo elettronico: usano i droni (gli aerei spia che
volano senza equipaggio) e hanno il controllo di tutte le conversazioni
telefoniche. -
ALBERTO CUSTODERO
2007
un morto in
più un morto in meno cosa cambia ?
Droga, accusò i Ros pentito suicida in cella
Repubblica — 21 settembre 2007 pagina 24 sezione:
CRONACA
MILANO - Ha atteso che il suo compagno di cella lo lasciasse solo, poi, ha
riposto una lettera scritta il giorno prima sul tavolino, ha annodato le
lenzuola alla sbarra e si è impiccato. È finita così, lo scorso 29 agosto nel
carcere di Lucca, l' esistenza di Biagio Rotondo, 59 anni, precedenti per
rapine, il pentito che ha dato il via a una delle inchieste più scomode degli
ultimi anni. Quella aperta nel '97 dal sostituto procuratore di Brescia Fabio
Salamone, lo stesso che a più riprese, negli stessi anni, aveva chiesto, senza
riuscirvi, di portare a processo l' attuale ministro Antonio Di Pietro. Il
filone, però, nel 2001 è stato trasferito dalla Cassazione per competenza al
tribunale di Milano. L' accusa sostiene come il Reparto operativo speciale dei
Carabinieri (il Ros), dagli inizi degli anni '90 abbia inventato una serie di
blitz antidroga per fare carriera e, in alcuni casi, per spartirsi coca e
denari. A iniziare dall' attuale numero uno dei Ros, il generale Giampaolo
Ganzer, all' epoca dei fatti comandante della sezione responsabile delle
operazioni antidroga. Ma tra la quarantina di imputati, c' è anche un' intera
squadra investigativa in servizio a Bergamo, diversi fedelissimi di Ganzer e
anche un pm antimafia, Mario Conte, oggi trasferito a Brescia. Accuse
pesantissime, che vanno a vario titolo dall' associazione a delinquere al
falso, per finire al riciclaggio e al traffico di stupefacenti. «Non vi ho mai
tradito», ha esordito nella sua ultima lettera il pentito, rivolgendosi ai pm
di Milano, ma anche a Salamone, che avevano sempre creduto nelle sue
confessioni. Rotondo era stato arrestato il 24 agosto con l' accusa di
detenzione abusiva di armi e ricettazione. Durante un controllo a sorpresa,
era stata rinvenuta una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo fuori dal
ristorante in cui aveva ottenuto un lavoro da cameriere mentre scontava una
precedente condanna agli arresti domiciliari. «Confermo che tutto quello che
ho detto corrisponde a verità - ha scritto riferendosi alle dichiarazioni che
hanno dato la stura alle indagini - ritrovarmi in carcere senza aver fatto
nulla è per me insopportabile». Rotondo si rammarica poi del fatto che la
nuova detenzione lo avrebbe portato alla «perdita di tutto quanto ha costruito
con amore e speranza». «Vi scrivo - conclude rivolto ai magistrati - per farvi
sapere che non vi ho mai tradito». La missiva è stata letta ieri in aula,
davanti al collegio dell' ottava Sezione penale di Milano, dal pm Luisa
Zanetti, che così ha dato la notizia del suicidio. A lanciare ombre sul
suicidio, sempre ieri è stato il legale del pentito, Mario Di Ielsi: «Si
sentiva incastrato», ha affermato l' avvocato, facendo intendere che l'
arresto effettuato quasi un mese fa appariva in realtà più come una trappola.
Il legale ha riferito che nella lettera inviata ai magistrati milanesi,
Rotondo ha proclamato la propria innocenza riguardo alle accuse che pochi
giorni prima del suicidio lo avevano riportato in carcere. Dal punto di vista
processuale, però, non cambia nulla. Le sue dichiarazioni saranno comunque
utilizzabili: verranno considerate "atto non ripetibile", come prevede il
codice. - EMILIO RANDACIO
2006
GUANTANAMO: "Così il Ros informò i pm"
Repubblica — 20 ottobre 2006 pagina 18 sezione: POLITICA
INTERNA
MILANO - La missione dei carabinieri a Guantanamo è agli atti del processo. In
un' informativa del Ros di Torino per il processo carico di tre MAGHREBini
accusati di terrorismo internazionale, ci sono due riferimenti a
«interrogatori» del Ros a detenuti di Guantanamo. Ieri i passaggi dell'
informativa sono stati indicati al pm, Elio Ramondini, dal generale Giampaolo
Ganzer, indicato mercoledì dal maresciallo dei Ros come colui che autorizzò la
missione in terra cubana, nel novembre del 2002. L' informativa del Ros risale
al 29 ottobre 2003, è firmata dal colonnello Vittorio Santoni, uno dei quattro
carabinieri che sarebbero andati a Cuba.
2006
LA DELICATEZZA DELLE MANSIONI
AFFIDATE A GANZER
DA CHI ?
CASO PIRELLI-TELECOM
Gli affari segreti della banda dei tre
Repubblica — 21 settembre 2006 pagina 1 sezione: PRIMA
PAGINA
L' AFFARE Telecom, come sino ad oggi lo si è chiamato e per come ora viene
ricostruito e documentato nelle carte del gip di Milano Paola Belsito, è la
storia nera di una formidabile macchina di raccolta illegale di informazioni
sensibili e del loro uso altrettanto abusivo. Un triangolo perfetto. Ai suoi
vertici, la prima azienda telefonica del Paese e la sua controllante Pirelli;
il servizio segreto militare, il Sismi; l' agenzia di investigazioni private
"Polis distinto" di Emanuele Cipriani. Al centro, la politica, l'
imprenditoria, il mondo delle professioni, giù fino ai semplici cittadini in
cerca di primo impiego. SEGUE A PAGINA 3 Decine di migliaia di nomi,
imprigionati nel dossieraggio informatico, schiacciati dal ricatto, dall'
intimidazione, dalla manipolazione. La storia può apparire complessa. In
realtà, tirandone il filo che la attraversa, svela una trama lineare che, alle
origini, ha un' impronta familistica. Giuliano Tavaroli, Marco Mancini,
Emanuele Cipriani - i protagonisti dell' affare - sono tre uomini legati da
un' amicizia antica. Tra la fine degli anni ' 70 e i primi anni ' 80, i primi
due faticano da carabinieri nella caserma di via Moscova, a Milano. Cipriani,
che dei tre è il ragazzo nato bene, si fa notare per zelo e capacità in una
filiale di banca. Dividono il poco che hanno e le grandi ambizioni che
coltivano. Ma hanno teste molto diverse. Tavaroli e Cipriani litigano già
allora ai tavoli delle pizzerie, dove il primo, rimproverato dall' amico di
lasciare troppa mancia, lo apostrofa con l' accusa che è forse un' intuizione
su ciò che li perderà: «Emanuele, sei un avido...». L' avidità muove Emanuele
Cipriani e lo brucia tra la fine del 2004 e l' inizio del 2005. La sua vita,
come quella di Tavaroli e Mancini, è cambiata. Mancini è diventato numero due
del Sismi. Tavaroli si è guadagnato la fiducia di Marco Tronchetti Provera che
lo ha voluto prima alla security di Pirelli e quindi a quella di Telecom.
Cipriani gode dell' una e dell' altra fortuna. Ha messo su a Firenze un'
agenzia di investigazioni private, la "Polis distinto", che si trasforma in
una fabbrica di denari. In 8 anni, tra il ' 97 e il 2004, incassa 20 milioni
di euro da due soli committenti: Telecom e Pirelli. Un fiume di contante di
cui si preoccupa di cancellare le tracce con un sistema di scatole societarie
e conti bancari che gli suggerisce senza troppa fantasia il suo "consulente
finanziario", Marcello Gualtieri, un calabrese di Cosenza con studio di
dottore commercialista a Milano. Le sue due società londinesi "Worldwide
Consultants Security ltd" e "Security Research Advisor ltd." fanno da
collettore del denaro che, attraverso conti della "Barclays Bank" prima, della
"Deutsche bank", poi, transitano per il Principato di Monaco e il Lussemburgo,
per poi approdare in Svizzera, a Lugano, su conti intestati a una società
registrata in Belize (la "Financial corp ltd."). Cipriani ha deleghe su ogni
conto. Non c' è sterlina, franco svizzero o euro che non si muova senza la sua
firma. Cipriani ha due ossessioni: non comparire e risparmiare lì dove è
possibile. Anche quando si tratta di acquistare la casa dove abitare con la
famiglia a Firenze, nella centrale via Jacopone da Todi. Battezza una
"Labirinto srl." che compra per 2 milioni di euro l' immobile che Cipriani va
ad abitare come "affittuario" e che gli consente di grattare un bel gruzzolo
all' Erario. Ma che, nel 2005, fa scoprire il gioco dei conti e sollecita la
domanda che lo perde. Che lavoro fa davvero Emanuele Cipriani? Ufficialmente,
normali verifiche su «singoli» e su «aziende». «Ben pagate», ammette lui, «ma
regolari». Non è così. Laura Giaquinta, segretaria della "Polis" tra il 2001 e
il 2004, racconta alla Procura di Milano: "Esistevano delle pratiche "Z",
chiamate da noi "le celesti", dalla copertina di cartone che le conteneva.
Riguardavano accertamenti richiesti dal gruppo Telecom-Pirelli, ma che
venivano fornite senza un mandato ufficiale delle altre. Venivano trasmesse a
mezzo fax all' ufficio security Pirelli inviando prima la pratica ufficiale
spoglia degli accertamenti riservati. Immediatamente dopo, un secondo fax
contenente l' appunto "bianco" partiva alla volta dello stesso fax senza alcun
riferimento e con le iniziali delle persone che li riguardavano». E' il lavoro
"nero" di Cipriani. Il suo vero lavoro. Che lui organizza e quindi commissiona
in sub-appalto a finanzieri, carabinieri, poliziotti che arrotondano lo
stipendio con intrusioni nel casellario giudiziario, negli archivi del
Viminale, nelle banche dati patrimoniali e che lui archivia meticolosamente su
tre hard disk, protetti da password e custoditi in cassaforte, in un' ala
della sede della "Polis distinto", che Cipriani ritiene inaccessibile avendola
adibita a sede del "Consolato del Ghana". I nomi sono decine di migliaia.
Banchieri, imprenditori, politici, professionisti, calciatori, semplici
aspiranti a un impiego in Telecom. Schedati individualmente e per "operazioni"
("Filtro", "Scanning", "Garden"). La Procura di Milano, che del dvd è in
possesso, né è venuta a capo solo parzialmente («Solo una piccola parte delle
pratiche è stata analizzata»). Quanto basta per far scrivere al gip che l'
archivio «ricorda la colossale attività di schedatura messa in atto dalla Fiat
nel lontano 1971». Naturalmente, Cipriani non fa nulla di testa propria. Ogni
mossa, compresa quella che affida alla "Polis distinto" la sicurezza personale
di Tronchetti Provera e della sua famiglia, è decisa e commissionata dall'
amico Tavaroli. Che, del resto, deve rendere conto a pochi. Solo al vertice
dell' azienda. Armando Focaroli, presidente di "Telecom Italia Audit",
racconta alla Procura di Milano: «Quelle di Cipriani erano operazioni "fuori
sistema" che non passavano attraverso l' Ufficio acquisti. Tavaroli non era
tenuto a riferirne». Del resto, Tavaroli è lo snodo decisivo e più delicato
del triangolo perfetto in cui le informazioni devono essere rubate,
manipolate, utilizzate. Porta in dote il libero accesso alle comunicazioni
telefoniche grazie a sistemi aziendali che non lasciano traccia. Non solo
"Radar", come sin qui si è pensato, ma anche il "Sistema magistratura". Dunque
è libero di muovere d' iniziativa e da una posizione di forza. Con la mano
sinistra usa Cipriani per il grosso del lavoro "nero", quello di marciapiede,
beneficiandolo dell' unica cosa che chiede, soldi. Con la mano destra, scambia
con il Sismi e reimmette nel circuito delle informazioni riservate ciò che in
questo modo ha illegalmente raccolto o intende accreditare. E lo fa con l'
amico Marco Mancini, numero due del Servizio. E' un gioco semplice che spiega
bene alla Procura di Milano il tenente colonnello D' Ambrosio, ex capocentro
Sismi di Milano: «Mancini trasmetteva notizie riservate a Tavaroli, che a sua
volta le veicolava a Cipriani. Tavaroli incaricava Cipriani di lavorare su
quelle notizie e quindi le ritrasmetteva a Mancini. In questo modo, Mancini
otteneva la conferma delle notizie fornite al Sismi, ricevendo una
certificazione idonea ad accreditarle presso i suoi superiori». Naturalmente,
anche Cipriani incontra direttamente Mancini. «Al casello autostradale per
mangiarsi un panino con la cotoletta», dice lui. Testimoni della "Polis"
raccontano alla Procura un' altra storia. Mancini era la fonte indicata da
Cipriani con il nome in codice "Nostri mezzi". Quando Cipriani si brucia per
avidità, il gioco potrebbe finire. Ma le cose non vanno così. La "Polis" viene
rimpiazzata dalla "Global Security" di Marco Bernardini. Un altro "free lance"
dello spionaggio nero abituato a lavorare fuori dalle regole. Lo fa per un po'
, aprendo pratiche sul conto di De Benedetti, Della Valle, Gnutti, Benetton.
Fino a quando non si sente perduto. Si presenta alla Procura di Milano e
confessa. Racconta di quando Tavaroli, nel dicembre 2004, «era stato avvertito
dal suo collaboratore Angelo Iannone che, secondo le informazioni avute dal
generale Ganzer (comandante del Ros, ndr.), si sarebbe abbattuto un uragano».
Racconta di una notte nei giorni di Natale 2004, quando in un gigantesco falò
acceso a Lonate Pozzolo, vicino alla Malpensa, viene distrutto tutto il
materiale "Polis" e "Global" ancora in possesso di "Telecom" e "Pirelli".
Svela un ultimo ricatto di Cipriani. Quello che lo perde e perde i suoi amici.
Dice Bernardini: «So che Cipriani ha chiesto denaro al gruppo Telecom Pirelli
per non riferire la password del dvd del suo archivio sequestrato dalla
magistratura, aggiungendo che avrebbe anche dichiarato di aver dato parte dei
soldi da lui ricevuti a Tavaroli. Il gruppo ha ritenuto di non compensare
Cipriani, ma questa circostanza ha comportato il definitivo siluramento di
Tavaroli, perché per l' azienda era stato lui a creare il problema Cipriani».
- CARLO BONINI
2006
ARRESTANO I "BRIGATISTI" CHE
NON MILITANO, OSSIA ARRESTANO PER LE IDEE NON PER I REATI, UN VEZZO DEL GIOVANE
GANZER CHE TORNA ALLA LUCE
l' allarme
Repubblica — 10 dicembre 2006 pagina 13 sezione: CRONACA
ROMA - L' arresto di Fabio Matteini va inserito nel quadro di un' azione
«preventiva» dello Stato per impedire alle Br di riorganizzarsi e riprendere
l' attività terroristica. Lo sottolinea il comandante del Ros dei Carabinieri,
generale Giampaolo Ganzer, ricordando che a tutt' oggi l' arsenale delle Br,
comprese le armi che hanno ucciso Massimo D' Antona e Marco Biagi, non è mai
stato ritrovato. «Il lavoro continua», ha spiegato il generale: «Dobbiamo
approfondire e continuare ad indagare per cercare di ricostruire l' intera
rete di contatti». Contatti che lo stesso Matteini ha ammesso, senza però fare
i nomi. C' è però, secondo il generale Ganzer, un punto certo da cui partire:
«La genesi di quest' ultima struttura neo brigatista - spiega - va ricercata
nei Nuclei comunisti combattenti, sostanzialmente radicati in Toscana». L'
arresto di Matteini non è solo un' azione repressiva ma anche preventiva.
«Dobbiamo impedire - ha ribadito il comandante dei Ros - la possibilità che le
Brigate Rosse si riorganizzino e riprendano l' attività, nonostante non siano
riuscite ad aggregare altre componenti».
2006
GanZer:
“su Tavaroli fui solo facile pro$eta”
Repubblica — 22 settembre 2006 pagina 4
sezione: POLITICA INTERNA
ROMA - Davvero il comandante del Ros,
il generale Giampaolo Ganzer, informò nel dicembre
2004 che le fortune di Giuliano Tavaroli stavano per
tramontare? E in che termini? E' vero che consegnò l' informazione a un suo ex ufficiale, Angelo Iannone, passato dai ranghi dell' Arma alla security di Telecom? E se è così,
che ne fu di quell' informazione? La catena di domande sollevata dalla
"confessione" di Marco Bernardini (titolare
della "Globus", l' agenzia
di investigazioni private subentrata alla "Polis" di Cipriani nel disbrigo del lavoro nero per conto di Telecom e Pirelli) alla Procura
di Milano trova il giorno dopo qualche faticosa risposta. Qualificate fonti
ufficiali vicine al generale Ganzer riferiscono che
il comandante del Ros «non ha mai potuto riferire
alcuna notizia sull' inchiesta Tavaroli
per il semplice motivo che non ne ha mai avute». Che è dunque «pronto a
rispondere alle domande dei magistrati, se ve ne saranno», per spiegare che,
«per quel che oggi è possibile ricostruire», quel che sarebbe accaduto fu
nient' altro che «un affettuoso e informale consiglio a
un ex ufficiale del Ros come Iannone,
per anni stimato comandante di reparto, di tenersi lontano da Giuliano Tavaroli, per il quale non era difficile immaginare un
futuro di guai». Un fatto sembra certo, per quanto almeno documentano gli atti
della Procura. Iannone, come ha riferito lo stesso Bernardini, non riferì la "profezia" del generale
a Tavaroli, che venne a sapere indirettamente di quel
colloquio soltanto dopo essere stato perquisito per ordine della Procura di
Milano.
2006
Per Cuffaro 153 testi eccellenti la sentenza sempre più lontana
Repubblica — 03 maggio 2006 pagina 2 sezione: PALERMO
Dovranno venire in aula a raccontare del suo impegno antimafia e delle
iniziative per rafforzare la presenza delle forze dell' ordine nei quartieri
ad alta densità mafiosa come Brancaccio, ma anche della sua «contrarietà a
tutti i centri commerciali». Il presidente della Regione Cuffaro raccoglie un'
altra imputazione e cambia linea di difesa. Primo obiettivo raggiunto:
allungare a dismisura i tempi del processo. Così, come fece Giulio Andreotti,
chiama a rassegna davanti ai giudici del tribunale di Palermo una lunga teoria
di testimoni eccellenti, dal ministro dell' Interno uscente Giuseppe Pisanu al
presidente dell' Antimafia Roberto Centaro, dal capo della polizia Gianni De
Gennaro al suo vice Antonio Manganelli, dal generale Giampaolo Ganzer,
comandante del Ros, al generale di corpo d' armata della Guardia di Finanza,
Umberto Fava. E ancora i questori e i prefetti di mezza Sicilia e una sfilza
di parlamentari regionali e nazionali. Per finire con un collaboratore di
giustizia, quel Mario Cusimano di Villabate che, a differenza del "collega"
Francesco Campanella, dice che la famiglia mafiosa del suo paese non ricevette
mai ordine di sostenere Cuffaro a nessuna elezione. Un elenco lunghissimo, 153
nomi, quello depositato dai difensori di Cuffaro, Nino Caleca e Claudio
Gallina, che il tribunale presieduto da Vittorio Alcamo ha accolto
integralmente disponendo la riunificazione dei due processi a carico del
governatore, quello già in corso da mesi con capofila Michele Aiello, che vede
Cuffaro imputato di favoreggiamento a Cosa nostra, e quello apertosi ieri per
rivelazione di notizie riservate dopo che la corte d' appello ha ritenuto di
accogliere il ricorso presentato dalla Procura contro il proscioglimento
disposto dal gip Bruno Fasciana. Due imputazioni con oggetto gli stessi
identici fatti, cioè la rivelazione, da parte di Cuffaro, delle notizie sulle
indagini riservate che avrebbero favorito Aiello da una parte e il boss
Giuseppe Guttadauro dall' altra. Per questo motivo, i pm Maurizio de Lucia e
Nino Di Matteo hanno chiesto ieri l' unificazione dei due dibattimenti,
concessa dal tribunale nonostante l' opposizione della difesa del governatore.
Che adesso, però, punta ad accendere i riflettori su tutta l' azione di
governo di Cuffaro e non più a limitarsi ai singoli episodi contestati. E così
al ministro dell' Interno Pisanu, il governatore intende far riferire ai
giudici del suo impegno per l' apertura di un commissariato a Brancaccio,
della firma della convenzione per la realizzazione di una cittadella della
polizia a Boccadifalco o dei fondi per la ristrutturazione del gabinetto di
polizia scientifica. Informazioni che saranno chiamati a confermare anche il
capo della polizia De Gennaro e il suo vice Manganelli, il questore di Palermo
Caruso e il suo predecessore Francesco Cirillo. Un commissariato di polizia ma
anche una caserma dei carabinieri nel quartiere del boss Guttadauro. Per
questo Cuffaro chiama i vertici dei carabinieri in Sicilia, a cominciare dal
generale Arturo Esposito mentre al comandante dei Ros Ganzer vuole chiedere se
ha mai ricevuto richieste sulle indagini in corso da persone che non avevano
motivi di ufficio. Dal cilindro dei suoi atti di governatore, Cuffaro estrae
di tutto. Anche i protocolli di legalità firmati con i prefetti di tutte le
province dell' Isola e le nomine dei presidente delle stazioni appaltanti per
evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata. Sugli ultimi due
prefetti di Palermo, Renato Profili e Giosuè Marino, poi, il governatore conta
per dimostrare quella che definisce la sua «contrarietà a tutti i centri
commerciali»: Villabate come Brancaccio, dunque. Testimonianze che, nelle sue
aspettative, dovrebbero smentire le dichiarazioni del pentito Campanella sul
ruolo giocato dal presidente a favore del centro sponsorizzato da Guttadauro
anziché per quello che stava a cuore al boss di Villabate, Nino Mandalà. Nella
nuova lista testi del presidente ci sono anche i componenti del Consiglio
regionale per l' urbanistica e del consiglio comunale di Villabate, ma anche
il suo segretario particolare Fabrizio Bignardelli, il titolare del negozio di
abbigliamenti di Bagheria Bertini, l' ex segretaria del procuratore aggiunto
Lo Forte, Margherita Pellerano, il parroco di Brancaccio, Mario Golesano. In
attesa dell' interrogatorio di Cuffaro, che avverrà subito dopo le elezioni
del 28 maggio, ieri il processo è proseguito con l' interrogatorio di un altro
degli imputati, Domenico Oliveri, il medico dell' Ausl di Bagheria che firmava
le false ricette per le prestazioni in convenzione da effettuare presso le
cliniche di Aiello. Sui suoi conti correnti, i pm hanno trovato milioni di
euro poco compatibili con il suo stipendio da dipendente. E hanno scoperto che
il medico intascava anche il 7 per cento sul fatturato da capogiro delle
cliniche di Bagheria. - ALESSANDRA ZINITI
2006
D'alema gridava sommesso:
"orrore orrore Letta bypassa Ganzer" !!!
le intercettazioni, Sismi, la grande ragnatela tra le spie e i
giornalisti
Repubblica — 28 luglio 2006 pagina 16 sezione: POLITICA
INTERNA
MILANO - L' affresco di un mondo con i suoi nemici, i cortigiani e perfino i
suoi amori. Per tracciare il ritratto di un ambiente e dei suoi protagonisti
ogni epoca ha i propri mezzi. Nel Duemila ci sono le intercettazioni. Così per
capire cosa succede ai vertici del Sismi non c' è niente di meglio delle
registrazioni delle telefonate di Pio Pompa, il tuttofare di Nicolò Pollari.
L' uomo che viveva nell' ufficio-rifugio di via Nazionale a Roma. Come viveva
in quell' appartamento ripieno di segreti? Quali erano i suoi compiti? Basta
leggere i brogliacci degli investigatori per capirlo. Centinaia di telefonate
in cui Pompa tesse la sua tela per poi riferire al suo "number one", a Pollari.
Centinaia di nomi noti e sconosciuti, in cui ai giornalisti - di sicuro la
categoria più rappresentata - si uniscono uomini della Cia e, in miscuglio che
ricorda più Ciccio e Franco che James Bond, parenti che domandano soldi per
comprare il motorino, donne che lo chiamano - col diminutivo di "Mimmolo" - e
perfino "Gino il farmacista" che chiede (con successo) di avere una corsia
preferenziale per ottenere il passaporto. Ci sarebbe da sorridere, se il
ritratto non fosse per tanti versi molto amaro. Emerge infatti una sistematica
attività di disinformazione compiuta dal Sismi, giovandosi di una fitta
schiera di giornalisti. Uno di loro è stato indagato per favoreggiamento.
Altri dimostrano legami molto, molto assidui. Sembrano concordare con Pompa il
contenuto di alcuni articoli. Arrivano perfino a scrivere documenti per il
Sismi. Tutto partiva da quell' appartamento al sesto piano di un palazzo ocra
affacciato su via Nazionale. Campagna per diffondere notizie false, per
attaccare quotidiani (La Repubblica), per affidare a giornalisti amici delle
veline da pubblicare sui loro quotidiani. Le tracce di questa febbrile
attività sono tutte lì, nei nastri registrati, così come in casse e casse di
materiale sequestrato: cd, floppy disc, computer, che i magistrati devono
ancora esaminare. Ma anche un archivio proprio sul caso Abu Omar, dossier sul
Nigergate (l' inchiesta realizzata da Repubblica), Telecom, Telecom Brasile
(un documento etichettato come "Il grande imbroglio") e Telekom Serbia. E
ancora: fascicoli sui magistrati impegnati in inchieste che coinvolgono il
Sismi, primo fra tutti proprio lui, Armando Spataro, il procuratore aggiunto
di Milano. Qui, nelle dodici stanze dell' appartamento dove viveva e lavorava
Pompa, sarebbero state confezionate e concordate decine di notizie finite poi
sulle prime pagine di molti giornali. Frammenti di verità, voci, depistaggi,
tutto mischiato insieme fino a diventare impossibile da distinguere. Gli amici
giornalisti -Il telefono di Pio Pompa sembra il centralino di una redazione. I
giornalisti lo chiamano in continuazione. E lui a sua volta chiama, offre
notizie, chiede articoli. I nomi che compaiono più frequentemente? Andrea
Purgatori (L' Unità), l' ex direttore del Riformista Stefano Cingolani, che
proprio ieri è tornato a occuparsi del caso con un articolo sulla prima pagina
della Stampa di Torino, Renato Farina, vice direttore di Libero, e Oscar
Giannino che, sempre ieri e sempre su Libero, ha affrontato la polemica di
Tronchetti Provera nei confronti del Gruppo Espresso. I tabulati parlano
chiaro: dal 19 al 22 maggio di quest' anno, in appena tre giorni Andrea
Purgatori dell' Unità parla con Pompa almeno sei volte. Infinite (sette in tre
giorni) le telefonata di Renato Farina, il vicedirettore di Libero indagato
per favoreggiamento e accusato di aver ricevuto numerosi pagamenti dal Sismi.
I dialoghi lasciano poco spazio al dubbio. Ore 12,32 del 22 maggio. Farina
dice: «Senti Pio, domani alle cinque vedo Spataro per un' intervista». Pompa:
«Micidiale, benissimo... appena raggiungo il capo (Pollari, ndr) ti chiamo...
e concordiamo un attimo». Insomma, le domande a Spataro pare fossero almeno in
parte dettate direttamente dal Sismi, come dimostra anche una telefonata tra
Pompa e Pollari. 22 maggio ore 13.26. Pollari: «Ma lui (Farina) sa che cosa
dire?». Pompa: «Sì, ma è il caso che si ripassi la lezione insieme a noi».
Insomma, un incontro preparato a lungo con Farina che non risparmia
complimenti a se stesso: «La mia forza è stata la sincerità, mi spiego» ed
esulta per aver concordato con Spataro di partecipare a un dibattito sull'
etica del giornalismo. Telefonate e sms sui quali sta indagando la
magistratura. Non è invece indagato Stefano Cingolani che pure dal 24 al 27
maggio parla nove volte con Pompa. Tre ogni giorno. è il 26 maggio (ore 18.38)
quando Pio sembra dettare la linea per un articolo all' ex direttore del
Riformista. Pompa: «Stefano... questi devono andare affanculo con la tua
penna». Cingolani: «Ma chi dici?». Pompa: «Gli Angelucci, tutti quanti,
capito?». Cingolani: «Sì, sì». Non basta. Pompa chiede a Cingolani anche di
redigere un documento per il Sismi: «Si tratterebbe di mettere su la tua penna
per fare... che ti devo dire... dieci cartelle di alto profilo». Cingolani,
tentenna, «devo vedere le mie figlie», ma poi cede. In una telefonata del 13
giugno alle 14.00 Pompa, parlando del caso Abu Omar, racconta a Cingolani:
«Esiste un documento della Commissione Europea firmato da Prodi che di fatto
agevolava i voli e le rendition». Cingolani (che sta per lasciare "Il
Riformista"): «Perché non la tiriamo fuori? Dai, facciamo l' ultima follia».
Non andrà così, ma la notizia anti-Prodi esce comunque su un altro quotidiano.
Ma Cingolani nei suoi colloqui con Pompa tira in ballo anche il Presidente
della Repubblica. è il 7 giugno alle 12.25, si parla di Paolo Franchi, nuovo
direttore del Riformista, al posto proprio di Cingolani. Che attacca prendendo
a pretesto un articolo uscito sul Foglio. E dice: «E poi perché arriva Franchi
qui e chi... chi lo vuole... chi l' ha sostenuto... l' operazione è quella che
dicevo io... Macaluso e Napolitano». Cingolani lascia il Riformista, ma già in
una telefonata del 9 giugno i due amici parlano del futuro e Cingolani pare
quasi chiedere aiuto. Pompa: «Che c' abbiamo un sacco di cose da fa' , ma
proprio tante». Cingolani: «Che vuoi fa' , ormai è finita, la prossima
settimana tratto l' uscita... vabbé queste cose le scriveremo altrove...
diciamo che di economia sto a posto e di esteri e di sicurezza bisogna trovare
un luogo dove... scrivere, capito?». Pompa: «Non ti preoccupare, hai capito?».
Cingolani: «Un luogo buono dove scrivere, così mi dedico a tutti e due i
fronti che sono poi i miei e insomma, sono una firma, ecco...». Il caso
Repubblica - Una telefonata tra Pio Pompa e Nicolò Pollari rivela poi l'
esistenza di una vera e propria campagna di stampa orchestrata contro La
Repubblica. Sono le 10.20 del 4 giugno scorso quando il numero uno del Sismi e
il suo uomo di fiducia si sentono al telefono per tre minuti. Un colloquio
breve, ma molto chiaro. Pompa: «Oggi c' abbiamo un ottimo articolo che ieri
con Betulla abbiamo concordato, a firma di Oscar Giannino... in sostanza dice:
"Vogliono scaricare (il soggetto sottinteso è proprio La Repubblica, ndr) sui
servizi perché gli fa comodo". Il titolo è: "Se Repubblica attacca Telecom"».
Pollari: «Va bene. Su quale giornale è uscito?». Pompa: «Su Libero, sì, in
prima pagina, scritto molto bene, perché poi è venuto da me, se lo ricorda,
vero? Hanno fatto proprio un' intera paginata... è proprio indirizzato a
Repubblica». Pollari: «Sono molto contento. Va bene, perfetto. Grazie». E l'
atteggiamento dei vertici del Sismi nei confronti di Repubblica emerge anche
da una telefonata di poco successiva tra Pompa e un personaggio non
identificato. è il 4 giugno, ore 10.59. Massimo: «Il capo ha letto l' articolo
di Oscar Giannino e lo ha definito un capolavoro... è scritto molto bene e poi
va a toccare i nervi scoperti». Pompa: «Se tu vai a leggere il libro di Pons
(giornalista di Repubblica) e Oddo (Sole 24 Ore) che si alternano a D' Avanzo
e Bonini sulla questione Telecom... vedi che quella è la linea che seguirà l'
inchiesta». Anche Farina - il 21 maggio alle 21.12 - attacca Repubblica e,
citando Gad Lerner, parla della vicenda di Giuliano Tavaroli (l' ex
responsabile della sicurezza Telecom accusato di associazione per delinquere
in relazione nell' inchiesta sulle intercettazioni abusive) e aggiunge: «Un
mio amico mi ha detto che l' intenzione non sarebbe quella di colpire a un
livello alto, ma di fermare i due, Tavaroli e l' altro. Mi sono sentito con
Lerner il quale dice che questa vicenda per Repubblica è una manovra per fare
fuori parecchie persone, vuole fare fuori Tronchetti Provera e tutti i suoi
nemici». Telecom - Pompa e i suoi interlocutori chiamano spesso in causa anche
Telecom. Oggetto principale dei discorsi: l' ombra che grava sul colosso della
telecomunicazione per l' inchiesta della Procura di Milano sulle
intercettazioni abusive. Il 26 maggio alle 19.43 Pompa ne parla direttamente
con Pollari: «Telecom ha prodotto due documenti che ha inviato all' Authority
e alla Procura, dove dice: "Allora questi sono i sistemi di intercettazione
dichiarati..." e poi hanno aggiunto altri sistemi che non erano dichiarati ma
che dicono di aver scoperto solo ora! Le chiamano "strutture nascoste di
intercettazioni"». Pollari: «Ma erano irregolari». Pompa: «Ma certo che erano
irregolari». Pollari: «Allora erano abusive». Pompa: «Erano abusive
assolutamente. Loro adesso dicono: "Ce ne siamo accorti adesso"... questo
disegna la linea difensiva». Non basta. Farina il primo giugno alle 20.44
riferisce: «C' è anche quest' altra notizia che Tavaroli avrebbe accompagnato
Ludwig (il maresciallo Pironi dei Ros, che ha confessato di aver partecipato
al sequestro Abu Omar, ndr) sei mesi dopo il sequestro per prendere un
colloquio di lavoro dal responsabile della sicurezza Pirelli...che è quello
che ha preso il posto di Tavaroli quando lui è passato da Pirelli a Telecom,
però questo non ha odorato positivamente Ludwig e non se n' è fatto nulla». E
Farina aggiunge: «Ti dico anche questa: coincide con il periodo con cui Pironi
avrebbe voluto passare al Sismi». Quindi i due cominciano a parlare di Telecom
Brasile. Pompa chiede a Farina: «Ma tu l' hai capita l' operazione che stanno
mettendo in piedi? è che la Cia in Brasile aiuta Telecom». Farina: «Ho capito
il concetto, la Cia aiuta in Brasile Telecom e in cambio si fa aiutare».
Pompa: «E la Telecom che sale la "forcible abduction"». Abu Omar, Tavaroli e
la Cia - è il 24 maggio. Ore 11.08. Pio Pompa parla con una donna la cui
identità non è stata ancora accertata. Donna: «Hai visto Repubblica, c' è una
frase che parla della spy story di Abu Omar e di Tavaroli, dice che presto
potrebbero emergere collegamenti con operazioni della Cia compiute in Italia».
Pompa: «Ho letto l' articolo, è coerente». Il giorno dopo, alle 21.12, ecco di
nuovo ricorrere il nome di Tavaroli. è sempre Pompa a parlarne e a metterlo in
relazione con la Cia parlando con Farina: circola una voce, dice l' uomo del
Sismi, «cioè che Tavaroli era stato pagato quindicimila dollari o euro al mese
dalla Cia ed è una cosa che circola tra gli investigatori... a questo punto
vuol dire che il nesso Tavaroli, Cia e Abu Omar è chiaro», sostiene Pompa con
il suo interlocutore. Un groviglio quasi inestricabile. Cui Pompa e Farina, il
10 giugno alle 16.09, aggiungono altri nomi molto pesanti. Una ricostruzione
che raccoglie voci di ogni tipo. Farina: si sente dire che «nel rapimento di
Abu Omar, dinanzi al "no" del Sismi, Gianni Letta (ex sottosegretario del
governo Berlusconi) bypassando Ganzer (il comandante dei Ros, Reparti
Operativi Speciali dei carabinieri) avrebbe incaricato, non so attraverso
quali anelli di congiunzione, il Ros di fare quell' operazione d' accordo con
la Procura, cioè l' anello sarebbe Letta-Dambruoso (l' ex pm milanese che all'
epoca del sequestro si occupava di terrorismo islamico)». Al Zarqawi - L' 8
giugno alle 11.32 Pompa parla con Andrea Purgatori, che lo chiama per parlare
della morte in Iraq di Al Zarqawi, il giorno prima. Pompa: «Sai come l' hanno
beccato? Sulla base del video che ho trovato io, e feci lo scoop!». Poi
aggiunge: «Quello ha girato delle immagini all' aperto dove si vedeva dietro,
e da quelle immagini l' hanno beccato. Perché lo demmo noi il video a loro
(gli americani, ndr), capito?». A quel punto i due si accordano perché Pompa
invii a Purgatori materiale, - «compreso la foto satellitare del posto, se i
tuoi la vogliono», specifica Pompa - e si salutano. Poi Pompa riceve una
telefonata da un non meglio identificato «Pinin». Gli investigatori annotano:
«Pinin riferisce a Pio di aver parlato con Robert e che questi gli ha
comunicato che gli americani dicono che hanno fatto tutto loro». Passa mezz'
ora e Cingolani del Riformista chiama Pompa e gli chiede come hanno fatto a
prendere Zarqawi, chi sarà il successore e il nuovo scenario politico della
resistenza. Poco dopo, altra conversazione sul presunto capo terrorista,
questa volta con Gianmarco Chiocci del Giornale. Lui, che dice di avere già il
video che avrebbe incastrato Zarqawi, chiede: «Mi mandi, se c' è, un' analisi
su Al Zarqawi. Io poi dopo ci attacco il pezzo?». E Pompa: «Io ti mando il
comunicato tradotto di Al Qaeda, chi sarà il futuro capo». -
FERRUCCIO SANSA CRISTINA ZAGARIA
2006
“Interrogammo a Guantanamo”
Repubblica — 19 ottobre 2006 pagina 12 sezione:
POLITICA INTERNA
MILANO - «Andammo in quattro a Guantanamo,
tutti del Ros, a interrogare
detenuti nel campo, su mandato del Comando generale nella persona del generale Ganzer. Non riferimmo all' autorità
giudiziaria nulla sulla nostra attività». Le parole di un maresciallo dei Ros di Torino nell' aula della
prima corte d' assise di Milano, scatenano la rivolta degli avvocati: «Si
conferma che gli investigatori italiani, sia i carabinieri che la polizia,
hanno più volte usato fonti di discutibile liceità ed eticità, giungendo
formalmente e, su espressa autorizzazione dei vertici, ad oltrepassare le mura
di Guantanamo e a pescare informazioni da persone che
notoriamente sono sottoposte a torture e non godono dei
diritti civili e umani» dice l' avvocato Sandro Clementi. «Questa è la prova -
continua il legale - che l' autorità italiana ha
legittimato l' esistenza di strutture illegali come la base statunitense in
territorio cubano ». Il maresciallo dei Ros è stato
ascoltato come testimone nel processo a carico di tre algerini tra cui l' ex imam di Varese, Abdel Majid Zergout,
accusati di terrorismo internazionale. L' imam e gli
altri imputati sono accusati di aver creato «la cellula italiana del Gruppo
islamico combattente marocchino» (Gicm). Anche se non direttamente coinvolti in attentati, sarebbero i reclutatori e i finanziatori del gruppo, «legato a Bin Laden», accusato della strage
nel 2003 a Casablanca in cui morirono 45 persone. «Nessuna delle persone
che sentimmo, nel novembre del 2002, rispose alle
domande, perciò non informammo l' autorità giudiziaria e comunque a Guantanamo - il carabiniere racconta al pm
Elio Ramondini - Si trattava di colloqui informali,
durante i quali prendevamo appunti e su cui abbiamo redatto dei report per capire se esistesse un rischio di attentati in
Italia». Il maresciallo ha chiarito che «nulla di quella attività
fu riversato nel processo in corso», anche se ha ammesso che, in un secondo
momento «in via informale furono avvisati della spedizione a Guantanamo Marcello Tatangelo e
Sandro Ausiello della Procura di Torino». Durante «la
prima e l' unica missione del Ros»
presso la base americana in territorio cubano, nel novembre del 2002, «furono
probabilmente sei le persone cui furono poste domande - dice il testimone -
senza la presenza di avvocati». Di queste «solo una rispose, a proposito delle
sue conoscenze a Bologna». L' avvocato Clementi e il
legale di Zargout, l' avvocato Luca Bauccio, a margine dell' udienza parlano di «un' ombra
inquietante sulle indagini sul terrorismo islamico». La presenza di investigatori italiani a Guantanamo
non è una novità, ma per il senatore di Rifondazione Milziade Caprili, vice
presidente del Senato e membro del Copaco: «Se le
notizie rese dal maresciallo dei Ros venissero confermate ci troveremo di fronte ad un fatto
gravissimo che assomma all' incostituzionalità l' aggravante di aver legittimato l' illegalità, riconosciuta da tutti a livello
internazionale, del carcere di Guantanamo». I giudici
della prima corte d' assise, presieduta da Luigi Cerqua, si sono ritirati per decidere sulla richiesta delle
difese di ascoltare come testimoni il tenente di Bologna, il maggiore di Roma e il colonnello di Genova, che insieme con il
maresciallo fecero parte della squadra che di Guantanamo.
Per il sostituto procuratore Elio Ramondini: «Nessuna autorità giudiziaria avrebbe mai accettato di
mettere agli atti di un' inchiesta l' eventuale contenuto dei colloqui». Anche se «non era una missione segreta» dice la procura di
Bologna, «la missione del Ros - dice il pm Luca Tampieri- serviva per
capire se gli arrestati avevano informazioni su personaggi che vivevano a
Bologna (liberati e riarrestati dagli americani in Afghanistan
ndr). Sono stati sentiti come persone informate sui
fatti, non c' era bisogno né di rogatorie né di avvocati».
- CRISTINA ZAGARIA
2005
Pizzini, talpe e raccomandazioni 'Aiello, un uomo di Provenzano'
Repubblica — 08 giugno 2005 pagina 6 sezione: PALERMO
ROMA - «Rispettalo come se fossi io, lascialo libero». è il 1993 quando
Giovanni Brusca riceve un pizzino da Bernardo Provenzano. Il capo dei capi di
Cosa nostra gli raccomanda caldamente un imprenditore che avrebbe dovuto
effettuare alcuni lavori per la realizzazione di una strada interpoderale ad
Altofonte. «L' ingegnere Michele Aiello di Bagheria», dice Brusca. Lo stesso
Aiello, si scoprirà solo più di dieci anni dopo, di un altro pizzino, quello
trovato in tasca a Totò Riina il 15 gennaio del ' 93, al momento della sua
cattura. Nell' aula bunker di Rebibbia a Roma, il boss di San Giuseppe Jato
pentito e il capitano Ultimo raccontano al Tribunale presieduto da Vittorio
Alcamo di quell' Aiello citato nei biglietti dei capi di Cosa nostra. «Le
indagini dei colleghi dell' Arma territoriale - spiega il colonnello Sergio De
Caprio - lo identificarono come un tale Aiello di Altofonte». Solo nel 2004, a
indagine sulle "talpe" iniziata, gli inquirenti si ricordarono di quel pizzino
dimenticato tra le carte e scoprirono chi era l' Aiello interessato ai lavori
della strada interpoderale di Altofonte: un noto imprenditore di Bagheria
«raccomandato» da Bernardo Provenzano in persona. Racconta Giovanni Brusca: «Provenzano
mi chiese di occuparmi della "messa a posto" dell' imprenditore Aiello di
Bagheria. Mi arrivò un suo pizzino in cui mi diceva di rispettarlo, come se
fosse la sua stessa persona. Ci fece arrivare la "messa a posto", due tranche
da trenta milioni, e poi non gli abbiamo chiesto più niente, né subappalti né
forniture. Non l' abbiamo più disturbato». Un rapporto, quello con Aiello,
gestito direttamente da Provenzano. «Io Aiello non l' ho mai visto né
conosciuto», chiarisce Brusca. E di questo «strano» appalto assegnato a un'
impresa raccomandata si era accorto anche un altro capomafia di Altofonte,
oggi anche lui pentito, Gioacchino La Barbera. Che di Aiello non conosceva né
il volto né il nome, se non quello della sua impresa, la Stradedil. Fu così
che, dopo aver letto sui giornali delle vicissitudini giudiziarie di Aiello e
delle sue imprese, La Barbera chiamò la Procura per riferire di quel piccolo
episodio del quale non aveva mai parlato. «Ricordo - ha detto ieri in aula -
che arrivarono mezzi nuovi di zecca per un lavoro vicino alla cava di
Rabottone. Chiesi al proprietario della cava, Totò Buttitta, di chi fossero e
mi disse che erano di una persona disponibile, vicina a noi. Poi ne parlai con
Brusca e Bagarella e mi dissero di lasciare stare». Fin qui i pentiti. Ma
la trasferta romana è servita anche per ascoltare altri due testi del processo
alle "talpe": il capitano Ultimo, appunto, e il comandante del Ros dei
carabinieri, il generale Giampiero Ganzer. Al centro delle domande dei
pubblici ministeri Maurizio de Lucia e Nino Di Matteo la figura del
maresciallo Giorgio Riolo, uomo di punta delle operazioni tecniche del Ros a
Palermo, poi rivelatosi uno degli informatori di Michele Aiello e di Cosa
nostra. E di indagini mandate in fumo da qualche "talpa" il capitano Ultimo ne
ha ricordate un paio, a cominciare da quella sull' autoscuola "Primavera" di
via Daita, frequentata dai favoreggiatori di Provenzano. Ganzer, che ha avuto
modo di conoscere Riolo a partire dal ' 96, ha confermato che l' investigatore
era molto apprezzato per le sue capacità tecniche e, insieme con altri
colleghi, era stato proposto per un encomio per l' attività che aveva portato
alla cattura di Riina. E a firma di
Ganzer sono le note di valutazione di Riolo, giudicato sempre eccellente.
Tanto che il generale precisa: «Tutti i suoi superiori hanno provato
dispiacere e incredulità quando sono venute fuori le vicende penali che lo
riguardano». Superiori ai quali, come ha dimostrato l' avvocato
Massimo Motisi producendo la nota, Riolo nel febbraio del ' 99 aveva
regolarmente comunicato l' assunzione della moglie nella clinica di Michele
Aiello, senza che questo destasse alcuna perplessità. -
ALESSANDRA ZINITI
2005
Operazioni truccate, GanZer a giudizio
Repubblica — 14 giugno 2005 pagina 29 sezione:
CRONACA
ROMA - Sette anni di indagini e 29
udienze preliminari. Per una storia nera che
"Repubblica" cominciò a documentare nel marzo del 2001. Ieri,
la magistratura di Milano ha presentato il conto. Il giudice dell'
indagine preliminare Andrea Pellegrino, accogliendo le richieste dei
pubblici ministeri Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo, ha concluso che, dal 1991 al 1997, la sezione
antidroga del Ros dei carabinieri, il nucleo di
eccellenza investigativa dell' Arma, si è costituita e mossa come un'
associazione per delinquere. Ha trafficato in stupefacenti, assicurando l' impunità ai suoi grossisti. Ha occultato denaro e droga frutto dei sequestri. Complice un
magistrato di provincia che ne ha tollerato e condiviso gli abusi, ha
trasformato agenti sotto copertura in provocatori. Ha manipolato prove e
corpi di reato. Ha dato lustro al Reparto truccandone le operazioni.
Venticinque imputati vanno a giudizio per associazione a
delinquere finalizzata al traffico di droga, peculato, falso. Sono ufficiali
(tre) e sottufficiali (otto) dell' Arma, un magistrato
e un pugno di trafficanti (due dei quali hanno scelto il giudizio abbreviato e
sono stati già ieri condannati). Con tre nomi in elenco che pesano più degli
altri: il comandante del Ros, Giampaolo Ganzer; il generale Mauro Obinu,
che dell' antidroga del Ros
è stato comandante e oggi dirige la divisione crimine organizzato del Sisde; Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e
oggi pm a Brescia. Il processo si aprirà il 18
ottobre a Milano, di fronte alla ottava sezione del
tribunale. Ma per misurare l' urto che oggi investe l'
Arma è sufficiente annotare una circostanza. Nel pronunciare la decisione che
consegna le responsabilità del Ros al dibattimento,
il gip Pellegrino ha disposto l' immediata
trasmissione della sua ordinanza al ministero della Difesa, a significare l'
urgenza del problema che si apre ora in sede politica e militare (anche il Csm è stato sollecitato dal gip
ad affrontare la posizione disciplinare del sostituto procuratore Conte). La
storia che raccontano i cinquanta faldoni
dell' inchiesta (istruita nel 1997 in completa solitudine dal pm di Brescia Fabio Salamone,
alimentata dalle dichiarazioni del "pentito" Biagio Rotondo, dalle
ostinate indagini di un avvocato di Pescara, Maria Di
Ielsi, e quindi, dopo un penoso limbo,
trasferita per competenza alla Procura di Milano nel 2001) non interpella
infatti soltanto le responsabilità dei singoli imputati, ma denuncia un
«metodo» investigativo. Un «format» di successo ripetuto nel
tempo con le operazioni "Cedro" (1991), "Hope"
(1993), "Lido" (1994), "Shipping"
(1994), "Cobra" (1994), "Cedro uno" (1997). Perché
«di successo» se ne era dimostrata la formula. «Il Ros - scrivono i pm e accredita
ora il gip con la sua ordinanza - instaura contatti
diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni
sudamericane e mediorientali dedite al traffico degli stupefacenti senza
procedere né alla loro identificazione, né alla loro denuncia». Ordina quindi
«quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via
aerea, versando il corrispettivo con modalità non
documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello
stupefacente importato». Sono routine che nulla hanno
a che vedere con «operazioni sotto copertura». Sono «istigazioni ad importare
in Italia sostanza stupefacente», a «raffinarla» se necessario, a «smerciarla»,
per poi chiudere la rete su pesci piccoli che fanno numero, salvo perdere di
vista quelli più grossi all' origine del traffico. Si
muove molta droga e con la droga molto denaro. Quando ce n' è
bisogno, anche armi (accade nel 1993 a Ravenna, quando dalla motonave "Bisanzio" sbarcano «119 kalashnikov,
2 lanciamissili, 4 missili e numeroso munizionamento»). Basta contare su
un magistrato di provincia (Mario Conte, allora sostituto procuratore a
Bergamo) che radichi la propria competenza sulle operazioni e le avalli pur sapendole truccate. Durante le 29 udienze di
fronte al gip, il generale Ganzer
si è difeso chiedendo di essere interrogato. Con una lunga memoria ha
circoscritto tempi e modi delle sue responsabilità nel comando delle operazioni
al centro dell' inchiesta, nonché i suoi rapporti con
il magistrato Conte. Ha negato alla radice i reati che gli vengono
contestati e lo ha fatto ponendo un problema. Che alza la posta di questo
processo e ne fa un problema dell' Arma. Del suo
comando generale. Se esiste un "metodo Ganzer"
- è l' argomento dell' ufficiale - quel
"metodo" nulla ha a che vedere con le conclusioni dei pm e del gip di Milano. Era un
metodo che non aveva un solo padre e che ora qualcuno, oltre a lui, dovrà
cominciare difendere. - CARLO BONINI
2005
MA IL TARANTINO non fu uno scandalo
del 2010 ? SIGNIFICA CHE IN ITALIA UNA COSA CHE NON FA SCANDALO NON FUNZIONA ?
forse è un'omonimia ? (Non mancano i
riferimenti incrociati agli ultimi tra i più scandalosi provvedimenti ad
personam e pro-mafia dell'esecutivo: uno recita "con infamia e senza Lodo", un
altro "mi Mangano le parole", altri ancora si concentrano sullo scandalo
Tarantino-D'Addario-Berlusconi definito "Puttanopoli" con ironica vignetta dal
titolo "Al tappone and sex senility". tratto da
http://www.pmli.it/manifestazioneromastampa.htm
il 15-4-2010)
IL PROBLEMA CHE CI PONIAMO E':
PERCHE' GANZER COLPISCE SCHIAVISTI DI PROSTITUTE E COCA OUT ?
is a problem of market control ?
Coca, maxiblitz europeo manette nella Milano-bene
Repubblica — 12 ottobre 2005 pagina 16 sezione:
CRONACA
ROMA - Un pieno di gente "per bene" nella Milano delle "seratine" della moda
e dello spettacolo. Un pieno di cocaina (una tonnellata e mezzo) raffinata a
Moron, in Argentina, destinata all' Italia e trasportata in Europa
attraverso il porto di Valencia, Spagna, occultata in carichi di carbone
vegetale. Un pieno di denaro contante (due milioni e mezzo di euro) e di
pasticche di ecstasy (110 mila) pronte a prendere la strada di Italia,
Spagna e Olanda e intercettate in Francia, a Montpellier. Dopo tre anni di
indagini, coordinate dalla Direzione Centrale dei Servizi Antidroga, e di
lavoro con le polizie argentina, spagnola e francese, il Ros dei carabinieri
e la Procura di Trento (dove tutto è cominciato in qualche discoteca) tirano
la rete dell' operazione "Trabajo", lavoro, e alla fine della giornata, con
la droga, contano gli arresti: sessanta. Con qualche nome che fa più chiasso
di altri. Come quelli dei fratelli Ulivieri: Leopoldo Bernardino e Marco
Morgan, figli della contessa milanese Giuseppina "Pinin" Garavaglia, già
animatrice della Milano anni '80 prima di diventare ospite frequente di talk
show televisivi. Secondo l' accusa, Leopoldo Bernardino (arrestato durante
un coca-party a Ibiza, dove vive) era il cassiere dell' organizzazione.
Marco Morgan, che viveva in casa con la madre, il contabile. Incaricato di
mettere insieme il contante raccolto con lo spaccio sulla piazza di Milano e
quindi di trasferirlo al fratello in Spagna. L' arresto dei due fratelli si
è portato dietro un altro pezzo di mondanità milanese: Davide Rombolotti e
Paolo
Tarantino, organizzatori di eventi e grandi feste, spalancando
all' indagine dei Ros - come è stato stigmatizzato dal generale Ganzer - «un
vasto giro di spaccio». Con ramificazioni in altre importanti "piazze":
Genova (dove ieri sono state arrestate due modelle e, nel tempo, 25
corrieri), Bari. Secondo l' indagine, a tirare le fila del traffico dall'
altra parte dell' oceano l' argentino Diego Emiliano Corzo (arrestato ieri
in uno scantinato a Ibiza), verosimilmente con la complicità della potente
famiglia Losono, proprietaria delle miniere di carbone vegetale nella
regione del Chaco. A muovere la cocaina, un esercito di corrieri cui, come
documentano alcune delle centinaia di intercettazioni telefoniche, è
capitato anche di affidarsi alle veggenti per esser certi di non essere
intercettati. Per come è finita, non è servito.
2005
RAGAZZI
SCHERZIAMO I RO$$ VIVONO DI ARIA MICA MANGIANO ...
Maresciallo del Ros arrestato per tangenti
Repubblica — 22 novembre 2005 pagina 26 sezione: CRONACA
BERGAMO - Un maresciallo del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri
(Ros) è stato arrestato ieri a Bergamo mentre cercava di farsi pagare una
tangente di alcune migliaia di euro da un imprenditore locale. Alberto Lazzeri
Zenoni, questo il nome del maresciallo, stando all' accusa avrebbe cercare di
convincere l' uomo a dargli i soldi sostenendo che gli avrebbe potuto evitare
problemi con la Guardia di Finanza. Lazzeri Zenoni era già indagato anche
dalla procura di Milano per spaccio e traffico di droga. Sempre a Milano, lo
stesso maresciallo è coinvolto nel cosiddetto processo ai Ros insieme al pm
Mario Conte, al generale Giampaolo Ganzer, al colonnello Mario Obinu e ad
altri sette sottoufficiali dell' Arma.
“Eppure chi oggi mi accusa all' epoca
non disse niente”
Repubblica — 14 giugno 2005 pagina 29 sezione:
CRONACA
MILANO - Dove finisce il generale e dove comincia l' imputato? Come convivono dentro a
uno stesso uomo - questo signore di sessant' anni con
lo sguardo di ferro e la sigaretta facile - l' ufficiale dell' Arma abituato
alle asprezze della repressione, e il cittadino che si trova all' improvviso
nel tritasassi della giustizia? Giampaolo Ganzer è
appena uscito dall' aula bunker del Tribunale di Milano,
quella dove di solito si fanno i maxiprocessi a mafiosi e 'ndranghetisti.
Ha appena sentito il giudice che lo rinviava a giudizio come capo di un' associazione di narcotrafficanti
sbocciata all' interno del Ros dei carabinieri.
Eppure ai giornalisti che lo aspettano fuori Ganzer
sa mostrare solo la faccia di uomo dello Stato:
«Aspetto serenamente il giudizio». Intende dimettersi? «Io ho
la coscienza a posto, poi ci penseranno i miei superiori. Se non avessi la coscienza a posto l' avrei fatto anche prima». Ma sarebbe inumano che fosse tutto qui. Che,
dentro di sé, Giampaolo Ganzer non fosse arrabbiato
come una belva. E mezz' ora dopo, davanti ad una tagliata di manzo e a un bicchiere di Chianti, si scopre che Ganzer
è davvero arrabbiato. Perché il generale di ghiaccio dentro
di sé la speranza di uscire di scena da questo pasticcio la nutriva davvero.
Era convinto che il giudice preliminare Andrea Pellegrino potesse firmare la
sentenza che lo avrebbe tolto dai guai, evitandogli l' onta
del processo pubblico. Invece niente da fare. Processo il 18 ottobre. «Lo hanno
fissato anche in fretta». In fondo è meglio così, generale. «Sì, forse sì». A
dare la speranza a Ganzer di uscire di scena erano
stati quei cinque giorni in cui, davanti al giudice, aveva cercato di togliersi
di dosso i sospetti. E, da ultimo, pochi giorni, fa,
le duecento pagine di memoria consegnate al giudice per ripercorrere le accuse
e cercare di smontarle una per una. è pensando a
quelle duecento pagine che Ganzer si concede l' unico
sprazzo polemico: «Hanno fatto di tutta l' erba un
fascio, non hanno voluto distinguere. è come se quelle
duecento pagine non le avessero nemmeno lette». Ma le
duecento pagine sono lì, sul tavolo. E lì, inevitabilmente, di sassi dalle
scarpe il generale se n' è tolto più d' uno. Perché le
accuse contro di lui, dice, riguardano in grande parte fatti
e inchieste avvenute prima del 1994, quando lui con il reparto antidroga del Ros c' entrava zero. E quelle
avvenute sotto il suo comando lo avrebbero visto soltanto firmare relazioni
predisposte da altri, nella marea di carte che un comandante di reparto ha la
responsabilità di firmare. Si intuisce, leggendo
questa memoria, che di fronte ad alcuni dei comportamenti del nucleo del Ros di Bergamo anche Ganzer
inorridisce: come quando, spendendo il suo nome, dei marescialli vanno in
Svizzera per riciclare in dollari i miliardi per pagare i narcos
colombiani. è a questi comportamenti che Ganzer pensa quando lamenta «mi hanno messo nel mucchio».
Ma di altre si assume la responsabilità, come per la partita di droga rimasta
per sei mesi negli armadi del Ros di Roma, e qui Ganzer è costretto a
scontrarsi con un suo amico di sempre, il pm Armando Spataro, che su quella partita di droga è divenuto teste d' accusa nei suoi confronti: «Il dottor Spataro
all' epoca dei fatti non eccepì quelle perplessità
manifestate poi al pm di Brescia». E ad avere la
memoria corta sarebbero anche i dirigenti della Direzione centrale antidroga,
divenuti anch' essi testi a carico. «Ora mi accusano
di avere fatto tutto questo per brama di carriera: ma io di avanzamenti
non ne ho avuto neanche uno - racconta Ganzer - e dei
miei compagni di corso sono diventato generale per ultimo...». Quello che Ganzer né dice né scrive è il perché di tutto questo, della
macchina che si è messa in moto e rischia di stritolarlo. Ma
dentro di sé, giura chi gli ha parlato in questi mesi, ha le idee chiare anche
su questo. - LUCA FAZZO
2004
INCOMPRENSIONI ?
Il generale Subranni sotto inchiesta per la mancata cattura
di Provenzano
Repubblica — 17 marzo 2004 pagina 6 sezione: PALERMO
Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, ex comandante del Ros e della
divisione "Palidoro", è indagato dalla Direzione antimafia di Palermo per il
mancato blitz del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso, che avrebbe potuto portare
all' arresto del boss Bernardo Provenzano. Su questa vicenda la Procura ha
avviato un' inchiesta in seguito alle dichiarazioni del colonnello Michele
Riccio. «Fui fermato», ha sostenuto l' ufficiale. Per questa indagine sono
già indagati l' ex comandante del Ros, il generale Mario Mori, attuale
direttore del Sisde, e il colonnello Mauro Obinu, ex vice del Ros, oggi
anche lui al servizio segreto civile. I vertici del Ros hanno sempre negato
ogni responsabilità e il generale Mori ha presentato una controquerela nei
confronti di Ilardo. Ieri, in commissione Antimafia, l' attuale comandante
del Ros, Gianpaolo Ganzer, ha difeso l' operato dei suoi predecessori.
Sulla vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina, Ganzer dice:
«Ci furono incomprensioni a livello investigativo-giudiziario».
2004
“Ci portavano lire da cambiare in dollari per i
colombiani”
Repubblica — 24 maggio 2004 pagina 26 sezione:
CRONACA
MILANO - Era direttamente a nome
del generale Giampaolo Ganzer che i marescialli dei Ros ripulivano in Svizzera i fondi destinati a finire nelle
casse dei narcotrafficanti colombiani. A raccontarlo
agli inquirenti è un poliziotto svizzero, Sergio Azzoni,
ispettore cantonale della polizia del Canton Ticino.
Anche Azzoni è uno specialista delle operazioni
«sotto copertura» e delle infiltrazioni, e anche lui finirà nelle grane: a
settembre dello scorso anno viene arrestato su ordine
della Procura federale di Berna, le accuse non vengono rese note pubblicamente.
Ma si dice che Azzoni sia stato accusato di avere
tenuto nascosto qualcosa di troppo ai magistrati che indagano sul coté svizzero dell' affare Ganzer. Ecco cosa racconta a verbale, in Italia, il 14
maggio 1999 il "Serpico" ticinese: «Non
sono in grado di precisare esattamente la data ma verosimilmente nell' ottobre 1993 ricevetti una telefonata del maresciallo Palmisano il quale mi rappresentava che, dietro precisa
autorizzazione del colonnello Ganzer, da noi
conosciuto come uno degli ufficiali responsabili del Ros
dei carabinieri, aveva bisogno di cambiare un certo quantitativo di valuta
italiana in dollari per retribuire una fonte colombiana che gli aveva
consentito di svolgere dei servizi che non mi furono precisati (in realtà i
soldi finiranno ai clan per pagare la droga, ndr)».
«Nel primo episodio il denaro era raccolto in mazzette con la fascetta come se
fossero state prelevate in banca e potevano ammontare a non meno di duecento
milioni, ricordo che il Palmisano aveva particolare
premura <...& Nella seconda occasione la cosa che mi colpì fu che quando
in banca si dovette contare il denaro ci accorgemmo che non solo era contenuto
in buste ma era sistemato alla rinfusa con molte banconote vecchie e di piccolo
taglio. Ricordo che tale fatto infastidì i funzionari della
banca. Ricordo anche che quando riferii il particolare al mio superiore manifestammo insieme perplessità per come il denaro ci era
stato portato <...& Anche in questo caso l' ammontare era di duecento
milioni circa <...&». (l. f.)
2004
Processate il generale GanZer la procura di Milano contro il Ro$
Repubblica — 14 aprile 2004 pagina 25 sezione:
CRONACA
MILANO - Nessun timore reverenziale. Ieri mattina i pubblici
ministeri Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo
chiudono l' inchiesta - durata anni, rimbalzata da una
Procura all' altra - sul marcio all' interno del Ros,
il reparto speciale dei carabinieri. E il documento
finale dice che, secondo i pm milanesi, il marcio
investiva i massimi vertici del Ros: il generale
Giampaolo Ganzer, comandante generale del
Raggruppamento. è suo il nome che compare in testa
all' elenco degli indagati che la procura chiede di portare a giudizio per
associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e altri
reati. Insieme a Ganzer e a
un folto gruppo di suoi sottoposti, il rinvio a giudizio viene chiesto anche
per un magistrato: Mario Conte, pubblico ministero a Brescia, accusato di avere
fornito copertura agli affari sporchi del Ros negli
anni in cui era in servizio a Bergamo. Per alcuni degli indagati, la procura
chiede invece l' archiviazione. Tra questi dovrebbe
esserci Mauro Obinu, ex numero 2 del Ros, oggi in forza ai servizi segreti. è
la conclusione di una storia lunga, complicata e dura da digerire. Una storia iniziata nel 1997, quando un piccolo spacciatore si
presentò al pm bresciano
Fabio Salamone raccontando dello strano modo in cui
la cellula del Ros di Bergamo gestiva le inchieste
antidroga. Erano i carabinieri, diceva il "cavallo", a fare
arrivare carichi di cocaina dall' estero, a contattare
gli acquirenti, a fare scattare poi i blitz. Una prassi che
le polizie antidroga di tutto il mondo - in testa gli americani della Dea -
hanno sempre usato. Peccato che, come hanno raccontato
le indagini successive, nella rete dei Ros finissero
sempre pesci piccoli, mentre insieme ai boss svanissero carichi di droga e
malloppi di quattrini. E che tutto avvenisse all' insaputa
della magistratura, con l' eccezione del dottor Conte: che avallava operazioni
spregiudicate un po' in tutta Italia. «Il Ros prende
in carico lo stupefacente al suo arrivo in Italia, omettendo ogni doverosa
attività di controllo su quantità e qualità. Lo trasporta e lo detiene, anche
per lunghi periodi di tempo, talvolta lasciandolo nella disponibilità
incontrollata di trafficanti», si legge negli atti dell' inchiesta
milanese. Non è la prima volta che il Ros, fiore all' occhiello dell' Arma, finisce sotto accusa. Ma è la prima volta che a venire investito dalla bufera è il
suo comandante in capo. Il generale Ganzer è uno
degli ufficiali che, nel bene e nel male, hanno fatto la storia recente dell' Arma. Formatosi negli anni Settanta nella squadra
speciale Antiterrorismo guidata da Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ganzer si è poi riconvertito nella lotta al crimine
organizzato, accumulando molti successi ma anche qualche episodio oscuro, tutti
in qualche modo connessi alla gestione dei confidenti: come quando su
"dritta" di un pentito diresse il blitz contro i calabresi che
stavano organizzando un sequestro a Germignaga, e che
vennero uccisi tutti quanti nonostante fossero
disarmati. O come quando un suo collaboratore, il maresciallo Angelo Paron, venne arrestato per avere
lasciato mano libera alle razzie di una banda di "pentiti" sulla
Riviera del Brenta. Ora, su di lui, si abbatte una tegola che mette in forse la
sua permanenza nel ruolo di comandante. il pusher Nel
1997 un piccolo spacciatore denuncia al pm bresciano Fabio Salamone le
strane "prassi" dei carabinieri del Ros di
Bergamo l' inchiesta A Pescara viene scoperta una raffineria di droga gestita
dai Ros. Emergono sparizioni dal narcotraffico
per centinaia di milioni di lire il magistrato Insieme al generale Ganzer, tra gli indagati finisce anche il pubblico
ministero Antonio Conte, che avrebbe "coperto" i traffici dei Ros i
ricorsi Le eccezioni di competenza rallentano l' indagine che viene trasferita
a Milano, poi a Bologna, infine, a gennaio 2001, ritorna a Milano gli atti L'
anticipazione di Repubblica del 22 ottobre; in alto a destra il comandante Ganzer - LUCA FAZZO MARCO MENSURATI
2004
SCANDALO
IRAQ-SISMI: GANZER "questa volta nun c'entro niente io"
Il documento misterioso e gli errori del manipolatore
Repubblica — 12 giugno 2004 pagina 1 sezione: PRIMA
PAGINA
CARLO BONINI e GIUSEPPE D' AVANZO La campagna elettorale si chiude nel segno
di uno dei suoi capitoli, impropriamente, diventato centrale: la liberazione
degli ostaggi. Soprattutto ora che anche Prodi, sollecitato, ritaglia un suo
ruolo nella vicenda, spiegando di aver attivato nei 55 giorni della crisi,
canali con i partiti moderati iracheni. «Ho fatto il mio dovere di presidente
della Commissione europea e di italiano. Se è servito, non posso che essere
felice». Lo stesso fa Berlusconi a Washington, che ora accusa l' opposizione
di «antipatriottismo masochistico, paranoico, vergognoso». Per fare della
liberazione degli ostaggi il tema di chiusura della campagna è stata
necessaria, tra giovedì e venerdì, un' ultima opera di manipolazione, di cui è
possibile ricostruire la storia e indicare l' ambiente in cui è stata
veicolata ai media. Il manovratore potrebbe aver commesso un errore. Aveva la
necessità di sex up, di rendere più appetibile, la ricostruzione ufficiale
offerta dal governo all' opinione pubblica. Ha lavorato in fretta e con mosse
alquanto grossolane. Vediamo perché. Dalla bulimia mediatica scatenata l' 8 di
giugno si possono ricavare gli elementi base della ricostruzione governativa,
irrobustita dal manipolatore. Ricapitoliamoli. L' intelligence italiana ha
individuato il covo-prigione. I nostri agenti segreti raccolgono informazioni
preziose che indicano come imminente e concreto il pericolo che gli ostaggi o
uno di essi sia ucciso l' 11 giugno, alla vigilia delle elezioni. A questo
punto, per dirla con le parole del ministro dell' Interno e della Difesa, «l'
azione di forza era l' unica via percorribile». L' indirizzo della prigione
viene «girato» agli americani che se lo vedono confermare da loro fonti e,
martedì 8 giugno, in un sobborgo a sud di Bagdad, chiudono il lavoro in due
minuti. Purtroppo, nell' eccitazione di utilizzare questo successo operativo a
fini politici, molti - da Berlusconi a Frattini - incappano in rilevanti
sviste. La più evidente è il luogo della liberazione. Sud di Bagdad per
Frattini. Sud di Bagdad per Berlusconi nella mattinata dell' 8 giugno. A sera,
Berlusconi ricolloca l' operazione a nord, meglio, a nord-ovest di Bagdad.
Ramadi, 110 chilometri dalla capitale, dove dice di essere stato liberato l'
ostaggio polacco. Ieri, si cambia ancora. Con un comunicato ufficiale Palazzo
Chigi indica ancora a sud di Bagdad il luogo della prigione. E' la prima
incertezza. La seconda investe direttamente il ruolo avuto dalla nostra
intelligence. Erano stati «i nostri agenti» a indicarne la posizione alla
prima divisione corazzata e alle forze speciali del generale Sanchez? Gli
americani non accennano nemmeno a questa eventualità: le informazioni le hanno
avute da una loro fonte prezzolata. Né vi accennano i polacchi, che pure hanno
contribuito al buon esito dell' azione grazie alle indicazioni di un economo
«trattato» dalla loro intelligence. Che cosa ha fatto allora il Sismi? Non si
sa. E' certo, al contrario, che a 72 ore dagli eventi non ha ancora comunicato
alla magistratura né il luogo della liberazione, né il numero né l' identità e
il destino dei carcerieri (uno, forse due) che ancora martedì sorvegliavano
gli italiani. Su questo scenario, già gravemente in bilico, si allungano altre
due ombre. E' stato pagato un riscatto? Lo sostengono fonti di "Emergency",
confermando, di fatto, il «mercato» denunciato dal Commissario della Croce
Rossa Maurizio Scelli. Ci sono state ore o, addirittura, giorni di vigilia
angosciosi come ha raccontato Berlusconi? Pare di no. Il generale Sanchez, in
50 minuti ottiene l' autorizzazione da Roma e in soli due minuti (quindi senza
sparare un colpo) la task force si porta via gli ostaggi in elicottero. Di
fronte a questa catastrofe informativa che non riesce a essere cancellata
dall' alluvione mediatica, a Palazzo Chigi devono aver deciso le contromosse.
Soprattutto, una. Che può essere raccontata così. La nostra intelligence non
aveva soltanto individuato il covo ma era anche in grado di ascoltare le
conversazioni tra i carcerieri. Da queste, tra sabato 5 giugno e lunedì 7
giugno, gli agenti hanno compreso che le Brigate Verdi si preparavano a
uccidere gli ostaggi. Che si preparasse questo «scenario angosciante» lo
sostengono pubblicamente il ministro dell' Interno Beppe Pisanu e il ministro
della Difesa Antonio Martino. Aver evitato l' esecuzione piega di fatto ogni
critica alle ambiguità dell' operazione. Chi avrebbe potuto sollevarle se ai
nostri connazionali era stata salvata la vita? Occorreva, però, una evidenza.
Il manipolatore si mette al lavoro. Una buona evidenza sarebbe la
rivendicazione già pronta degli assassini. Quel che segue ne è la storia.
Giovedì 10 giugno. Sono passate le 19. Un ufficiale dei carabinieri chiama la
Procura di Roma. Riferisce che la «cellula per le esecuzioni di Al Quds» ha
rivendicato «l' epurazione dei tre italiani» sul sito Internet della sigla
terroristica Ansar Al Islam. L' ufficiale non dice di più. Si limita a leggere
il testo della rivendicazione. Di più, si può capire da una nota di agenzia
delle 20.21 ispirata da «fonti vicine al ministro dell' Interno». Qui si legge
che le Brigate Al Quds, che già hanno ucciso il cuoco Antonio Amato,
«applicano la legge del taglione agli ostaggi italiani», per punire «l'
arrogante Presidente italiano Berlusconi». Ai magistrati non viene fornita la
schermata della rivendicazione e fino a ieri, 11 giugno, ignoreranno che si
tratta di un «forum» Internet che ha accompagnato quel testo con qualche
sarcastico commento. Ora bisogna chiedersi: chi «strappa» quel documento al
web? La risposta dovrebbe essere semplice ma diventa invece un mistero
inglorioso. Le polizie giudiziarie in Italia sono quel che sono e conviene
interrogarle tutte. Dunque: all' Antiterrorismo della Polizia di Stato non ne
sanno nulla e aggiungono: «Di questa storia non vogliamo sapere nulla». Il
generale Ganzer, comandante del Ros dei carabinieri, addirittura sorride: «Non
siamo stati noi a lavorare quell' informazione ed è inutile che mi chiediate
chi è stato perché non lo so». Si autoesclude anche la Guardia di Finanza.
Restano dunque i servizi segreti. Una qualificata fonte della direzione del
Sisde dichiara: «Di quella rivendicazione non sappiamo nulla». Più complicato
intercettare direttamente la versione del Sismi. Obliquamente, l' intelligence
militare fa sapere a Repubblica di non avere alcun ruolo in questa storia. Di
fatto, i tre tentativi di mettersi in contatto con il direttore Nicolò Pollari
o con il suo staff vengono lasciati cadere dal Servizio: «Richiameremo...».
Dunque, il documento della rivendicazione non ha padre. La faccenda diventa
ancor più interessante quando, sollecitato da una Procura irritata, il Ros,
ieri pomeriggio, invia una prima nota di spiegazione dell' accaduto. Che si
apre così: «E' stato rilevato...». Da chi?, chiedono ancora in Procura. Si
promette una seconda nota. Che non arriva. Arriva una telefonata: «Abbiamo
ricevuto la segnalazione in modo informale da ambienti di intelligence...». E'
un supplemento di informazione denso come l' aria. E' utile, allora, seguire
la sola traccia ineliminabile di questo affare: il sito. Che cos' è e chi c' è
dietro www. ansarnet. ws/vb? Il sito è stato aperto soltanto il 31 maggio ad
Atlanta, Stati Uniti (ne rifacciamo la storia in queste pagine) da tale R.
Rashid, domiciliato a Londra al 184 High Holborn. Chi è R. Rashid? Al suo
numero di telefono (+44-207-831-2310) risponde un fax. Il suo domicilio è la
sede della stampa araba accreditata a Londra (Arab press house). A quel
domicilio di "Rashid" ce n' è soltanto uno: Abdel Rahman Al Rashed, direttore
del network all news Al Arabiya, accusato da sempre di eccessiva vicinanza
agli Stati Uniti. Questo sito non appartiene dunque ad Ansar Al Islam. Non è
la riproposizione del sito del gruppo fondamentalista che ha sgozzato l'
ostaggio Nick Berg mostrandone le immagini. Questo sito, agli addetti, appare
più un' esca costruita da qualche intelligence occidentale per raccogliere,
tra i radicali e fondamentalisti islamici, nomi, contatti, notizie, avvisaglie
di possibili attentati. Ragionevolmente, però, "Rashid" o il suo provider
dovrebbero essere stati tempestati di chiamate quantomeno dalle «fonti
investigative» che divulgano la notizia, consegnandola ai media e ai
magistrati. Curiosamente, non è avvenuto. Per altro, trattandosi di provider
occidentali, il computer da cui è stata spedita nel «forum» la rivendicazione
è facilmente individuabile. Queste conclusioni, che possono essere messe
insieme da chiunque, non sono state fornite ai magistrati. Il perché è chiaro.
Il documento di rivendicazione non serve per le indagini (la magistratura è
soltanto la sponda della manipolazione). La rivendicazione deve soltanto
spingere l' opinione pubblica a credere che gli ostaggi stavano per essere
uccisi. Dunque, quel che conta non è come il governo ha risolto la crisi, ma
che lo ha fatto con successo. Ma la fretta ha costretto all' errore il
manipolatore. Non c' è nessun apparato di investigazione e sicurezza che
rivendica la paternità di quel lavoro ed è ragionevole pensare che questi
apparati possano documentare le loro estraneità. Le modalità di trasmissione
della «rivendicazione», per altro, non sono quelle di un apparato
investigativo. Se si esclude il mondo dell' investigazione e dell'
intelligence c' è solo un ambiente che può nascondere il «padre» della
manovra. E' il governo. E' un fatto che, giovedì sera, della notizia è al
corrente lo staff politico del ministro dell' Interno. E questo sostiene di
essersi mosso in questa vicenda, quale che sia quel che ha fatto, sempre con
l' autorizzazione di Palazzo Chigi. Vedremo nelle prossime settimane se la
Procura di Roma avrà la forza per venire a capo di queste mosse abusive che,
in ogni caso, si aggiungono al rosario di domande senza risposta, di
ricostruzioni contraddittorie di cui il governo, prima o poi, dovrà pure
rendere conto. Palazzo Chigi, ieri, con una nota ufficiale ha riconfermato la
sua traballante versione, annunciando che «sin d' ora opporrà soltanto il
silenzio». Al contrario, dopo l' ultima manipolazione, diventa più necessario
di ieri che Berlusconi racconti finalmente come sono andate le cose.
2004
Ecco le accuse al capo del Ro$
Repubblica — 24 maggio 2004 pagina 26 sezione:
CRONACA
MILANO - «...Promuovevano, costituivano, dirigevano e
organizzavano all' interno del Raggruppamento
operativo speciale dei Carabinieri un gruppo dedito alla commissione di una
serie indeterminata di illecite importazioni e cessioni di ingenti quantità di
eroina, cocaina e hashish, utilizzando la struttura, i mezzi e l'
organizzazione dell' Arma dei carabinieri e abusando della propria qualità di
pubblici ufficiali...». Per questo, il 19 ottobre, a Milano, compariranno sul
banco degli imputati, davanti al giudice preliminare Andrea Pellegrino, due tra
gli uomini-chiave dell' Arma nella lotta alla
criminalità: il generale Giampaolo Ganzer, comandante
del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri,
e il colonnello Mauro Obinu, ex ufficiale dei Ros, oggi capo della sezione Crminalità
organizzata del Sisde, accusati di associazione a
delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti, peculato e falso.
Insieme a Ganzer e Obinu, verranno citati in giudizio con le stesse accuse un
magistrato (il pubblico ministero bresciano Mario
Conte), un capitano, sette sottufficiali e un appuntato. Tutti del Ros. Il decreto che fissa l' udienza
è stato notificato nei giorni scorsi agli imputati. E insieme al decreto
diviene pubblica la richiesta di rinvio a giudizio che costituisce l' atto finale dell' inchiesta iniziata sette anni fa a
Brescia dal pm Fabio Salamone
grazie alle rivelazioni di un rapinatore, Biagio Rotondo detto il Rosso,
"arruolato" in carcere dai carabinieri del Ros:
inchiesta rimbalzata di procura in procura tra tensioni e veleni, e approdata
infine alla Direzione antimafia di Milano nelle mani dei pm
Luisa Zanetti e Daniela Borgonovo.
è una inchiesta delicata e scivolosa, raccontata nei mesi
scorsi da Repubblica, su cui l' atto finale fornisce nuovi, sconcertanti
dettagli. Nuovi episodi, nuovi verbali che solo ora vengono
alla luce. E che hanno convinto la Procura milanese che - per quanto
incredibile possa sembrare - all' interno del Ros agiva indisturbata una struttura deviata, che
trafficava quantità impressionanti di stupefacenti fuori da ogni controllo e da
ogni norma. E non solo stupefacenti: Ganzer e Obinu sono accusati di avere importato in Italia a bordo
della motonave "Bisanzio", salpata da
Beirut e approdata a Ravenna il 9 dicembre 1993, «centodiciannove kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose
munizioni», destinati alla malavita organizzata e venduti
in cambio di una somma di denaro di cui si ignora la destinazione finale.
Ignota, d' altronde, risulta essere la sorte di buona
parte del denaro che veniva gestito da quella struttura dei Ros.
La convinzione finale raggiunta dagli inquirenti è che una parte consistente
dei fondi (e si parla di molti miliardi di lire) sia stata versata direttamente
dai Ros nelle casse dei "cartelli" di narcotrafficanti colombiani e libanesi cui si rivolgevano per ordinare la droga da fare sbarcare in Italia
e da consegnare - senza nessun controllo - ai propri trafficanti di fiducia in
vista dei "blitz" presentati come brillanti operazioni di servizio.
Che spesso, si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, si concludevano con l' arresto solo dei pesci piccoli e il
recupero solo di parte della droga. Anche per questo Ganzer
e i suoi uomini sono accusati di essere andati completamente al di fuori della
legge che consente l' utilizzo di infiltrati nelle
organizzazioni criminali e il ritardo nei sequestri di droga per arrivare ai
vertici delle bande, ma in nessun modo prevede che possa essere una forza di
polizia a ideare e a gestire in prima persona un traffico di droga:
importandola, raffinandola, immagazzinandola e trovando gli acquirenti, e
finanziando coi soldi dello Stato i narcos
produttori. - LUCA FAZZO
2003
Mori SI SCAVALLA DA GANZER
Mori sui carabinieri spacciatori Metodi estranei alle mie regole
Repubblica — 23 ottobre 2003 pagina 14 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - Nei giorni scorsi, la Procura di Milano ha avvertito la ragionevole
urgenza di ascoltare, come persona informata sui fatti, il prefetto Mario
Mori, oggi direttore del Sisde ma, soprattutto, comandante del Raggruppamento
operativo speciale dei carabinieri fino al 16 gennaio del 1999. Un' urgenza -
va da sé - dettata da una circostanza oggettiva (più di uno degli ufficiali
dell' Arma indagati è transitato in questi ultimi due anni nei ruoli del
servizio segreto civile) e da curiosità investigative semplici da afferrare.
Sapeva Mori quale minestra cucinava Giampaolo Ganzer nelle sezioni antidroga
del reparto di eccellenza di cui era stato comandante e, ancor prima,
vicecomandante (dall' agosto '92 al gennaio '97)? Era al corrente che, in
almeno sei circostanze, erano stati truccati presupposti ed esiti di
altrettante operazioni dal «alto impatto»? Poteva forse spiegare come e perché
si fosse costituito quell' anomalo triangolo che per anni ha consentito a un
sostituto procuratore di Bergamo (Mario Conte), a un pugno di sottufficiali di
quella stessa città e ai responsabili investigativi della sezione antidroga
del comando centrale del Ros di lavorare a mano libera in ogni angolo del
Paese? Chi e in forza di quali norme aveva autorizzato prassi operative
abusive? Per il prefetto Mori la deposizione a Milano non è stata una prima
volta. Come documenta un verbale agli atti dell' inchiesta di cui Repubblica è
in possesso, l' ex comandante del Ros aveva già avuto modo di discutere dell'
affare negli uffici della Procura di Brescia il 16 aprile del 1999. Quando
all' istruttoria lavorava ancora il pubblico ministero Fabio Salamone. Altri
tempi. Ma identiche questioni. E, soprattutto - lo vedremo subito - risposte
capaci di sottrarre al «sistema Ganzer» alibi protetti da una catena
gerarchica che si vuole stretta da vincoli di omertosa colleganza. Già, sulla
testa del suo ex vice-comandante, Mario Mori decide di non aprire alcun
ombrello. Al contrario, tira con attenzione una linea che ne fissa le
responsabilità gerarchiche e operative. Che lo fotografa quale terminale
autosufficiente delle scelte che tra il '94 e il '97 si consumano sull' asse
Roma-Bergamo. Che bolla le routine operative degli uomini sotto il suo
comando come «estranee alla normale prassi seguita dal Ros». Leggiamo. «Dalla
metà del '94 - ricorda Mori - e per i tre anni successivi, l' aliquota che
operava a Bergamo passò agli ordini del Secondo Reparto del comando centrale
del Ros. Si trattava di personale particolarmente qualificato nell' attività
antidroga che si voleva utilizzare in modo più penetrante sull' intero
territorio nazionale. E non c' è dubbio che il Centro di Roma ne conosceva e
dirigeva le attività. Come dicevo, questi uomini dipesero prima dal Secondo
Reparto comandato dal tenente colonnello Obinu (indagato ndr.), quindi dal
Reparto comandato dal colonnello Ganzer (indagato ndr.)». Mori, dunque, non
ebbe mai modo di entrare nelle scelte operative di quella «aliquota». Di
più, ancora oggi, non riesce a spiegarne almeno due «anomalie». «Non so dire -
annota il verbale di testimonianza - come mai la gran parte dei provvedimenti
iniziali delle indagini, quali i decreti di ritardato sequestro o arresto,
siano stati richiesti e ottenuti dalla Procura di Bergamo, anche quando le
indagini si presentavano di competenza di altre procure della Repubblica.
Certo, non si trattava di una valutazione che potesse competere soltanto al
maresciallo Lovato (il sottufficiale più alto in grado della «aliquota» di
Bergamo, oggi indagato ndr.)». E ancora: «Non so come mai tutte quelle
indagini siano state presentate all' autorità giudiziaria sempre facendo
riferimento a ipotesi isolate di traffico di stupefacenti e non a quella
associativa». «Certamente - affonda - la scelta di operare esclusivamente con
operazioni di consegna controllata dello stupefacente arrestando coloro che
ritiravano la droga, senza ulteriori sviluppi per individuare le
organizzazioni di trafficanti, i loro canali di approvvigionamento e
distribuzione, esulava dalla normale prassi operativa seguita dal Ros.
Evidentemente, quelle scelte erano frutto di accordi diretti con il
magistrato». Un fatto Mori dà per scontato. Che denaro e stupefacenti
sequestrati nel corso delle operazioni dovessero essere consegnati alla
magistratura. E che se questo non avvenne - come sistematicamente non è
avvenuto - non fu per ordini da lui impartiti, ma, semmai, in loro violazione.
«Escludo - si legge nel verbale di deposizione - di aver mai impartito in
qualità di comandante direttive o anche semplici autorizzazioni diverse da
quelle imposte dalla legge. Sia per quel che riguarda il sequestro e deposito
del denaro, che la custodia della sostanza stupefacente». «Ovviamente non
autorizzai mai nessuno - insiste l' ex comandante - neppure a trattenere lo
stupefacente sequestrato per impiegarlo in successive operazioni di polizia
giudiziaria, al di fuori di quelle autorizzate dalla magistratura». Come è
facile vedere, nelle parole di Mori il «sistema Ganzer» - per come ricostruito
nella monumentale istruttoria della Procura di Brescia e nelle conclusioni che
oggi ne trae quella di Milano - non solo non trova dunque sponda, ma al
contrario spigoli che ne fotografano le prassi abusive. Al punto da convincere
l' attuale direttore del Sisde a voler mettere a verbale già in quell' aprile
del '99 un giudizio definitivo su quelle routine operative che dissimulavano
l' istigazione «con attività sotto copertura». «Se fossi venuto a conoscenza
di eventuali provvedimenti, formali o meno, rilasciati a uomini del Ros per
autorizzarli ad aprire in proprio canali per far affluire stupefacente in
Italia, lo avrei impedito». - CARLO BONINI
2003
la figura
del "corvo", UN METODO MAFIOSO PER COPRIRE UNA COSA PRESENTANDONE UN'ALTRA, una
strategia per uccidere la giustizia possibile in futuro, attraverso un presente
marchiato dai dubbi
Ro$$, sotto torchio il pm indagato
Repubblica — 23 ottobre 2003 pagina 14 sezione: POLITICA
INTERNA
MILANO - Il magistrato infila di buon passo l' entrata di Palazzo di Giustizia
e, confondendosi tra la folla delle udienze, raggiunge gli uffici della Dda.
Per il pm bresciano Mario Conte è il giorno del faccia a faccia con i
colleghi milanesi che indagano sulla presunta struttura parallela dei Ros,
capace di «stimolare» con agenti infiltrati il traffico di droga dal
Sudamerica. Nei primi anni '90, da pm della procura di Bergamo, Conte aveva
coordinato le inchieste sul narcotraffico. Oggi, su quelle indagini si
allunga l' ombra di una partita condotta sottotraccia e al di fuori dalle
regole. I magistrati della Dda milanese - i pm Daniela Borgonovo e Luisa
Zanetti - sono chiamati a illuminare le zone d' ombra che coprirebbero partite
di coca comprate e rivendute "fuori registro". All' interrogatorio partecipa
anche il capo dell' ufficio, l' aggiunto Ferdinando Pomarici. La porta della
stanza al sesto piano si chiude alle 9, per riaprirsi solo alle 19, quando
Conte esce accompagnato dal suo difensore, l' avvocato Angelo Giarda: «Credo
che il dottor Conte abbia dimostrato, anche documentalmente, che le scelte
investigative furono ispirate a criteri di trasparenza e correttezza». La
«tranquillità» di Conte contrasta con il clima pesante che circonda l'
indagine. Non è un caso che lo stesso Pomarici abbia voluto essere presente in
prima persona, accanto alle due colleghe che si trovano ora a chiudere un'
indagine tormentata durata sette anni, passata attraverso altre due procure,
Brescia e Bologna, prima di ritornare a Milano, da dove era iniziata nel 1997.
Sullo sfondo aleggia la guerra interna al Ros, con scambi di accuse e
anonimi. Non ultimo, probabilmente, quello arrivato un mese fa a cinquanta
magistrati milanesi. Il «corvo» insinua una "combine" tra uno dei due pm
dell' inchiesta ed altri giudici per «pilotare le prove e arrivare alla
condanna di alcuni imputati». A preoccupare è la tempistica (l' anomino si
fa vivo quando l' inchiesta sui Ros è ormai alla stretta finale) e le minacce
trasversali: «Abbiamo le intercettazioni ambientali degli accordi illeciti,
tutti i magistrati sono sorvegliati e controllati», ma soprattutto l' annuncio
di aver consegnato il dossier al «Comitato popolare per la giustizia», lo
stesso che ha denunciato a Brescia i pm Ilda Boccassini e Colombo. Nonostante
i veleni, l' inchiesta continua. Nelle scorse settimane, i pm avevano
interrogato il generale Giampaolo Ganzer, attuale comandante dei Ros. «In
quegli anni - si è difeso Ganzer - mi seguivo praticamente a tempo pieno di
mafia ed ero impegnato nell' indagine per la cattura di Totò Riina. Non avevo
tempo di seguire altre operazioni». Proprio su richiesta della difesa di
Ganzer è stato sentito, in qualità di testimone, anche il prefetto Mario Mori,
attuale capo del Sisde ed ex comandante dei Ros. L' aggiunto Pomarici fa
scudo: «Abbiamo tempi strettissimi, entro una settimana chiuderemo gli
interrogatori e poi valuteremo il materiale probatorio. Certo, si tratta di un
procedimento complicato, istruito da altri magistrati e composto da migliaia
di pagine, ma confido sulle colleghe Borgonovo e Zanetti». -
PIER FRANCESCO FEDRIZZI
2003
garantisti e lo scandalo del Ro$$
Repubblica — 23 ottobre 2003 pagina 1 sezione: PRIMA
PAGINA
IL "GARANTISMO" italiano è una burletta casereccia cucinata alle cozze.
Bisogna guardare all' affare del Ros dei carabinieri per rendersene conto. Se
ci fossero garantisti da qualche parte - ovvero gente interessata a che il
processo penale, e quindi l' istruttoria che lo precede, sia fair, cioè
corretto - si sarebbe udita la loro voce. Invece il racconto dei trucchi e dei
maneggi di "un' associazione per delinquere armata" costituita all' interno
del Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri ha prodotto soltanto un
assordante silenzio. Tacciono i cavalieri senza macchia e senza paura del
"giusto processo". Ammutoliti appaiono gli avvocati e le camere penali. Tace
il Comando generale dell' Arma. Senza parole è la consorteria togata che,
perlomeno, può vantare di aver condotto fino al termine un' indagine penosa.
Privi di parola se ne sono stati per ventiquattro ore i tromboni che ogni
giorno suonano lo spartito della "malagiustizia". Eppure qualche
considerazione "garantista" merita il quadro accusatorio ricavato dai
cinquanta faldoni dell' inchiesta milanese (qui non importano le
responsabilità individuali che soltanto un processo può accertare). Salta
fuori che il nucleo di eccellenza investigativa dei carabinieri istigava al
delitto, manipolava le fonti di prova, introduceva droga in Italia,
addirittura l' ha raffinata e venduta a organizzazioni di narcotrafficanti che
l' hanno distribuita nelle nostre città in cambio di denaro che dio solo sa
che fine ha fatto. I pubblici ministeri sostengono che questo stato di cose è
il frutto della degradazione etica e professionale di un gruppo di ufficiali
ambiziosi che ha scelto questa scorciatoia cinica per aggiungere qualche grado
alla giubba. In realtà, come molti sanno (come politici sanno e infatti hanno
il Ros come il diavolo) l' affare è più antico, più grave e minaccioso. Quel
che la Procura di Milano racconta nella sua istruttoria è soltanto l' esito di
un sistema investigativo che ha perso qualsiasi contatto con le regole dello
Stato di diritto. Il Ros del generale Giampaolo Ganzer, dal 1993 nel nucleo
investigativo (oggi ne è il comandante), ha "firmato" - per stare alle storie
più recenti - le indagini contro "Iniziativa comunista" per venire a capo
della morte di Massimo D' Antona o l' inchiesta contro i no global e
"disobbedienti" napoletani e calabresi per venire a capo dei disordini di
Genova 2001. In entrambi i casi, il Ros si muove in una prospettiva che può
essere raccontata così. Ganzer individua un ambiente, punta un colpevole
possibile, concepisce un' ipotesi d' accusa. Gli investigatori dell' Arma
intercettano, spiano, osservano, pedinano. Ne ricavano frasi, eventi, luoghi
che, in assenza di contraddittorio e senza il controllo di un pubblico
ministero, possono essere acconciati secondo le necessità accusatorie
edificando una conveniente cabala induttiva. Lavorare a mano libera e senza
controllo sulla materia viva dell' indagine è il sistema che piace al Ros di
Ganzer. Una volta organizzato il quadro, il Ros si cerca in giro per l' Italia
il pubblico ministero disposto a non farla tanto lunga con la solidità delle
fonti di prova raccolte. Con i nessi delle ipotesi accusatorie, con un'
attendibile congruenza dei reati da contestare. è accaduto che gli
investigatori di Ganzer debbano fare il giro di tre o quattro procure prima di
trovare il pubblico ministero sensibile all' urgenza di un mandato di arresto.
Il sistema di Ganzer ha di fatto modificato la natura stessa del
Raggruppamento operativo speciale. Il nucleo investigativo nasce per
assicurare alle inchieste più complesse dei pubblici ministeri italiani l'
alta specializzazione di una polizia giudiziaria capace, per risorse e
intelligenza, di competere alla pari con le grandi organizzazioni del crimine
e del terrore politico. Un' investigazione di alto livello non autonoma, non
prigioniera di un corpo separato, ma connessa ai nuclei d' eccellenza delle
altre polizie (lo Sco della polizia, il Gico della Guardia di Finanza) e al
servizio di una magistratura a cui il Paese assegna il compito di garantire
sicurezza e ordine contro i fenomeni criminali e eversivi più pericolosi. è
questo legame con le indicazioni di un pubblico ministero e la verifica di un
giudice che Ganzer interrompe. Come possono testimoniare, se volessero, le
decine di ufficiali e sottufficiali (più o meno quaranta) che hanno
precipitosamente abbandonato il Raggruppamento negli ultimi anni, Ganzer
trasforma l' attività di investigazione tipica della polizia giudiziaria in
un' attività informativa simile al lavoro di un servizio segreto. Il generale
la battezza con il nome di info-investigazione. Chi decide su quale terreno,
intorno a chi e perché lavorare non sono più le notizie di reato o le esigenze
processuali delle procure, ma le curiosità, diciamo così, del nucleo e il
calendario dell' attualità. Il Ros deve essere in prima pagina in tutte le
questioni che attraggono l' attenzione dell' opinione pubblica, sembra dica il
generale ai suoi collaboratori. Se c' è Genova, si lavora sui no global. Se D'
Antona è assassinato, le Brigate Rosse o quelle che possono essere le Brigate
rosse. Al di sopra e al di là delle indicazioni di un pubblico ministero,
tanto quello che firma il risultato dell' inchiesta da qualche parte, prima o
poi, si trova. Se il terrorismo islamico inquieta il Paese, si trasforma
repentinamente dalla sera alla mattina il nucleo specializzato in criminalità
organizzata in struttura info-investigativa sul terrorismo islamico. Poi, è
sufficiente istruire un' ipotesi, intercettare, spiare, osservare, pedinare e
sempre, in qualche modo, ne viene fuori un Rapporto da consegnare ai pubblici
ministeri e a una conferenza stampa. Con soddisfazione dei governi, del
Comando generale dell' Arma dei carabinieri, delle carriere. A questo punto, i
garantisti avrebbero già da preoccuparsi, ma i loro inquieti pensieri
sarebbero ancora acerbi perché, a ben vedere, il "sistema Ganzer" (chiamiamolo
così) anticipa le innovazioni a cui la maggioranza politica sta lavorando
ipotizzando di riscrivere il rapporto tra polizia e pubblico ministero
affidando alla sola polizia la gestione della prima fase delle indagini e la
verifica dell' esistenza di un' ipotesi di reato. In questo disegno, che ha l'
autorevole avallo del capo del governo, il pubblico ministero diventerebbe l'
"avvocato della polizia". Quando il reato è stato avvistato o comunque solo a
indagini avviate, viene informato il pubblico ministero perché quel che gli si
chiede è di offrire le sue cognizioni tecnico-giuridiche al servizio dell'
ipotesi accusatoria confezionata in questura o in caserma. Con queste regole,
Ganzer andrebbe a nozze perché la sua piccola riforma se l' è già fatta e
realizzata da solo con il suo Ros. Con buona pace dei garantisti alle cozze.
Perché è del tutto evidente che rovesciare il rapporto tra polizia e ufficio
del pubblico ministero - come Ganzer ha fatto per anni e come sembra volere la
maggioranza - non dà più incisività alla repressione dei reati e non rafforza
le garanzie dell' imputato. Garantisce soltanto coloro che possono contare su
amicizie e solidarietà, i più forti nel condizionare corpi di polizia
centralizzati alle dirette dipendenze del governo, aprendo lo spazio - è il
caso di dirlo - a un uso politico della giustizia penale. è singolare che
dinanzi a tanta perversione dello Stato di diritto e alla deformazione dell'
essenziale principio dell' uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i
garantisti tacciano. Nel centrodestra, come nel centrosinistra. Tra i
magistrati come tra gli avvocati. O che le voci che si alzano risultino così
ambigue. Come quella del ministro dell' Interno Giuseppe Pisanu che a tarda
sera ha dichiarato di «non avere dubbi»: «Le cose andranno per il giusto modo
e tutto si risolverà per il meglio». Frase difficile da decifrare. "Il meglio"
per chi? Per il generale Giampaolo Ganzer che si libererà dalle accuse di
Milano e tornerà a fare il suo mestiere info-investigativo? O "il meglio" per
il cittadino che rischia di finire, senza alcuna garanzia e diritto, nelle
maglie dell' info-investigazione del generale Ganzer? -
GIUSEPPE D' AVANZO
2003
morte in
servizio
Cercate nelle carte del Ro$$ perché mio figlio è morto
Repubblica — 10 novembre 2003 pagina 21 sezione:
POLITICA INTERNA
MONZA - Giuseppe Incorvaia è un padre di 74 anni che ha perso un figlio. E' un
padre carabiniere che ha perso un figlio carabiniere. Si chiamava Salvatore.
Se n' è andato a 24 anni, il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un
colpo alla tempia esploso dalla sua pistola di ordinanza. Da quella notte di 9
anni fa, Giuseppe non ha smesso un solo giorno di chiedere conto della morte
del suo primogenito. Non si è rassegnato alle conclusioni dell' Arma e della
magistratura di Monza, che sotto il suo dolore hanno presto tirato una riga in
cui si legge: «suicidio». Ha chiesto la riesumazione delle spoglie di suo
figlio e ora, seduto nello studio del suo avvocato, Francesco Mongiu, dice:
«Salvatore è stato assassinato da uomini che portavano la sua e la mia stessa
divisa. Carabinieri. E il segreto della sua morte va cercato nelle operazioni
del Raggruppamento operativo speciale dell' Arma, il Ros». Salvatore non
prestava servizio nel Ros. Era vicecomandante della stazione di Vimercate...
«Le chiedo la pazienza di ascoltare questa storia dall' inizio alla fine. E
forse allora capirà se sono solo un povero vecchio...». Da dove vuole
cominciare? «Dalla mattina del mio compleanno di nove anni fa, il 13 giugno
1994. Andai a trovare Salvatore a Vimercate, dove viveva con la moglie e la
sua bimba, che allora aveva solo 20 mesi. Era inquieto, come mai lo avevo
visto. E dopo una notte di insistenze, mi disse: "Papà, ormai sei fuori dall'
Arma... E' meglio che tu non sappia". Aggiunse soltanto che si trattava di una
storia in cui entravano pezzi grossi al di sopra di ogni sospetto e che di
mezzo c' era un maresciallo». E la cosa finì lì? «No. La mattina del 15 giugno
mi chiese di accompagnarlo dal comandante della compagnia, a Monza. Era a lui
che diceva di voler raccontare tutto. Voleva lasciare Vimercate ed essere
trasferito a Genova. Il comandante non si fece trovare. E Salvo,
probabilmente, firmò così la sua condanna. Che venne eseguita quella notte
stessa. Uscì di casa dopo cena, con la sua macchina, una Audi. Era in
borghese...». Era armato? «Salvatore girava sempre armato. E con il proiettile
in canna». Quando seppe che era morto? «Il mattino successivo. Alla porta di
casa venne a bussare un maresciallo. Fu brutale: "Suo figlio si è suicidato".
Salii in macchina con lui e percorremmo neppure un chilometro dalla caserma.
Ecco, guardi pure da solo...». Giuseppe Incorvaia solleva il lembo di un
fascicolo di cartone color rosa. Ne estrae quindici foto. I suoi occhi si
riempiono di lacrime. Salvatore è al posto di guida della sua Audi. Il capo,
reclinato sul poggiatesta, è martoriato dal foro di entrata di un proiettile
che gli ha devastato la tempia destra. Le braccia, composte lungo i fianchi,
si stringono in grembo, dove è appoggiata con il calcio rivolto verso il basso
la sua calibro 9 parabellum. Il vetro sul lato passeggero dell' Audi è
infranto. I finestrini posteriori sono semi-aperti. Nel portaoggetti alla base
del cambio, una cartuccia inesplosa. Giuseppe Incorvaia si fa forza. «Sul
posto, trovai il colonnello Ludovico Triscari, allora comandante del gruppo
carabinieri di Monza. Parlava con un giornalista e lo sentii dire con un tono
perentorio: "Questo è un suicidio. Punto e basta". Ero sconvolto, ma tutta
quella sicurezza prima mi ferì, quindi mi lasciò allibito. Soprattutto quando
cominciai a girare intorno alla macchina». Da cosa fu colpito? «Ho fatto
indagini per 40 anni. Come era possibile che il vetro sul lato passeggero
fosse infranto visto che mio figlio si era sparato un colpo alla tempia destra
e dunque il proiettile correva in direzione opposta? Perché quei finestrini
posteriori aperti? Perché una cartuccia inesplosa nel portaoggetti? Perché il
bossolo del colpo esploso era sul sedile posteriore? Perché la mano destra di
mio figlio, che si supponeva avesse impugnato l' arma al momento di fare
fuoco, era immacolata, senza neppure una traccia di sangue?». Quali risposte
si diede? «Che mio figlio era stato ucciso. Che conosceva i suoi assassini,
almeno due, uno dei quali sedeva dietro di lui e aveva aperto i finestrini per
evitare gli effetti della detonazione nell' abitacolo. Senza sapere, però, che
l' arma di mio figlio aveva il colpo in canna. E dunque, quando aveva preso la
sua pistola, per armarla aveva istintivamente tirato il carrello, espellendone
la cartuccia inesplosa. Lo dissi al colonnello Triscari: "E lei questo lo
chiama suicidio?"». Non la ascoltarono? «L' Arma dispose un' autopsia
insultante, indegna, che, si figuri, annotava possibili dissapori tra mio
figlio e sua moglie. Un' autopsia! La Procura di Monza, dopo tre mesi,
archiviò. Era un maledetto imbroglio». Cui lei non si rassegnò. «Nel novembre
del '95, mi rivolsi all' avvocato Mongiu e chiesi la riapertura delle
indagini. E fu allora che accadde qualcosa di inatteso. Vennero a cercarmi i
marescialli Salvatore Corbo e Sebastiano D' Immé. Erano i due colleghi di mio
figlio. Mi dissero che avevano saputo della riapertura delle indagini e che
avevano notizie importanti da comunicare al mio avvocato». Lo fecero? «No. O
forse non ne ebbero il tempo. D' Immé venne ucciso il 6 luglio del '96 durante
un normale controllo antirapina. I suoi assassini vennero localizzati qualche
tempo dopo a Milano dai carabinieri e uccisi. Tutti, tranne uno, che si è
sempre dichiarato innocente. Corbo venne trasferito e credo abbia capito che
per vivere è meglio dimenticare». Ritiene che anche quella di D' Immé sia
stata una morte legata al segreto di suo figlio? «Ne sono certo per quel che
ebbi modo di ascoltare, nel '96, al processo di Verona nei confronti della
cosiddetta banda di Alceo Bartalucci, conosciuta anche come la banda dei
pentiti». Cosa c' entra questo processo, adesso? «Un bravissimo cronista dell'
Unità, Giovanni Laccabò, aveva scoperto che negli atti di quel processo era il
filo che portava alla morte di mio figlio». Quale filo? «La banda dei pentiti
aveva commesso, indisturbata, decine di rapine in Val Padana durante la prima
metà del '94, fino a quando non aveva ucciso un agente di polizia,
Massimiliano Turazza. La Procura di Verona aveva scoperto che la banda era
coperta dai carabinieri del Ros. Meglio, da un suo maresciallo, Angelo Paron.
Che in cambio di informazioni, riforniva la banda con armi e munizioni da
guerra in dotazione alle forze di polizia e, soprattutto, gli assicurava
libertà di azione. Per rapine e traffico di stupefacenti». E come si
arriverebbe da qui alla morte di suo figlio? «Insieme al maresciallo Paron del
Ros di Padova, venne processato anche il colonnello Triscari del gruppo
carabinieri di Monza. Ricorda? L' ufficiale che si era affrettato ad
archiviare la morte di Salvatore come suicidio. Era accusato di aver taciuto
le informazioni che gli era state trasmesse dal suo Nucleo Operativo sulla
presenza, nella sua zona di competenza, del "pentito" Alceo Bartalucci. Che
non solo girava dove non doveva. Ma girava armato». E dove girava? «Nella zona
di Vimercate. Dove era mio figlio». Lei crede che suo figlio sia morto perché
aveva incrociato questa storia? Che questo fosse il suo segreto? «Oggi ne sono
certo. Mio figlio aveva scoperto operazioni illecite del Ros, coperte da un
colonnello. E per questo è stato ammazzato». Come si è concluso il processo di
Verona? «In primo grado, Triscari è stato condannato. Mentre Paron è stato
assolto, perché chi lo accusava ha ritrattato. So poi che nei suoi confronti
la Procura fece appello. Ma non ha poi così importanza». Che cosa ha
importanza allora? «Che il generale Ganzer non ha sin qui dato le spiegazioni
che dovrà pur dare un giorno». Come comandante del Ros? «Non solo. Ganzer
arrivò al Ros dopo aver lavorato a Verona, dove, come accertò il processo, in
qualità di comandante provinciale aveva gestito il "pentito" Bartalucci. Mi
pare abbastanza per chiedergli: chi ha ucciso Salvatore?». -
DAL NOSTRO INVIATO CARLO BONINI
2003
Carabinieri e spacciatori leggi violate per fare carriera
Repubblica — 22 ottobre 2003 pagina 14 sezione:
POLITICA INTERNA
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2003
Associazione criminale nel Ro$$
Repubblica — 22 ottobre 2003 pagina 1 sezione: PRIMA
PAGINA
MILANO - Questa è una storia nera di cui la Procura della Repubblica di Milano
è venuta a capo dopo sette anni di indagini cui pochi desideravano mettere
mano e che Repubblica è in grado di documentare. è la storia di un'
associazione per delinquere che ha vestito e veste la divisa del
Raggruppamento operativo speciale dell' Arma dei carabinieri. Di venti
manovali in divisa, agli ordini di un ufficiale che, oggi, del Ros è il
comandante. Il generale Giampaolo Ganzer. Dal 1991 al 1997, le routine
operative della sezione antidroga del reparto investigativo di eccellenza dei
carabinieri sono state declinate in un grumo di abusi, malaffare, illecito
arricchimento personale, peculati, provocazioni, istigazioni, ricatti. Almeno
venti militari, tra ufficiali e sottufficiali, hanno sistematicamente violato
le norme e le prassi che disciplinano le operazioni antidroga sotto copertura,
trasformandosi in trafficanti e raffinatori di stupefacenti in proprio.
Arresti obbligatori di latitanti sono stati omessi, falsificando regolarmente
i rapporti all' autorità giudiziaria che talvolta non ha visto e, spesso,
quando ha visto ha preferito girarsi dall' altra parte. Centinaia di milioni
di lire di denaro contante frutto di sequestri durante le operazioni sono
stati sottratti alle regole della confisca per essere riciclati. La pubblica e
consapevole menzogna è stata moneta corrente per confondere e deviare l'
opinione pubblica, per svuotare il diritto di difesa degli imputati. Il
ricorso alle intercettazioni telefoniche spesso non ha trovato giustificazione
né formale né sostanziale nelle indagini. E tutto questo, con un' aggravante,
annota la Procura di Milano: «Essere l' associazione per delinquere armata». A
sollecitarne le mosse, ora il tornaconto personale, ora il lustro di rapide
progressioni in carriera. A plasmarne prassi e metodo, dissimulandone la
natura, la pianificazione attenta e personale del suo architetto, il generale
Giampaolo Ganzer, oggi comandante del Ros, e di due consapevoli complici: l'
ufficiale dell' Arma Mauro Obinu, già comandante della sezione antidroga del
Ros e oggi nella divisione criminalità organizzata del Sisde, il servizio
segreto civile, nonché il sostituto procuratore della Repubblica, Mario Conte,
già pubblico ministero a Bergamo, oggi magistrato della Direzione distrettuale
antimafia di Brescia. Ventisette informazioni di garanzia hanno già raggiunto
gli indagati in questo affare. E con un atto istruttorio di 40 pagine che
precede le richieste di rinvio a giudizio, a loro è stata comunicata la
«chiusura delle indagini preliminari» e la contestuale "discovery" di una
cinquantina di faldoni istruttori su cui la pubblica accusa si prepara a
celebrare il processo. Processo che sembrava non dovesse riuscire ad approdare
ad un esito, quale che fosse. Istruito dal pm di Brescia Fabio Salamone, l'
intero, monumentale incarto aveva infatti conosciuto un' avvilente navetta tra
procure della repubblica, prima di approdare in Cassazione ed essere quindi
assegnato, due anni or sono, a Milano. Dove ora a firmare i provvedimenti non
sono solo i due sostituti titolari dell' inchiesta, i pubblici ministeri della
Direzione distrettuale antimafia Daniela Borgonovo e Luisa Zanetti, ma anche -
a sottolinearne il peso - il procuratore aggiunto Ferdinando Pomarici. Un
magistrato di robusta esperienza, dai modi equilibrati e certo libero, come
racconta la sua storia professionale, da ogni possibile sospetto di inimicizia
per l' Arma dei carabinieri. Vediamo, dunque. * * * All' inizio degli Anni 90,
l' Arma intravede nelle grandi indagini antidroga una frontiera professionale
su cui misurare duttilità e intelligenza dei propri ufficiali e sottufficiali,
ma anche un laboratorio in cui sperimentare routine eccentriche rispetto ad
antiche e ossificate pratiche da caserma. Esportabili - se testate
positivamente - anche nella lotta all' eversione o alla criminalità
organizzata. La legislazione adegua le proprie norme, disegnando per i
cosiddetti "agenti sotto copertura" una rete di norme "scriminanti" che li
sottrae ad alcuni obblighi di legge, tutelandone l' incolumità e l' anonimato.
Gli agenti possono infiltrare le organizzazioni nazionali e internazionali del
narcotraffico. Chiedere e ottenere dalla magistratura di ritardare il
sequestro di carichi di stupefacenti. Evitare l' arresto di pesci piccoli, se
questo serve a individuare e catturarne di grossi. Sono norme che, se soltanto
maneggiate con scrupolo, hanno alta incidenza operativa e non deragliano da un
sistema equilibrato di garanzie. Nel Ros, evidentemente, qualcuno fa altri
pensieri. Quella improvvisa libertà operativa viene declinata, nella peggiore
delle ipotesi, come nulla-osta all' abuso, a costituirsi come corpo separato.
Nella migliore, come efficace strumento per liberarsi dei fastidiosi lacci e
lacciuoli con cui le procure della Repubblica imbrigliano la "fantasia" del
Reparto. A Roma - siamo nel 1993 - al comando di via Ponte Salario è arrivato
un giovane ufficiale, Giampaolo Ganzer. Ha fretta di crescere e non ne fa
mistero. Nel ' 94, dirige il II reparto investigativo, competente per le
operazioni antidroga e, in meno di quattro anni, percorre l' intera catena
gerarchica. Prima come comandante del Reparto analisi, coordinamento e osmosi
operativa (' 95-' 97), quindi come vicecomandante del generale Mario Mori
(oggi direttore del Sisde). Diventerà comandante del Ros nel 2001. Ganzer ha
un metodo. E il metodo - ricostruisce l' inchiesta della Procura di Milano -
si fa «sistema». Il Ros istruisce le sue operazioni ottenendo una delega in
bianco dall' autorità giudiziaria. Che serve a legittimare iniziative che di
legittimo non hanno né la premessa né l' esito. Ma che rispondono a una
routine. Leggiamo dagli atti: «Il Ros instaura contatti diretti e indiretti
con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al
traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla
loro denuncia». Ordina quindi «quantitativi di stupefacente da inviare in
Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità
non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia
dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». Che
non si tratti di «operazioni di infiltrazione» lo capisce anche un bambino.
«Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad importare in
Italia sostanze stupefacenti». Fabbricato artificiosamente il reato attraverso
l' istigazione, è ora necessario che su qualcuno ne venga schiacciata la
responsabilità attraverso il falso, la menzogna, l' abuso. Scrivono i
magistrati: «Il Ros rappresenta falsamente all' autorità giudiziaria e alla
Direzione Centrale dei servizi antidroga inesistenti accordi tra le
organizzazioni italiane acquirenti e i fornitori. Accordi asseritamente
appresi grazie ad agenti infiltrati». è una storiella buona per chi vuole o ha
interesse a berla, ma necessaria a liberare la mossa successiva. «Il Ros
prende in carico lo stupefacente al suo arrivo in Italia, omettendo ogni
doverosa attività di controllo su quantità e qualità. Lo trasporta e lo
detiene, anche per lunghi periodi di tempo, talvolta lasciandolo nella
disponibilità incontrollata di trafficanti». Provvede dunque alla
«installazione di laboratori per la affinazione», alla «ricerca degli
acquirenti, attraverso la mediazione di mediatori pagati». «Istiga all'
acquisto, diffondendo sul mercato la notizia della possibilità di acquisire
stupefacente». Il gioco è fatto. Il resto è banale dettaglio. Sul terreno, le
operazioni vengono condotte a mano libera, forzando, aggirando ogni tipo di
norma, falsificando verbali di sequestro e arresto, barattando il prezzo della
libertà con i latitanti. Quel che conta è ostentare «la positiva conclusione
di eclatanti operazioni». L' importante è mettere le manette a qualcuno per
poi agitare un pugno di arrestati - quale che ne sia lo spessore - da
consegnare al pubblico ministero e ad un verdetto di certa colpevolezza. è una
giostra ad alta redditività penale (e per alcuni anche economica) in cui tutti
guadagnano. Investigatore e pubblico ministero. Bisogna soltanto decidere se
salirci o meno. Bisogna, soprattutto, che un magistrato presti la propria
faccia e la propria firma, autorizzando il Ros a operare dalle Alpi alla
Sicilia, aggirando le norme sulla competenza territoriale delle singole
Procure e tenendo così lontani i ficcanaso. * * * Il sostituto procuratore
Mario Conte, in quegli anni sconosciuto magistrato di provincia, sulla giostra
decide di salire. A Bergamo, che non è neppure sede di una Direzione
distrettuale antimafia, è lui l' interfaccia di Ganzer. Su sua indicazione, fa
da ombrello, firmando quel che c' è da firmare, alle deleghe che gli
presentano i sottufficiali del Ros in forza al nucleo di Brescia, Gilberto
Lovato, Rodolfo Arpa, Gianfranco Benigni, Michele Scalisi, Alberto Zanoni
Lazzeri, autorizzandoli a operare sull' intero territorio nazionale, di
concerto con il comando Ros di Roma, e con gli ufficiali e sottufficiali delle
sezioni antidroga che nel tempo vi si succedono (Mauro Obinu, Carlo Fischione,
Costanzo Leone, Laureano Palmisano, Vincenzo Rinaldi). Scrivono i magistrati
di Milano: «Con Obinu e Ganzer, il sostituto procuratore della Repubblica
Conte promuove, costituisce, dirige, organizza l' associazione a delinquere.
Ne delinea il modus operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti
Enrique Luis Tobon Otoya (colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese ndr.)
e Biagio Rotondo, agevolandone l' attività anche durante i periodi di
detenzione. Fornisce un contributo rilevante con direttive e provvedimenti,
emessi anche al di fuori della competenza territoriale. Partecipando
personalmente, in più occasioni, ad interventi operativi». Conte sembra dunque
godere di assoluta extraterritorialità. E di una qualche sicumera. Quando
infatti l' inchiesta lo investe, chiede e ottiene di essere trasferito a
Brescia, nell' ufficio accanto a quello del pubblico ministero che su di lui
ha avviato l' indagine, Fabio Salamone. Il metodo Ros battezza almeno sei
operazioni antidroga documentalmente minate da «falsi materiali e ideologici».
Che la Procura di Milano individua e illumina come fonte di prova d' accusa:
"Operazione Cedro" (1991); "Operazione Lido" (1994); "Operazione Shipping"
(1994); "Operazione Hope" (1993); "Operazione Cobra" (1994); "Operazione Cedro
Uno" (1997) (per il dettaglio, vedi le schede in queste pagine). Il Ros -
annota in un suo bilancio la Procura - «si appropria di almeno 502 milioni di
lire», «senza precisarne o documentarne la destinazione». E lo stesso accade
per «65 chilogrammi di stupefacente» che, non solo non viene sequestrato, ma
viene spacciato e dunque reintrodotto nel mercato per mano di uomini dell'
Arma. La giostra gira e molti - troppi - fingono di non vedere. Perché? E come
è stato possibile? Sono domande - lo vedremo - che meritano di non esser
lasciate cadere e che offrono qualche sorprendente risposta. -
CARLO BONINI
2003
Appalti Foggia, si indaga in Procura il capo del Ro$$
Repubblica — 08 febbraio 2003 pagina 2 sezione: BARI
La torta degli affari foggiani deve nutrire molte bocche, non tutte
circoscritte nel territorio dauno. L' inchiesta sulla gestione degli appalti
pubblici, avviata alcuni mesi fa dalla Direzione distrettuale antimafia di
Bari, ora allarga il raggio delle indagini, mobilitando anche i vertici del
Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Ieri mattina, a Bari, il
generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, ha fatto visita al sostituto
procuratore antimafia, Gianrico Carofiglio, che coordina l' inchiesta insieme
con il collega Giuseppe Scelsi. Accompagnato dal maggiore Domenico Ruscigno,
comandante del Ros di Bari, l' ufficiale ha discusso con il pm gli sviluppi
che la delicata indagine ha preso nelle ultime settimane. L' inchiesta,
rimasta segretissima per alcuni mesi, è emersa un mese fa in occasione della
visita barese della Commissione antimafia. L' allarme era stato lanciato da
Giuseppe Lumia, presidente dell' antimafia fino al 2001, che proprio a Foggia
aveva ribadito la necessità di «capire esattamente quali sono i collegamenti
tra malavita e mondo economico, nonché le collusioni del sistema delle
istituzioni con personaggi tutt' altro che raccomandabili, riguardo agli
appalti». E proprio queste collusioni tra imprenditori e mondo criminale sono
l' oggetto dell' inchiesta finita sui tavoli della Direzione distrettuale
antimafia di Bari. Sulle indagini, vista l' estrema delicatezza dell'
argomento, gli inquirenti continuano a mantenere il massimo silenzio, ma la
presenza del generale Ganzer a Bari non è passata inosservata. L' interesse
della Commissione antimafia alla vicenda, più che una motivazione, può essere
ritenuta una spinta in più per chi da tempo lavora alacremente per sciogliere
quelle collusioni. (m.chia.)
2003
Quel "piano Cobra" di GanZer per imbrogliare il pm Spataro
Repubblica — 24 ottobre 2003 pagina 21 sezione:
POLITICA INTERNA
MILANO - Si era a metà degli anni '90 e la giostra
manipolatrice battezzata dal generale del Raggruppamento Operativo speciale dei
carabinieri Giampaolo Ganzer - Repubblica lo ha documentato nei giorni scorsi - girava a pieno regime.
Confidente nei suoi risultati, certa dell' omertà dei
suoi interpreti. Quando - è il 1994 - accade che un pubblico ministero decida
di non voltarsi dall' altra parte. Quel pubblico
ministero si chiama Armando Spataro, ex consigliere
del Csm oggi rientrato alla Direzione distrettuale
antimafia di Milano, dove ha speso la sua intera vita professionale. E dove, in
quel 1994, ricevette la telefonata di un «amico di antica
data». L' allora colonnello Giampaolo Ganzer. Quel che segue è il racconto di come l' ambizioso ufficiale del Ros
tentò di giocare il pubblico ministero che di lui si fidava. E' il canovaccio
di un imbroglio, di cui Spataro, l'
8 maggio 1999, dà conto in un verbale al pubblico ministero di Brescia
Fabio Salamone, oggi agli atti dell' inchiesta di
Milano. Leggiamo. «Conoscevo Ganzer dagli anni del
terrorismo, quando faceva parte delle speciali sezioni investigative. Ne apprezzavo qualità professionali e umane e il nostro
rapporto di amicizia si era andato consolidando. Continuavamo a sentirci e,
talvolta, a vederci. Dunque, non mi meravigliai quando, all' inizio
del '94, ricevetti una sua telefonata. Ganzer mi
chiedeva di riceverlo in Procura a Milano, insieme ad
un altro ufficiale del Ros di Roma...». I tre si incontrano qualche giorno dopo. Nell' ufficio di Spataro, siedono Ganzer e l' allora capitano Carlo Fischione della sezione antidroga
(oggi tra i 27 indagati a Milano ndr). I due carabinieri
espongono al magistrato il canovaccio di un piano battezzato "Cobra".
Sufficientemente generico per non «impegnarsi» in dettagli che potrebbero
incuriosire l' interlocutore. Abbastanza preciso negli
esiti per ingolosirlo. Spataro ne conserva un nitido ricordo:
«Ganzer mi disse che il Ros
disponeva di un confidente colombiano che aveva
rivelato l' arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi
di cocaina. Ricordo che Ganzer disponeva
di nome della nave, data di arrivo e numero di container. La cocaina,
aggiunse, era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a
fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire
il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce». Un gioco
da ragazzi. Per il quale era necessaria solo una firma sotto
un decreto di ritardato sequestro dello stupefacente. Rischio modesto,
massimo successo. «Una operazione come tante altre -
chiosa Spataro a verbale - Dissi ai due ufficiali che
l' operazione mi pareva del tutto praticabile». Il decreto di ritardato
sequestro viene firmato. Con delle istruzioni precise:
«Doveva essere dato avviso alla Procura di Massa e alle procure in cui lo
stupefacente sarebbe transitato. Bisognava intervenire qualora si fosse
rischiata la perdita del «carico». In ogni caso, i carabinieri avrebbero dovuto
riferire sulla sorte della cocaina». Spataro non sa
che è stato appena ingannato. Comincia a sospettarlo soltanto quando, qualche giorno prima del previsto arrivo della cocaina a
Massa, Ganzer lo raggiunge al telefono per
«intervenute difficoltà». La storiella che viene
venduta al magistrato ha dell' incredibile. State a sentire: «Mi venne detto che il confidente aveva riferito che i suoi
accordi con i colombiani prevedevano la sua diretta responsabilità qualora il
carico fosse stato sequestrato oltre la barriera doganale. Dunque, era
necessario, per proteggere il confidente, intercettare il carico sulla banchina
del porto, simulando un intervento cui sarebbe stato dato grande
risalto con una conferenza stampa. I colombiani avrebbero ricevuto gli articoli
via fax e così non avrebbero avuto a che dire con il confidente. A Milano la
droga sarebbe stata portata dopo dal Ros perché gli
acquirenti non ne conoscevano la provenienza, dunque non si sarebbero insospettiti
dal sequestro di Massa». Spataro comincia a mangiare
la foglia, ma non se la sente di rovesciare il tavolo. Non ancora. «Il nuovo
quadro mi sembrava strano e decisamente macchinoso, ma
per la fiducia che riponevo in Ganzer non posi alcuna
seria obiezione». La farsa in banchina può dunque consumarsi. Il 21 febbraio
'94, 213 chilogrammi di cocaina vengono sequestrati
nel container TPHU 690328-3 a bordo della «motonave Saint Pierre»,
salpata dal porto di Cartagena (Colombia). Un giovane
sostituto di Massa, Augusto Lama, deve mettere la sua faccia accanto a quella
di chi ha effettuato la «brillante operazione». A
beneficio di taccuini e tv. Il gioco è fatto. Il Ros
trasferisce la cocaina a Roma, nella caserma di Ponte
Salario. Qualcuno dovrebbe informare Spataro. Ma nessuno lo fa. Ganzer si «dimentica» dell' amico magistrato. E
non per settimane. «Per mesi non ebbi notizie. Cominciai a preoccuparmi.
Telefonai a Ganzer e lui mi disse che l' operazione non era ancora compromessa. Finché,
un giorno, trovandomi a Roma, mi presentai nella
caserma di Ponte Salario. Mi portarono nell' ufficio
di Fischione dove in un armadio blindato mi mostrarono numerosi panetti di
cocaina. Che fosse cocaina e fossero 200 chili me lo
dissero loro». Non un pezzo di carta, non uno straccio di evidenza
che fosse quella di Carrara. Ma - va da sé - se si lavora a mano libera questa è la prassi. E la prassi prevede variazioni in
corso d' opera. Ganzer torna
a inabissarsi. E solo «per
caso», tre mesi dopo, inciampa in Spataro. Ancora a Roma. Questa volta decide di dirglielo. Quella cocaina non
andrà più a Milano perché «c' è un trafficante di Bari intenzionato a comprarne
30 chili...». Anche per l' amico Spataro
è troppo. Il magistrato capisce che può o meno
superare la soglia dell' istigazione a delinquere in compagnia di Ganzer. Decide di non farlo. «Era trascorso un anno dal
sequestro di Massa. Preparai un decreto di immediata
distruzione dello stupefacente. Telefonai a Ganzer,
che prese atto. Nei giorni successivi, ricevetti il verbale di distruzione». La
«brillante operazione» era finita. E, con lei, un imbroglio e un' amicizia. «Avvertii il procuratore
Minale e i colleghi pm Nobili, Romanelli, Alma, Marcelli.
Intendevo metterli sull' avviso qualora fosse toccato
a loro trattare vicende analoghe...». - CARLO BONINI
2002
ganzer
costruisce la montatura a cosenza e la presenta sul cenone di Natale degli
Italiani insieme alla montatura Pegna (Digos Napoli e Bologna) - una montatura
ricorda quella di venezia del '85 (IL DIARIO di Deaglio la ricorda)
Arresti no global è bufera sui Ro$$
Repubblica — 20 novembre 2002 pagina 9 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - E' polemica sul Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (Ros),
l' organo investigativo che più di altri ha firmato le indagini che hanno
portato all' arresto dei 20 no global. Una polemica che si è affacciata fin da
venerdì sulla pagine dei giornali dove si raccontava di un Ros che ha bussato,
ma invano, alle porte delle procure per ottenere quegli arresti finché non ha
trovato "aperta" quella di Cosenza. La questione è esplosa ieri con
interpellanze parlamentari e ieri sera ha voluto rispondere lo stesso numero
uno del reparto d' eccellenza dell' Arma, il generale Giampaolo Ganzer negando
che «ci siano dossier dei Ros vaganti per l' Italia alla ricerca di una
procura compiacente». Il comunicato è arrivato in diretta alla redazione di
Porta a Porta dopo l' ultimo attacco, quello dei Disobbedienti. Nel salotto di
Vespa, Casarini - come già aveva fatto nel pomeriggio Anubi d' Avossa - ha
detto che «chi come il Ros intercetta centinaia di telefonate senza rendere
conto a nessuno, è un pericolo per la democrazia». Ecco perché occorre sapere
«quanti sono i Ros, di quanti soldi dispongono e che attività svolgono». I si
dice dei giorni passati hanno preso corpo ieri mattina. Il primo è l'
onorevole Nichi Vendola (Rifondazione), commissario dell' Antimafia: «Il Ros -
dice - ha consumato una vendetta portando di procura in procura, in un
pellegrinaggio meschino, una paccottiglia che non può tenere in piedi alcun
genere di accusa». Nel pomeriggio l' onorevole Paolo Cento (Verdi) deposita
un' interpellanza al presidente del consiglio e ai ministri dell' Interno e
della Difesa, per chiedere di «limitare i compiti dei Ros e verificare
eventuali abusi in questa indagine». Fausto Bertinotti parla di «forze con
propensione eversiva nei corpi della polizia dello Stato e in pezzi della
maggioranza». Sergio Cofferati giudica «incredibili e senza fatti concreti le
accuse ai no global». Ieri sera, dopo l' ultimo attacco in diretta a Porta a
Porta, la replica scritta del generale: «Le sezioni anticrimine di Genova e di
Catanzaro hanno condotto distinte indagini delegate dalle procure e nel
rigoroso rispetto dei mandati ricevuti. Pertanto, nessun' altra autorità
giudiziaria avrebbe potuto essere, ne è stata, in alcun modo informata dell'
esito degli accertamenti svolti e non esiste alcun dossier vagante per l'
Italia alla ricerca di una procura compiacente». Intanto il Movimento e tutte
le sue anime, dai Cobas ai cattolici, ha annunciato gli appuntamenti della
settimana: venerdì a Termini Imerese con gli operai della Fiat e sabato la
manifestazione nazionale a Cosenza. -
CLAUDIA FUSANI
Dietro il comunicato del Viminale dubbi sul Ro$$ e su tre procure
Repubblica — 18 novembre 2002 pagina 8 sezione:
POLITICA INTERNA
ROMA - L' inerzia dell' inchiesta cosentina sui new global cambia
traiettoria. Con mossa pazientemente lavorata in quel di Alghero, buen
retiro scelto per lasciar posare la polvere di un week-end complicato, il
ministro dell' interno Giuseppe Pisanu decide di disinnescare il dirompente
potenziale politico dell' indagine, imbrigliandone i protagonisti. Nella
scelta del ministro è evidente un segno politico, che ripropone intatto il
metodo bipartisan del «modello Firenze». Ma a ben vedere, nelle ventidue
righe di comunicato rassegnato dal Viminale alle quattro e mezza del
pomeriggio di ieri, c' è qualcosa di più. «Un calendario di lavoro», per
usare la anodina definizione di una fonte dello staff del ministro. A dirla
tutta, il canovaccio di un robusto atto istituzionale che, in un inedito
confronto tra prerogative della magistratura e poteri dell' esecutivo in
materia di sicurezza nazionale e libertà dei singoli, interpella
direttamente metodi e scelte di almeno tre Procure della Repubblica
(Cosenza, Napoli, Genova) e della polizia giudiziaria (Ros e Digos) che
quegli uffici ha scelto come referenti. Che sollecita entrambi - inquirenti
e investigatori - ad adempimenti di legge sin qui evidentemente disattesi,
prefigurando i possibili esiti di scelte che non dovessero raccogliere l'
invito. Vediamo. <* * *& «Il ministro - si legge nel dispaccio licenziato
dal Viminale - segue con grande attenzione gli ulteriori, possibili effetti
che i provvedimenti della magistratura di Cosenza potrebbero determinare
sull' ordine pubblico. A tal fine, avvalendosi degli strumenti che la
normativa vigente gli attribuisce, chiederà al procuratore della Repubblica
di Cosenza di fornirgli ogni utile elemento conoscitivo che emerga dall'
inchiesta in corso». Nel passaggio, è una prima notizia e - lo vedremo - un
riferimento a quel che sin qui non è accaduto. La norma cui il Viminale fa
riferimento è l' articolo 118 del codice di procedura penale ("Richiesta di
copie di atti e informazioni da parte del ministro dell' Interno"). Parliamo
di tre commi di legge il cui uso (di cui non si ricordano significativi
precedenti) consente al ministro dell' Interno di forzare il segreto di
indagine, acquisendo dal fascicolo del magistrato che procede «informazioni
ritenute indispensabili per la prevenzione dei reati per i quali è previsto
l' arresto in flagranza». La tecnicalità va sciolta. Perché nel caso dell'
inchiesta cosentina sui new global, nasconde un semplice sillogismo e un'
implicita censura. Se è vero - ragiona il Viminale - che il pm Domenico
Fiordalisi ha individuato un epicentro eversivo in quel di Cosenza, capace
di «sovvertire la globalizzazione dei mercati», annullare «il regolare
funzionamento delle attività di governo», esportare terrore e devastazione
in ogni angolo del Paese, prassi avrebbe voluto che lui stesso o il suo
Procuratore capo ne avessero informato il ministro dell' Interno. Vale a
dire il terminale di Governo e Parlamento per quel che attiene le garanzie
di un corretto equilibrio tra libertà individuali e sicurezza collettiva.
Così non è stato, evidentemente. Perché nulla - nonostante il «pericolo
imminente e concreto» che covava in quel dell' università di Arcavacata - la
Procura di Cosenza aveva ritenuto di dover comunicare in due anni di
indagine sulla «Rete ribelle del Sud». E come lei, del resto, il Ros dell'
Arma dei carabinieri, il questore e il responsabile della Digos di Cosenza.
Una prima annotazione. Di qui in avanti, Pisanu non attenderà più cenni
spontanei. Vincerà questa curiosa ritrosia di uffici giudiziari e apparati
di sicurezza con il codice in mano. Per il pm Fiordalisi non è una buona
notizia. Ma non lo è neppure per il comandante del Ros Bruno Ganzer, per il
questore di Cosenza Romolo Panico e il suo dirigente Digos. <* * *& Le
"cattive" notizie per chi sino ad ora ha lavorato all' affare new global
tuttavia non finiscono qui. Perché l' avviso ai naviganti del Viminale muove
da Cosenza per raggiungere nuovi approdi. Leggiamo ancora dal dispaccio: «Il
ministro Pisanu ha confermato la piena fiducia nell' azione della
magistratura, auspicando, da un lato, la rapida conclusione di tutte le
indagini attinenti allo svolgimento di pubbliche manifestazioni. Dall'
altro, che anche i competenti procuratori generali delle Corti di appello,
data la delicatezza e l' ampiezza dell' inchiesta, assicurino la piena
attuazione delle attività di coordinamento e di vigilanza informativa che la
legge prevede». Nella clausola di stile "istituzionale" che conferma «piena
fiducia nell' azione della magistratura», Pisanu indica in realtà il
presupposto in assenza del quale il Viminale - e verosimilmente il
Parlamento - sono pronti a metterla in mora quella fiducia. Parliamo della
«rapida conclusione di tutte le indagini». Nell' uso del plurale, il
ministro dell' interno indica infatti un punto di sofferenza politica non
solo nel lavoro della Procura di Cosenza, ma anche in quelle di Genova e
Napoli. Insomma, come per la «Rete ribelle del sud», anche le inchieste
sull' irruzione nella «Diaz», sulle devastazioni a Genova, sulla morte di
Carlo Giuliani, sulla caserma Raniero e i fatti napoletani del 17 marzo 2001
non possono e non devono trascinarsi oltre un tempo ragionevole. Che, pare
di capire, è arrivato a scadenza e che ulteriormente dilatato rischierebbe
di compromettere l' equilibrio raggiunto a Firenze. Dall' una e dall' altra
parte. Tra chi indossa felpe e chi divise. Del resto che nella «conferma di
piena fiducia» del Viminale alla magistratura vi sia poco di rituale, è
confermato dalla seconda tecnicalità cui Pisanu ricorre per indicare in
quali strumenti quella fiducia dovrà tradursi. Il ministro sollecita infatti
i Procuratori generali di corte d' appello di Genova, Napoli e Cosenza (in
quest' ultimo caso si tratta del Procuratore generale di Catanzaro) ad
avvalersi d' ora in poi per le indagini che in qualche modo rimbalzano sulle
vicende dei new global dell' articolo 372 del codice di procedura penale
(questa la norma cui viene fatto riferimento). Di quella norma cioè che
consente di imporre per via gerarchica il coordinamento delle indagini tra
diverse procure della Repubblica. Di più: che consente nel caso in cui quel
coordinamento non si realizzi, di appropriarsi delle indagini. -
CARLO BONINI
Ma il pressing del Ro$$ sui giudici a Genova diventa un boomerang
Repubblica — 05 dicembre 2002 pagina 6 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - Esiste un capitolo non scritto dell' affare genovese che racconta la
grande sconfitta di un metodo investigativo e delle sue ambizioni. Che
annuncia l' uscita di scena dell' uomo che di questa sconfitta è ritenuto
responsabile: il generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros dei
carabinieri. Fonti qualificate informano che dopo il collasso dell' inchiesta
di Cosenza, le scelte istruttorie rassegnate dai pm genovesi Anna Canepa e
Andrea Canciani nell' ordinanza del gip Elena Daloiso accelerano
«oggettivamente» il suo avvicendamento al comando del reparto investigativo di
eccellenza dell' Arma. Questione di breve tempo. «Poche settimane - azzardano
le fonti -. E comunque non oltre i primi mesi del nuovo anno». Perché? In
questa storia conviene procedere a ritroso. Illuminare quanto accaduto nelle
prime settimane del giugno scorso negli uffici della Procura di Genova. In
quei giorni, i sostituti procuratori Canepa e Canciani affidano all' allora
Procuratore capo Francesco Meloni (lascerà l' incarico per raggiunti limiti di
età di lì a poco) le prime conclusioni di un' inchiesta complessa quanto
meticolosa sugli episodi di devastazione e violenza che hanno sfregiato Genova
nelle giornate del 20 e 21 luglio 2001. E' stato un lavoro tutt' altro che
facile quello dei due pm. E dai sorprendenti esiti istruttori. I due
magistrati chiedono infatti che agli indagati di cui si accingono a
sollecitare l' arresto venga contestato il reato di devastazione e saccheggio.
L' opzione ha un segno giuridicamente raffinato, politicamente non neutro.
Fotografa una forma di spontaneismo violento che nei giorni del G8 procede per
aggregazioni improvvise e altrettanto inaspettate contaminazioni tra il
«blocco bianco» e il «blocco nero», cui la pancia del movimento avrebbe dato,
alternativamente, pigro rifugio o, peggio, consapevole copertura. Epperò
proprio questa opzione incrocia un improvviso antagonista. Negli stessi giorni
in cui della richiesta di custodia cautelare, così come istruita dalla
Procura, si avvia ad essere investito il gip Daloiso, negli uffici del
Procuratore e dei due sostituti Canepa e Canciani fa capolino il comandante
del Ros di Genova. Ha con sé un rapporto di un migliaio di pagine, diviso in
voluminosi tomi dalla copertina plastificata. Nella trama che l' incarto
propone, le giornate del 20 e 21 luglio sono esemplificazione di un programma
associativo di segno eversivo e transnazionale incubato nei mesi precedenti il
G8. I black bloc ne sono la prova sotto il profilo «organizzativo». Mentre
Internet è il luogo oscuro dell' elaborazione politica violenta. Di più: il
punto di raccordo di alcune delle sigle antagoniste che il Ros legge come
altrettanti attori di un programma di «guerra» preordinato che a Genova avrà
il suo teatro. La distanza concettuale che divide l' impostazione del Ros da
quella che all' istruttoria hanno dato i due sostituti Canepa e Canciani con
il conforto del Procuratore capo salta agli occhi. Ma salta agli occhi
soprattutto la corrispondenza di impianto tra il rapporto del Ros di Genova e
la cornice istruttoria con cui la Procura di Cosenza imprigionerà di lì a
pochi mesi Francesco Caruso e soci. Questo forse spiega il perché quel
rapporto resterà lettera morta a Genova e troverà al contrario fortunato
ascolto in Calabria. E forse chiarisce anche il nulla in cui lo lascerà
annegare la Procura di Genova. Non è dato sapere se sia stata solo una
coincidenza a sovrapporre in giugno le richieste di custodia cautelare e le
monumentali conclusioni del Ros. E' certo, al contrario, che la coincidenza ha
avvelenato per mesi il clima di collaborazione. Il sospetto si è andato
ingrassando con il passare delle settimane, alimentato da curiose fughe di
notizie che, in estate, chiedevano pubblicamente conto del perché nonostante
un imponente lavoro di indagine dell' Arma, la magistratura genovese
colpevolmente prendesse tempo, rinviasse una decisione facile facile:
arrestare quanti avevano devastato Genova inseguendo un progetto sovversivo.
E' altrettanto certo che fino a diciotto giorni fa, quando la procura di
Cosenza ottiene i suoi ordini di cattura, a Genova nulla si sapesse di quell'
indagine. Salvo scoprire a cose fatte che alcuni degli atti di polizia
giudiziaria effettuati a Genova e per conto della procura di quella città
erano finiti de plano nei fascicoli del dottor Domenico Fiordalisi senza che
questi ne avesse mai fatto formale richiesta. Un pasticcio, nella migliore
delle ipotesi. Un pasticcio che ora imbarazza il comando generale dell' Arma
e, se le fonti di Repubblica hanno ragione, anticipa l' addio del generale
Giampaolo Ganzer. - CARLO BONINI
2002
PIRELLONE NISBA
?
2001
Droga, carabinieri nella bufera
Repubblica — 10 marzo 2001 pagina 13 sezione: CRONACA
MILANO - Nell' ufficio del sostituto procuratore della Repubblica Daniela
Borgonovo è arrivata un' inchiesta ampiamente istruita, con una quarantina di
nomi iscritti al registro degli indagati, che da due anni va inutilmente
cercando un giudice naturale che ne tragga una conclusione. Le domande che
quelle carte pongono suonano così: cosa è stata per tutti gli anni '90 la
sezione antidroga del Ros dei carabinieri? Un reparto d' eccellenza che ha
consentito di tranciare i fili del traffico internazionale degli stupefacenti,
eliminandone i protagonisti? O è stato forse, per riassumere le gravi
conclusioni dell' inchiesta del sostituto procuratore di Brescia Fabio
Salamone, «un' associazione a delinquere» in divisa che del traffico di
stupefacenti aveva fatto non il mezzo d' indagine, ma il fine della sua
attività? Che ha «abusato» dei suoi poteri, omettendo arresti dovuti? Che ha
«riciclato» i proventi in denaro della droga sequestrata? Questa inchiesta,
segreta al punto che nulla per quattro anni è trapelato, ha già seminato molti
veleni. E molti ancora ne seminerà, se è vero che il magistrato che l' ha
istruita, Fabio Salamone, è imputato
a Venezia dove il Ros lo ha
denunciato per abuso di ufficio. Se è vero che un ex sostituto
procuratore di Bergamo (oggi sostituto procuratore a Brescia), Mario Conte,
coinvolto nell' inchiesta da Salamone, ha chiesto conto alla magistratura
ordinaria e al Csm dei metodi di indagine del suo collega. Insomma, un pessimo
garbuglio che vale la pena raccontare dall' inizio. Quando, 1997, un
«cavallino» scosso si presenta alla Procura della Repubblica di Brescia.
Già, li chiamano così: «cavallini». Gente svelta, che nel mercato della
cocaina ha una funzione insostituibile nel piazzare una partita importante.
Quella di trovare i grossisti disposti ad acquistare la merce che arriva da
fuori e quindi i dettaglianti pronti a smerciarla. Il nome di quel «cavallino»
scosso che nel 1997 si decide a varcare l' ingresso della Procura non ha
importanza. Chiamiamolo B., e diciamo pure che in quel momento sa di non avere
nulla da perdere. E' terrorizzato perché capisce di essere finito in un
ingranaggio da cui uscire vivi è una scommessa. E' stato arrestato in
Germania, ha un futuro in galera. Decide di parlare. Con Salamone. Dovete
immaginarlo quell' interrogatorio. E il pacchetto di «Ms» del magistrato che
si svuota mentre il racconto del «cavallino» prende corpo e contorni. «Dottore
- spiega - i carabinieri del Ros mi hanno incaricato di comprare cocaina e
trovare clienti. Io l' ho fatto e loro mi seguivano. Fotografavano e
prendevano nota di chi incontravo. Poi, scattava l' operazione. Ma, ecco la
sorpresa, ad essere arrestati erano sempre i pesci piccoli, i cavallini. Mai
quelli grossi. Questa storia è andata avanti per un po' . E allora ho
cominciato ad avere paura...». Salamone ascolta, ne parla con il «capo»,
Tarquini, e quindi decide di non cestinare quel verbale. Anche perché le
indicazioni del suo interlocutore sono precise. E la «squadretta» antidroga
cui quelle informazioni conducono è ad un tiro di schioppo: Bergamo. E' un
nucleo del Ros, comandato dal maresciallo Gilberto Lovato, e composto da
quattro sottufficiali: Vincenzo Rinaldi, Michele Scalisi, Rodolfo Arpa,
Gianfranco Benigni. Lovato è un uomo brillante, capace. Su di lui, nell' Arma,
molti sono pronti a giurare. E ottimi sono i suoi rapporti alla Procura di
Bergamo, dove il sostituto Mario Conte, è il terminale delle operazioni
antidroga condotte dalla squadra. Il gruppo si muove molto. Le loro operazioni
sotto copertura vanno ben oltre la circoscrizione giudiziaria di Bergamo. Si
spingono in Emilia, a Genova, Livorno, in riviera adriatica, in Abruzzo. E
sempre con successo. Arresti e sequestro di importanti partite di cocaina.
Salamone decide di verificare quelle operazioni e distribuisce le prime
deleghe a Guardia di Finanza e Polizia. Comincia così una lunga serie di
interrogatori in carcere. Molti degli arrestati dal Ros sono ormai condannati
con sentenza passata in giudicato, degli assoluti «signor nessuno» finiti nel
dimenticatoio delle cronache, ma i loro racconti presentano curiosi elementi
in comune con le dichiarazioni di B., il primo «cavallino» ad aver parlato e
ad aver ottenuto (per poi perderlo e tornare in galera) il programma di
protezione per i pentiti. Molti sostengono di essere stati direttamente
ingaggiati dai carabinieri. Salvo ritrovarsi in manette e quindi condannati al
posto dei «grossisti». In almeno un caso - un sequestro di 150 chili di
cocaina - Salamone accerta la mancata verbalizzazione del contestuale
sequestro di un miliardo e 400 milioni di lire. Che fine ha fatto quel denaro?
In parte - sosterrà l' inchiesta - viene utilizzato per acquistare nuove
partite di cocaina. In parte, sparisce nel nulla. Gli interrogatori consegnano
ai verbali di Salamone una ventina di nomi di altrettanti trafficanti,
italiani e colombiani, che le operazioni del Ros avrebbero risparmiato. Molti,
verificherà Salamone, sono inseguiti da anni da mandati di cattura. In
particolare, il colombiano Otoja, che, arrestato in Italia, conosce una
vicenda processuale anomala che gli consente, presto, di ottenere gli arresti
domiciliari. Perché? Il registro degli indagati di Brescia è un fiorire
ininterrotto di ipotesi di reato. Traffico di stupefacenti, abuso,
associazione per delinquere, riciclaggio. Più l' indagine affonda e percorre a
ritroso l' attività del nucleo Ros di Bergamo (vengono verificate tutte le
operazioni a partire dal '91), più nulla, agli occhi di Salamone, sembra
salvarsi dal sospetto. Soprattutto quando - è il settembre del '97 - una
raffineria di cocaina scoperta a Rosciano (Pescara) si rivela essere uno
stabilimento sotto copertura del Ros e i quattro campesinos colombiani che vi
vengono sorpresi, dei poveri disgraziati che dal Ros sono stati «assunti» e a
cui il Ros ha messo a disposizione la materia prima da raffinare oltre agli
alloggi a Roseto degli Abruzzi. Salamone insomma - e siamo ormai nel '98 - si
convince che l' attività del Nucleo di Bergamo sia andata ben oltre quello che
la legge consente in materia di operazioni sotto copertura. Che un conto è
inserirsi in un traffico di stupefacenti, ritardando sequestri e arresti.
Altro è importare la cocaina acquistandola in Colombia, ingaggiando e dunque
istigando al reato intermediari e consumatori. Altro insomma è agire sotto
copertura, altro è «provocare». Tra le informative che arrivano sul tavolo del
magistrato di Brescia, quelle su «carichi controllati» via mare approdati a
Genova, Livorno, Napoli. E agli aeroporti di Milano e Bergamo. Quanta di
quella droga - si domanda in quei mesi Salamone - era «controllata» dal Ros? E
quanta, al contrario, attraverso lo stesso canale, e «grazie allo stesso
canale», è potuta approdare sul mercato italiano? I nomi dell' intera squadra
antidroga del Ros di Bergamo finiscono nel registro degli indagati insieme a
quelli di trafficanti di stupefacenti. Salamone si consiglia con il
Procuratore capo Tarquini. Vorrebbe perquisire gli uffici della sezione
antidroga di Roma del Ros. Il ponte di comando, insomma. Anche perché è da lì
- ne è convinto - che l' intera attività del nucleo di Bergamo è stata
diretta. Ma viene scelta la linea della prudenza. Prima di iscrivere al
registro degli indagati il colonnello Ganzer e il suo vice (e quindi
successore al comando della sezione), Mauro Obinu, si decide di interrogare i
sottufficiali. Qualcuno di loro - pensano a Brescia - crollerà. Ma le cose
vanno diversamente. Salamone non lo sa, ma i sottufficiali del Ros che
interroga, nascosti sotto il bavero della divisa, hanno dei microfoni che
registrano integralmente i colloqui con il magistrato. Anche quel che non
viene messo a verbale. Anche dunque gli scoppi di ira di Salamone che nelle
pause di interrogatorio lo fanno imprecare nei confronti di Ganzer, un uomo
che di fronte ai suoi interlocutori non fa mistero di disprezzare e promette
di travolgere nell' inchiesta. All' inchiesta è rimasto poco da vivere. I
sottufficiali del Ros denunciano per abuso Salamone alla Procura di Venezia.
Nelle sue parole sostengono la prova di un' inchiesta minata dal pregiudizio,
da una antica inimicizia nei confronti del Ros. Ma all' inchiesta è rimasto
poco da vivere anche perché nelle sue maglie finisce il nome del magistrato
Mario Conte, pm di Bergamo, referente della squadra di Lovato. Per competenza,
dunque, gli atti raccolti in 60 faldoni partono alla volta di Milano.
Piercamillo Davigo è l' estate del '99 se ne libererà dichiarandosi a sua
volta incompetente a beneficio della Procura di Bologna. Ma nessuno avrà più
tempo e voglia di lavorarci su quegli atti. Fino al gennaio scorso, quando la
Cassazione decide che è a Milano che quelle carte devono tornare. Sulla
scrivania della dottoressa Daniela Borgonovo. Che dovrà ricominciare lì dove
tutto si è interrotto. I protagonisti, del resto, sono tutti rimasti al loro
posto: inquirenti e inquisiti. Ad uno solo di loro, il destino ha giocato un
tiro mancino: il sottufficiale del Ros Gianfranco Benigni oggi è in carcere.
Lo hanno arrestato a Forlì qualche tempo fa. L' accusa: droga. -
CARLO BONINI
2001
NOTIZIE O PROPAGANDA ?
Un mese appostati sull'Orinoco il carico era nascosto sott'acqua
Repubblica — 10 febbraio 2001 pagina 27 sezione: CRONACA
ROMA - «Adesso che è finita, mi viene quasi da ridere», sogghigna il segugio
dei Ros aspirando forte la prima sigaretta della giornata. «Ma lì, in mezzo
alla giugla, tra i moschitos, il caldo afoso, gli acquazzoni improvvisi e
violenti, mi sembrava di impazzire. E' stata dura, ma alla fine restare
appollaiati sulla sponda dell' Orinoco a qualcosa è servito». La conferenza
stampa è finita. Il procuratore Vigna si attarda a prendere un caffè con il
comandante dei Ros, generale Palazzo e con il suo vice, il colonnello Ganzer.
Fuori, lungo i viali alberati che circondano l' immesa caserma Ogaden, uno dei
due protagonisti della più spettacolare e imponente operazione antidroga dell'
ultimo ventennio si lascia andare ai ricordi. Le immagini degli appostamenti
decisivi si spostano in Venezuela. «Per un mese», ricorda il segugio, «eravamo
stati ad attendere in un albergo, il Best Western di Caracas.
Giorni e giorni di intercettazioni ad ascoltare un
dialogo assurdo e quasi folle tra due persone. Poi, un giorno, intercettiamo
una chiamata da un cellulare. E tra le tanti frasi dette, ce n' è una che ci
fa saltare sulla sedia. Parlano di uova. Uova che stanno finalmente
nello stesso paniere. E a dirlo sono due pedine importanti di questa storia:
Elias Lemos, un greco e Luis Antonio Navia, uno del cartello di Medellin. Dal
servizio speciale antidroga della nostra ambasciata arriva un' altra
segnalazione. Ci dicono che una nave, la Suerte, già conosciuta e segnalata,
sta per partire dall' Africa diretta in Venezuela. La stessa segnalazione,
frutto di un lavoro di intelligence tra tre diverse polizie, venezuelane,
americane e colombiane, indicano anche il punto in cui verrà effettuato il
carico: alle foci del fiume Orinoco». I due ufficiali del Ros fanno i bagagli
e si spostano nella giungla. I tre gruppi di intelligence sanno tutto. Tranne
forse la cosa principale: dove viene custodito il carico, in attesa dell'
arrivo del mercantile. Ci avevano detto solo che la coca veniva trasferita
dalla Colombia con dei camion. Ma ignoravamo la destinazione precisa dentro la
foresta amazzonica». I servizi colombiani si danno da fare e attraverso gli
informatori ottengono la soffiata decisiva: «Sulle sponde dell' Orinoco».
Notizia utile ma ancora troppo vaga. Dove cercare? «Partiamo», ricorda ancora
l' ufficiale del Ros, «e ci piazziamo in un punto che si presta ad un
trasbordo sul fiume. Arrivano altre informazioni. L' ultima, fornisce le
coordinate esatte». L' appostamento dura quasi un mese. Il 12 agosto la nave "Suerte"
lascia il porto di Palua, in Venezuela, e scende verso la foce dell' Orinoco.
Per 14 ore incrocia, lentissima, al largo. Poi scende verso Sud e attende.
«Noi», aggiunge il segugio, «cerchiamo di capire dove si trova il carico.
Siamo convinti che sia in mezzo al fiume. Qualcuno propone di calarci in acqua
e andare a scoprire. Ma nessuno se la sente. Una notte, scopriamo il
nascondiglio: avevano chiuso la coca dentro dei barili di plastica, avvolti
dentro delle reti e ancorati sul fondo». Il mattino dopo arrivano delle lance
con potenti motori fuoribordo, tirano su le reti, caricano e dirigono a tutta
la velocità verso l' Oceano. Duecento miglia in mezzo alla giungla. Alla foce,
attende la nave. Carica a sua volte la merce, la nasconde e prende il largo.
La "Suerte" viene seguita per due giorni. Poi il 17 agosto è bloccata in mezzo
all' Atlantico. Ci vorranno dieci ore di perquisizione e l' indicazione dell'
ufficiale di rotta prima di scoprire il nascondiglio. «Noi eravamo certi del
carico, ma non riuscivano a trovarla», spiega l' ufficiale dei Ros. Dieci
tonnellate di coca purissima stivata in una doppia paratia saldata
elettricamente. Invisibile a occhio nudo. Anche perché il carico ufficiale è
un prodotto ad alto rischio, il Bhi che potrebbe sprigionare idrogeno. I
documenti confermano e sono in regola. L' accesso era una piccola botola anche
questa saldata perfettamente. La nave è sequetrata, il carico scoperto. Ci
sono già una montagna di prove per far scattare il blitz. Una seconda nave è
bloccata vicino alle Canarie, la "Prestige". La voce raggiunge la Grecia e l'
Albania. Qui, da un paio di mesi, soggiornano i colombiani. Ma è tardi. Ci
sono i primi arresti. Qualcuno parla e delinea la struttura dell'
organizzazione. L' Albania era una garanzia. «Se il piano avesse funzionato»,
spiega l' ufficiale, «ogni anno sarebbero arrivate 40 tonnellate di cocaina. I
russi avevano già preso gli accordi. Sarebbero atterrati con i loro aerei
privati. Da lì, avrebbero poi coperto la distribuzione nell' est europeo». -
DANIELE MASTROGIACOMO
2001
PRIMA DELL’UTILIZZIMO
11 $$ETTEMBRE
Il day after dell'Arma Non siamo criminali
Repubblica — 11 marzo 2001 pagina 10 sezione:
CRONACA
ROMA - «Qualche sbavatura è possibile, vedremo, c' è un' inchiesta. Ma quello che
proprio non mi va giù è che si dica che il nostro è un metodo, addirittura un
sistema criminale. E' una falsificazione macroscopica
perché noi abbiamo sempre operato con l' ok della
magistratura». Un' altra pessima giornata per l' Arma
dei carabinieri e il suo reparto di eccellenza, quello dei migliori che vivono
sempre in missione. Il nuovo cazzotto sorprende il colonnello Giampaolo Ganzer, il comandante operativo del Ros,
in un sabato che doveva essere finalmente tranquillo dopo la bufera Provenzano. «I nostri agenti - dice - operano sotto
copertura e come provocatori con il pieno assenso delle leggi e dei codici».
Brutta storia questa dell' inchiesta di Milano, prima
di Brescia, che indaga circa quaranta uomini del Ros
col sospetto che abbiano messo in piedi un' associazione a delinquere per il
traffico di cocaina e il riciclaggio dei denari sequestrati ai trafficanti
nelle casse pulite del Raggruppamento. «La maggior parte dell'
attività dei nostri reparti antidroga - insiste Ganzer
- vive sulla base dell' acquisizione e della consegna controllata di
stupefacente così come dice la legge». Tradotto, un po' quelle cose che si
vedono nei film: agenti infiltrati che si travestono da pusher, da consumatori
di droghe e recitano un ruolo nell' associazione
criminale fino a quando non sono mature le prove per arrestare. Solo a quel
punto, che può arrivare dopo mesi e anche anni vissuti col pericolo di essere
scoperti da un momento all' altro, il finto criminale
cala la maschera e indossa di nuovo i panni dell' agente. C' è un' inchiesta che, secondo Ganzer,
ha fatto scuola e ha chiarito una volta per tutte ruoli e metodi. Era il 1995
quando la procura di Firenze, il Ros con l' ok del pm
Margherita Cassano, ora membro del Csm, e del
procuratore capo Piero Luigi Vigna, ora procuratore nazionale, infiltrarono per
quasi un anno nei cartelli colombiani un maresciallo del Ros
e V.F., un ex militante della destra, già coinvolto e
poi prosciolto dall' accusa di aver partecipato all' attentato a Saxa Rubra. L' operazione portò
al sequestro in Italia, all' aeroporto di Firenze, di
oltre mille chili di cocaina. Al processo - ventotto
le persone condannate fra cui colombiani, spagnoli e italiani, i vari snodi del
narcotraffico - nacquero però molti dubbi sui metodi di indagine del Ros. Due, soprattutto:
almeno 135 chili di cocaina erano stati spacciati; tre miliardi erano stati
inviati in Colombia dagli investigatori. «Il 18 gennaio 1999 - dice Ganzer sentenza alla mano - la Cassazione, confermando
quella condanna spiega in tre pagine cosa vuol dire e cosa implica lavorare
sotto copertura e provocare. L' agente può provocare e sollecitare l' acquisto dello stupefacente e tutta le attività
strumentali connesse all' acquisto, cioè quelle che precedono come la
sollecitazione a vendere, e quelle che seguono come la detenzione, il
trasporto, l' esportazione e l' importazione». «E' lecito tutto, provocare e
sollecitare, purché si inserisca in un' attività
criminosa in atto» aggiunge l' avvocato Guido Puliti difensore dei due
infiltrati all' epoca del processo Pilota. Dunque
anche costruire una raffineria come quella di Pescara, stabilimento sotto
copertura del Ros? «Guardi - aggiunge il colonnello -
che quella storia è stata ampiamente chiarita citando proprio la sentenza di
Cassazione della Pilota...». Tutto lecito, in una logica quasi machiavellica,
purché finalizzato all' arresto dei boss e al
sequestro di beni e droga. E però l' inchiesta di
Milano dice che il sistema Ros mette in manette i
pesci piccoli e lascia fuori quelli grossi. «Ma se, sempre nella Pilota,
abbiamo fatto arrestare e condannare in Colombia almeno dieci boss...» replica il colonnello. E i soldi che spariscono, così come i chili di cocaina? «Sui
soldi nulla so. Circa la cocaina posso dire che a
volte facciamo consegne controllate per proseguire e monitorare il traffico».
Attività al limite del lecito autorizzate dai
magistrati. La procura di Milano, infatti, indaga anche il pm
di Bergamo Mario Conte che ieri ha voluto solo dire: «La mia attività trova
conferme in sentenze della Cassazione». Così al limite e pericolose che forse
poi non puoi nemmeno controllare tutto, ogni lira e
ogni grammo di coca. «Quelle sotto copertura sono attività molto complesse e
rischiose - dice il procuratore Vigna - se ci sono state smagliature è giusto
trovare i responsabili. Tutti però dobbiamo riconoscenza al Ros
per l' attività che ha svolto e svolge contro la
criminalità organizzata sequestrando tonnellate di cocaina». - CLAUDIA
FUSANI
2000
CASO "PISTA
GERI", ALTRA MONTATURA DI STATO
attenzione
non stiamo parlando di piste di coca o di F1
E la Procura convoca i capi dell' intelligence
Repubblica — 30 maggio 2000 pagina 7 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - La Procura di Roma prosegue nell' inchiesta sulla fuga di notizie che
così tanto - lamentano gli inquirenti - ha danneggiato l' indagine sull'
omicidio D'Antona. Il procuratore Vecchione, che procede per l' ipotesi di
reato di rivelazione di segreto, smentisce in quanto "priva di fondamento" la
voce che ci possa essere un carabiniere indagato. E però trapela fra mezze
ammissioni che nell' ufficio al primo piano di piazzale Clodio sono già stati
sentiti, solo per ricostruire storicamente i fatti, alcuni nomi da novanta
dell' intelligence italiana. Ad esempio il responsabile dell' Ucigos, il
prefetto Ansoino Andreassi, che si è definito "il legale rappresentante
della parte lesa", in quanto il suo ufficio è titolare della pista Geri; il
numero due del Ros dei carabinieri, il colonnello Giampaolo Ganzer, che sull'
omicidio sta seguendo con i suoi uomini una pista diversa da quella della
polizia; il comandante del secondo reparto del comando generale dell'
Arma, il colonnello Leonardo Gallitelli, e il colonnello Vittorio Tomasone,
comandante provinciale del reparto operativo. è probabile che all' elenco
manchino altri nomi, altri ufficiali, sottufficiali e poliziotti, ma il
riserbo è totale. Se è top-secret il contenuto degli incontri in procura, è
possibile ipotizzare il tipo e la qualità delle domande. Perchè questi non
sono nomi qualunque: Andreassi, Ganzer e Gallitelli erano, ad esempio,
tutti presenti l' 11 maggio al Viminale alla riunione interforze convocata dal
ministro Bianco per fare il punto sull' allarme terrorismo, l' ultimo
aggiornamento prima della Festa della polizia e dell' anniversario della morte
del professor D'Antona. Tomasone, invece, potrebbe, per via del suo ruolo,
aver saputo spiegare i dettagli delle operazioni dei carabinieri per cui è
stato arrestato Aladin Hamidovic, lo zingaro teste-chiave dell' inchiesta
Geri. Che c' entra tutto questo con la fuga di notizie? Per dirla con le
parole del gip Otello Lupacchini in Commissione stragi, "questa è stata una
dolosa rivelazione di segreto da parte di un organo pubblico", e cioè "di
ambito politico, giudiziario o investigativo". Gli unici che sapevano erano
polizia, carabinieri, magistrati e politici. Qui si nasconde la talpa. è
probabile che uno dei punti che più hanno interessato la procura sia proprio
il capitolo zingaro su cui fra l' altro il Ros si è preoccupato di inviare in
questi giorni a piazzale Clodio una dettagliata relazione. Una storia poco
chiara in cui hanno molta importanza le date. Il 28 febbraio Aladin Hamidovic,
appena liberato dal centro immigrati di Ponte Galeria dove era stato
trattenuto perchè senza permesso di soggiorno, viene sentito per la prima
volta in quanto possessore della scheda telefonica brigatista. Tramite lui la
Digos arriva ad una ragazza e poi a Geri. Il 21 aprile, altra data importante,
il bambino-testimone individua e riconosce Geri. Il 29 aprile Hamidovic viene
arrestato per furto di auto dai carabinieri. Un arresto pieno di coincidenze:
Aladin, 26 anni, viene controllato la prima volta alle due del mattino, con
lui c' è la sua fidanzata Silvana Pilotti. Li portano alla stazione di Roma
Eur e poi in via Cavour. Aladin ha un permesso di soggiorno per motivi di
giustizia di cui si occupava la Digos. La polizia viene avvisata? Fatto è che
Hamidovic e amica vengono rilasciati per essere di nuovo fermati la sera del
29 intorno alle undici davanti al campo nomadi: fermo per furto di auto. Gli
atti dei carabinieri vengono firmati il giorno dopo, strano anche questo. L'
11 maggio, tre giorni prima della fuga di notizie, c' è il processo in
direttissima. Aladin è condannato a un anno e sei mesi. La fidanzata Silvana
dice in aula che è tutto falso, che la Uno bianca non era stata rubata, che
era tutta una macchinazione. Non le credono e la denunciano per falsa
testimonianza. "Strano arresto - dice l' avvocato dei due, Massimo Cittadino
-. Credo che Aladin sia rimasto vittima di uno scontro di poteri". Di certo è
una brutta fine per due testi-chiave dell' inchiesta D' Antona. E di certo per
tutto questo la polizia si è arrabbiata moltissimo. Senza contare poi le volte
in cui, dopo il 29 aprile, pattuglie antidroga hanno sostato sotto casa di
Geri per "semplici controlli". Ieri il membro laico del Polo nel Csm Mario
Serio ha chiesto l' apertura di un procedimento per verificare "eventuali
pressioni" sui magistrati titolari dell' inchiesta D' Antona. Una richiesta
che ha diviso l' organo di autogoverno dei magistrati. Contrari soprattutto i
membri laici dei Ds e Magistratura democratica. - di
CLAUDIA FUSANI
2000
grasso dell'
"antimafia" era contro il "giusto processo" anche nel 2002
Grasso: Più controlli
Repubblica — 18 maggio 2000 pagina 3 sezione: PALERMO
Più controlli pubblici nell'affidamento delle opere, sui subappalti e sui
tempi di realizzazione. Il procuratore Pietro Grasso durante la conferenza
stampa per l'ultima operazione antimafia (presenti il vicecomandante del Ros,
Giampaolo Ganzer e il comandante della sezione anticrimine di Palermo
Michele Sini) è tornato a ribadire che «se il meccanismo dei controlli
funzionasse a pieno regime con la piena applicazione delle leggi vigenti nel
settore degli appalti l'attività della magistratura si ridurrebbe». «Occorre
insistere - ha aggiunto - questo piuttosto che impegnarsi in ipotesi di
concorso esterno difficilmente dimostrabili, anche se gli appalti
costituiscono uno dei maggiori affari di Cosa nostra. Negli appalti pubblici
- conclude - ci sono compiacenze e omissioni che non aiutano affatto l'opera
repressiva».
1999
PARIS PARIS
a Ganzer non dispiace il bistrot
Br, missione in Francia a caccia degli irriducibili
Repubblica — 10 giugno 1999 pagina 19 sezione: POLITICA
INTERNA
ROMA - Obiettivo: Parigi. Le indagini sull' omicidio D' Antona - freddato
giovedì 20 maggio alle 8,13 - puntano diritte alla Francia. Alla ricerca degli
irriducibili delle Br-Pcc e dell' Udcc. Polizia e carabinieri marciano in
parallelo, coordinati dalla procura di Roma, cercando di individuare sia le
facce già note del terrorismo nostrano, sia quelle meno note, i cosiddetti
fiancheggiatori che, dieci anni fa, non furono protagonisti di fatti
clamorosi, non furono mai arrestati, ma soltanto segnalati, anche se già
militavano attivamente nelle Br. Per la Francia ieri è partito Marcello Fulvi,
il numero due dell' Ucigos, la struttura della polizia che si occupa del
terrorismo e che coordina tutte gli uffici della Digos in Italia. Una missione
supersegreta affidata al funzionario che per anni ha indagato sulle Brigate
rosse. Fulvi e Ansoino Andreassi, responsabile della polizia di prevenzione,
hanno esaminato a lungo il documento di rivendicazione dell' omicidio D'
Antona, concludendo che si tratta di un testo pensato e almeno in parte
scritto da una mano che, già ai tempi delle Br ortodosse, si è impegnata nella
stesura di altre risoluzioni strategiche. Impossibile, com' è ovvio, sapere se
l' improvvisa partenza di Fulvi sia legata a qualche eccezionale scoperta:
come, ad esempio, una segnalazione degli investigatori d' oltralpe che
potrebbero aver indicato qualche mossa falsa dei tanti terroristi che vivono
in Francia, in molti casi con un regolare permesso di soggiorno, dopo aver
scontato le pene inflitte dai tribunali locali. Di certo, la missione francese
conferma due cose. La prima: che gli epigoni delle Br-Pcc e dell' Udcc sono
attivamente ricercati e vengono considerati come i possibili ispiratori dell'
omicidio. Alla stregua degli irriducibili (al Corriere della Sera ieri è
giunta la missiva, con il timbro della censura, firmata da cinque brigatisti
di Novara che hanno rivendicato il delitto). La seconda: che l' Italia ha
deciso di tentare, per l' ennesima volta, la carta di riportare in Italia quei
brigatisti la cui estradizione è sempre stata negata dalla Francia. Al punto
che il governo e lo stesso ministero della Giustizia avevano dato questa
battaglia per persa. In proposito, il Guardasigilli Oliviero Diliberto, che
dopo l' omicidio ha ripreso in mano il lungo elenco di terroristi in attesa di
estradizione, ha dichiarato a Repubblica: "Quella era una pratica da
considerare chiusa. La Francia ha fatto i suoi processi. Li ha conclusi. Ha
emesso le condanne. E ci ha detto che non avrebbe rimandato nessuno in
Italia". Ma non è solo la polizia che si muove sulla pista francese. I
carabinieri del Ros stanno facendo lo stesso. Anche in questo caso le indagini
sono condotte da un militare - il colonnello Giampaolo Ganzer, vicecomandante
della struttura - che per anni ha lavorato sulle Bierre. Il Ros ha ripreso le
indagini che, il 5 settembre del 1989, portarono la sezione anticrimine di
Roma a bloccare a Parigi, in Faubourg St.Antoine 212, gli stessi brigatisti
ricercati oggi: Simonetta Giorgieri, Gino Giunti, Nicola Bortone, Carla
Vendetti. I carabinieri sono convinti che questi e altri fiancheggiatori meno
noti, che allora non furono arrestati, ma che hanno continuato a sognare il
partito armato, potrebbero avere a che fare con l' omicidio D' Antona. Basti
pensare alle dichiarazioni sulla necessità "della guerra antimperialista" e
della "lotta armata" che la Giorgieri, pisana e già militante nei primi anni
ottanta della colonna toscana delle Br, ha continuato ad inviare dal carcere
francese dove nel 1997 ha finito di scontare la pena per associazione
eversiva. Si trovano su Internet documenti del febbraio e del settembre 1990 e
del giugno 1994 dove compaiono le firme di Giorgieri, Vendetti, Bortone,
Giunti - ora tutti liberi - Maria Cappello, Fabio Ravalli, Marco Venturini ad
altri, ancora detenuti, fine pena mai. Lo stile e i contenuti di quei
documenti assomigliano in modo impressionante a quelli delle 28 pagine che
hanno rivendicato l' omicidio D' Antona. Tra i volti meno noti ma più
interessanti per gli investigatori c' è quello di Desdemona, studentessa
pisana, militante dichiarata degli Ncc, secondo gli investigatori già passata
nelle file delle Br-Pcc quando scelse la clandestinità nel gennaio 1995, il
giorno in cui la polizia a Roma arrestò il suo compagno, Luigi Fuccini, per
associazione eversiva. "Desdemona - ha dichiarato ieri la sorella - è una
libera cittadina senza pendenze penali. è scomparsa, è vero, come è vero che
ha fatto politica nell' area della sinistra. Forse ha deciso di cambiare vita,
chissà, è una sua libera scelta". Non sanno più nulla di lei. Da anni. -
di CLAUDIA FUSANI e LIANA MILELLA
1996
ANCHE SUL ROGO ALLA FENICE
FECERO NOTIZIA !
QUANDO LA FANTASIA TORTA UTILE
FANTASIA DI MERDA, COMUNQUE
un attentato contro Pavone e
Ganzer insieme ! una trovata carnevalesca, combinare una cosa del genere su due
persone che forse si sono viste 3 volte in tutta la vita !
E' IL BOSS CAPRIATI IL COLLEGAMENTO TRA IL
PETRUZZELLI E IL ROGO ALLA FENICE DI VENEZIA
Repubblica — 29 giugno 1996 pagina 16 sezione: CRONACA
VENEZIA - E' nei traffici tra la malavita pugliese e quella veneziana che si
cerca la verità sul rogo della Fenice. Un intreccio che ruota intorno alla
figura di Antonio Capriati, boss della città vecchia di Bari, attualmente
imputato in Puglia di incendio doloso al processo per il rogo del Petruzzelli,
e coinvolto, nel Veneto, nell' ambito dell' inchiesta contro la mafia del
Brenta. Secondo il pentito Salvatore Annacondia, che rivelò gli intrighi che
stavano dietro all' incendio del Petruzzelli, Capriati sarebbe stato in
collegamento stretto, per le sue attività, con il boss della mafia del Brenta,
Felice Maniero, e con la sua banda. "Se serviva qualche cortesia, qualche
favore, o una persona che dovesse arrivare sul posto, si sapeva che in tal
zona c' era Maniero Felice" ha dichiarato il pentito durante il primo maxi
processo alla mafia del Brenta. Secondo un altro pentito, Adriano Barbiero
(sentito anche lui per il rogo del Petruzzelli ed intimo amico di Capriati,
sostiene Annacondia), lo stesso Capriati, insieme ad una banda di baresi che
si occupava di traffici di droga in collegamento con il clan Fidanzati,
avrebbe organizzato nel Veneto un attentato, poi non portato a
termine, contro il procuratore antimafia di Venezia Francesco
Saverio Pavone e il colonnello dei carabinieri Giampaolo Ganzer.
Quanto basta per far drizzare le orecchie agli investigatori impegnati nella
ricerca di eventuali collegamenti tra la malavita del nord e del sud e gli
incendi della Fenice e del Petruzzelli. Antonio Capriati, "capo mandamento"
della criminalità organizzata pugliese, è uno dei principali tra i 21 imputati
per il rogo del teatro di Bari. Secondo le accuse di Salvatore Annacondia,
avrebbe organizzato l' incendio del Petruzzelli, poi eseguito materialmente da
due professionisti, per lucrare sui fondi della ricostruzione e togliere dai
guai il gestore del teatro Ferdinando Pinto (che però ha sempre negato), il
quale avrebbe accumulato parecchi debiti col cassiere del clan Capriati, Vito
Martiradonna, detto "Vitino Lenèl". Di legami e di cene tra Pinto e Capriati
ha parlato anche l' altro pentito, Adriano Barbiero, che compare anch' egli in
entrambe le inchieste, quella barese e quella veneziana. Ma Pinto ha negato
anche questo. Secondo l' accusa, Capriati avrebbe organizzato l' incendio del
Petruzzelli insieme a Savino Parisi detto "Savinuccio", boss del quartiere
Japiggia di Bari, con cui era da tempo in affari. I magistrati pugliesi
accusano i due di una lunga serie di crimini e di essersi, di fatto, spartita
la città. I magistrati pugliesi e quelli veneti ora intendono accertare se la
mano del clan Capriati, accusata di aver incendiato il Petruzzelli, si è
allungata anche sul rogo della Fenice, in collegamento con gli eredi della
banda di Maniero. La criminalità organizzata veneta non è infatti scomparsa
dopo il pentimento del boss, mette in guardia il procuratore capo di Venezia
Vitaliano Fortunati. "Lavora in silenzio, in maniera sotterranea - dice - non
bisogna illudersi. Ogni spazio lasciato libero viene presto riempito". -
dal nostro corrispondente ROBERTO BIANCHIN
1995
APOLOGIA DI
REATO
E IL CARABINIERE BEFFO' I NARCOS
Repubblica — 20 settembre 1995 pagina 19 sezione:
CRONACA
FIRENZE - Per quasi un anno "Bruno" è stato un uomo dei narcos. Per loro ha
trasportato su un aereo Falcon dalla Colombia alla Toscana più di mille chili
di cocaina. Ha preso in consegna la droga all' aeroporto di Medellin. Ha visto
con i suoi occhi i poliziotti colombiani che caricavano la cocaina sull'
aereo. L' ha portata oltre oceano facendo scalo in Portogallo e in Olanda e
atterrando a Peretola, il piccolo aeroporto di Firenze. Ha rischiato di
scomparire nell' uragano Lucy. Ha tenuto i contatti con gli acquirenti
italiani, mafiosi e uomini della banda della Magliana. Ha scoperto una rete
incredibile di collusioni. E alla fine ha beffato i potenti cartelli
colombiani. "Bruno" è un giovane sottufficiale del Ros, il Raggruppamento
operativo speciale dei Carabinieri, ed è il protagonista della più audace
operazione sotto copertura mai organizzata in Italia. "La migliore, la più
prolungata, la più pericolosa, la più proficua", l' ha definita il procuratore
di Firenze Pier Luigi Vigna che ieri, raggiante come non mai, con i sostituti
Silvia Della Monica e Margherita Cassano e con gli uomini del Ros ha incassato
gli elogi del presidente della Repubblica. Scalfaro ha telefonato
personalmente per complimentarsi. Il bilancio dell' operazione "Pilota",
seppur ancora provvisorio, è di tutto rispetto. Sequestrati mille chili di
cocaina, del valore di 40 miliardi all' ingrosso, 200 al dettaglio. Arrestate
diciannove persone per associazione a delinquere e traffico internazionale di
stupefacenti. Filmati decine di narcos e di collusi. Intercettate, grazie ad
un altro sottufficiale infiltrato sotto copertura nell' organizzazione, decine
di operazioni bancarie, mobiliari e immobiliari eseguite dai trafficanti
colombiani e dai loro clienti italiani. Il tutto senza confidenti e senza
pentiti. Sintetizza Vigna con il suo solito linguaggio colorito: "Qui non si è
trattato della solita confidenza del genere ' Sta arrivando un bastimento
carico di... Per quanto mi risulta, mai fino ad oggi un nostro uomo era andato
con un aereo in Colombia a organizzare questa beffa alle organizzazioni
criminali". Perciò "Bruno" e i suoi compagni che dopo di lui si sono
infiltrati fra i narcos rischiano la vita e le loro vere identità sono un
segreto impenetrabile. "Faremo il possibile - giura Vigna - per tenerne
coperto il volto anche al processo". Poi tocca al generale Mario Nunzella,
comandante del Ros, ai suoi vice, colonnelli Mario Mori e Giampaolo Ganzer, e
al generale Vittorio Galliano, direttore del servizio operazioni della
Direzione centrale antidroga, descrivere i momenti drammatici dell'
operazione, i rischi corsi da "Bruno", dagli altri agenti infiltrati e dagli
altri uomini del Ros che hanno pedinato i trafficanti e protetto come angeli
custodi i compagni infiltrati. L' operazione è partita alla fine del ' 94,
quando i Ros hanno saputo che i narcotrafficanti colombiani stavano studiando
la possibilità di abbandonare il tradizionale trasporto della cocaina via mare
per passare all' aereo, mille volte più rapido e - si supponeva - meno
rischioso. E' stato allora che "Bruno", un giovane sottufficiale appassionato
di volo cui era stata costruita una nuova identità, è riuscito a prendere
contatto con alcuni colombiani che vivevano in Italia e ad offrirsi come
pilota. I cartelli di Cali, Medellin, Barranquilla, Pereira avevano progetti
grandiosi. Consorziati fra loro, si dicevano pronti all' invio di "quantità
illimitate" di cocaina, fino a tremila chili per volta. In marzo hanno messo
alla prova "Bruno", affidandogli un campione di 200 chili da consegnare ai
clienti italiani. Per assicurarsi che non facesse il furbo, i narcos hanno
trattenuto "in garanzia" uno dei suoi soci - in realtà un altro agente sotto
copertura. Sono stati giorni drammatici, Carabinieri e magistrati hanno
vissuto lunghi momenti di angoscia. Poi tutto è filato liscio, la cocaina è
giunta a destinazione, il "socio" è stato gentilmente accomiatato. Ma durante
quel primo viaggio "Bruno" ha capito su quali e quante collusioni potessero
contare i narcos. Era all' aeroporto internazionale di Medellin, sul Falcon,
quando ha visto avvicinarsi due camionette della Guardia Civil, la polizia
locale: dalle camionette sono scesi un bel po' di agenti che hanno caricato
sull' aereo la cocaina dei narcos. Per questo la polizia colombiana, a
differenza di quelle portoghesa, olandese e spagnola, non è stata informata
dell' operazione. Il pericolo era troppo forte. Ma ora i magistrati italiani
sono certi che le autorità colombiane saranno liete di collaborare nell'
inchiesta. Quando i duecento chili "di prova" arrivarono in Italia, in marzo,
magistrati e carabinieri furono ben attenti ad arrestare un paio di
trafficanti lontano da Firenze, in modo che nessuno potesse sospettare di
"Bruno". L' operazione proseguì, e il 14 settembre "Bruno" è atterrato una
seconda volta a Peretola con 845 chili di cocaina. A questo punto è iniziata
l' operazione di smantellamento della rete in Italia. I trafficanti sono
finiti uno dopo l' altro in galera. Fra gli arrestati c' è un boliviano che si
fa chiamare Eduardo Arambide: è il responsabile di tutti i pagamenti, il
cassiere, il primo anello del riciclaggio. E c' è un palermitano, Paolo
Carista, che sarebbe un uomo della famiglia di Porta Nuova, quella di Pippo
Calò, da oltre un decennio legata a Roma con la Banda della Magliana. E poi ci
sono napoletani e calabresi. Spiegano gli investigatori: "Come i cartelli
colombiani si consorziano per rifornire di droga i mercati europei, così in
Italia i gruppi criminali si consorziano per ricevere la sostanza, sempre e
comunque sotto l' egida di Cosa Nostra". Smantellata la rete del narcotraffico,
si apre ora la fase forse più interessante dell' inchiesta: quella sul
riciclaggio. Fra gli investimenti individuati grazie al lavoro dell' agente
infiltrato nel circuito finanziario dei trafficanti ve ne sono alcuni - pare
di grande rilievo - in Italia. - di FRANCA SELVATICI
1991
indagine a
verona per narcotraffico: ganzer é indagato un anno dopo il "blitz"
PALERMO - PADOVA, COLPO AL NARCOTRAFFICO
Repubblica — 13 dicembre 1990 pagina 23 sezione: CRONACA
VENEZIA Nel Veneto l' eroina arrivava dalla Sicilia nascosta dentro le
salsicce e gli insaccati spediti al nord da una ditta palermitana, mentre la
cocaina, giunta in Spagna dal Sudamerica, veniva poi scaricata a Palermo
assieme alle cassette del pesce importate da alcune società ittiche. Nella
notte tra lunedì e martedì i carabinieri della sezione anticrimine di Padova
hanno compiuto un blitz arrestando una trentina di persone a Palermo, Milano,
Vicenza, Padova e Venezia per associazione per delinquere finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti, un traffico gestito dalle famiglie vincenti
dei Savoca e Spadaro da Palermo e da quella dei Fidanzati da Milano. A firmare
i 34 mandati di cattura è stato il giudice istruttore veneziano Francesco
Saverio Pavone: il magistrato che, secondo un piano organizzato dalla mafia
nell' agosto dell' anno scorso, piano poi fallito a causa delle confessioni di
un pentito, doveva saltare in aria con un' Alfetta 1800 camuffata da gazzella
dei carabinieri assieme a Francesco Di Maggio, il giudice milanese già
collaboratore dell' alto commissario Domenico Sica, e al colonnello dell' Arma
Giampaolo Ganzer, ora comandante del gruppo di Verona. Dei 34, cinque sono
riusciti a sfuggire alla cattura, mentre tre sono stati raggiunti dal
provvedimento in carcere, dove erano rinchiusi per altri reati, uno è
deceduto, un altro è rinchiuso in una galera del Sudamerica ed infine gli
altri 24 sono stati arrestati all' alba dell' 11 dicembre mentre dormivano nei
loro letti. In carcere sono finiti il commerciante palermitano di carni Luigi
Mortillaro di 32 anni, e il titolare di alcune società ittiche, Antonio
Manzella, 40 anni di Palermo. Quindi Antonino Duca, 50 anni, residente a
Padova dopo essere stato in soggiorno obbligato in un paesino della provincia
veneta; cognato dei fratelli Fidanzati, il suo nome è stato fatto più volte
dopo l' omicidio di Natale Mondo, il collaboratore del commissario Nini
Cassarà. Mondo fu assassinato dalla mafia perché era riuscito ad infiltrarsi
proprio nella cosca di Duca. Ma il vero pezzo da novanta della lista è Gaetano
Fidanzati, 54 anni, il boss dell' Arenella trasferitosi alla fine degli anni
Settanta a Milano per avviare un' attività di onesto antiquario, almeno
apparentemente, ma dove in realtà avrebbe diretto il traffico di cocaina in
tutto il nord Italia (si racconta che aveva posto una taglia di 200 milioni in
cocaina sulla testa del pentito Totuccio Contorno). Da alcuni mesi Fidanzati
si trova in un carcere argentino. Anche il fratello Carlo è entrato in questa
inchiesta perché accusato di aver gestito tra l' 82 e l' 86 il traffico di
eroina nel Veneto, ma due anni fa è morto. Sono stati arrestati altri
siciliani: Rosario Lonardo, 50 anni, anche lui residente nel Padovano dove era
arrivato in soggiorno obbligato, Giuseppe Tarantino, 57 anni, legato al
commerciante Manzella, Paolo Russo, 32enne di Enna da tempo trapiantato a
Milano e legato alla cosca dei Madonia. Ma anche tra i veneti ci sono
personaggi di spicco, un nome sembra contare in particolare, quello del
chioggiotto Armando Boscolo meneguolo, 41 anni, finito in manette un mese fa
perché accusato dallo stesso magistrato veneziano di associazione per
delinquere di stampo mafioso per il ruolo avuto nel riciclaggio dei miliardi
di una decina di sequestri di persona messi a segno nel Veneto e in Lombardia.
Secondo i carabinieri della sezione anticrimine padovana, Boscolo sarebbe
stato il tramite tra le bande dei sequestratori e le cosche palermitane, colui
che garantiva con il denaro dei riscatti i finanziamenti da investire nel
traffico della droga. L' organizzazione inizialmente, grazie alle coperture
fornite dai due commercianti di insaccati e di pesce, gestiva un traffico di
quattro-cinque chilogrammi ogni settimana di sostanze stupefacenti, eroina in
particolare. In seguito il volume degli affari sarebbe aumentato e negli
ultimi anni la merce trasportata si è aggiunta la cocaina avrebbe toccato i
venti chilogrammi alla settimana. Il giudice istruttore Pavone, alle spalle
del quale hanno lavorato le procure della Repubblica di Venezia e Padova, ha
coordinato le indagini svolte dai carabinieri, accertamenti che avrebbero
trovato un prezioso supporto informativo da parte dell' alto commissario:
alcuni pentiti con le loro dichiarazioni fornite a Domenico Sica e ai suoi
collaboratori, infatti, avrebbero confermato e completato il lavoro di
investigazione compiuto dai militari dell' Arma. - di
GIORGIO CECCHETTI
1991
2 OTTOBRE
1991 CORTE D'ASSISE DI VENEZIA DEMOLISCE LE MONTATURE DEL OTTOBRE 1983-MAGGIO
1986, A PROCESSO E SUBITO ASSOLTE (NON CI SONO I TERMINI PER PROCEDERE
PROCESSUALMENTE) DALL'ACCUSA DI COSTITUIRE IL "BRACCIO POLITICO DELLE BR-PCC",
19 PERSONE ARRESTATE E SCARCERATE MEDIAMENTE DOPO 1 ANNO, 1 IMPUTATO MORTO
SUBITO DOPO LA SCARCERAZIONE (DARIO RIGOLON), CIRCA 500 MILIONI DI LIRE DI
RIPARAZIONI DANNI GIUDIZIARI, MA GANZER NON E' IN AULA PER LA SUA PRODEZZA
CONTINUATA ED AGGRAVATA, COSTRUITA CON GABRIELE FERRARI, OGGI CONSIGLIERE CSM, E
MICHELE DALLA COSTA, OGGI PG DI TRIESTE, ALL'EPOCA PM A VENEZIA
1989
LA
COPERTURA DEL GIORNALISTA DI CRONACA GIUDIZIARIA VENEZIANO PIU’
NOTO DEGLI ‘80
“UCCIDETE IL MAGISTRATO VENEZIANO”
Repubblica — 03 agosto 1989 pagina 2 sezione:
STATO E LA PIOVRA
VENEZIA La gelosia di una giovane donna padovana abbandonata
dal convivente, già inquisito dalla magistratura palermitana per associazione a delinquere assieme ad altri 44 mafiosi, ha fatto venire
alla luce il progetto di uccidere un magistrato veneziano, l' ex giudice
istruttore Francesco Saverio Pavone, che da anni indaga sulla criminalità
organizzata nel Veneto, e di un ufficiale dei carabinieri, il tenente
colonnello Giampaolo Ganzer, responsabile del nucleo
anticrimine della legione di Padova. Secondo un rapporto inviato alla procura
della Repubblica padovana, a capo dell' organizzazione
che stava ideando l' attentato, sarebbero alcuni uomini di punta della mafia.
All' azione avrebbero dovuto partecipare anche due terroristi mediorientali,
interessati ad uno scambio droga-armi. Alla magistratura padovana era già
arrivato un lungo esposto anonimo in cui venivano
rivelati particolari interessanti su un traffico internazionale si sostanze
stupefacenti e su un attentato in preparazione contro un magistrato. Il 21
luglio scorso i sostituti procuratori Antonio Cappelleri
e Carmelo Ruberti interrogano Mara Mazzucco, 31 anni, arrestata dai carabinieri assieme all' ex convivente Adriano Barbiero,
40 anni, titolare di un ristorante nella cintura urbana di Padova, e ad altre
due persone per la detenzione di trenta grammi di cocaina. Gli inquirenti
sospettano che sia lei l' autrice di quell' esposto e la mettono sotto torchio. Dopo alcune ore
i due magistrati interrogano Barbiero e gli
contestano di aver partecipato alla preparazione del progetto per uccidere il
giudice veneziano, lui nega. Gli parlano di uno strano viaggio a Francoforte,
che Barbiero spiega sostenendo di essere andato in
Germania per trovare alcuni amici. Non ci sono prove certe, ma i sospetti sono
pesanti. Gli inquirenti padovani riescono poi a ricostruire tutti i
particolari. A spingere una famiglia mafiosa, particolarmente radicata nel
Veneto, anche grazie agli elementi in soggiorno obbligato, ma, soprattutto,
attraverso la malavita della riviera del Brenta, ad organizzare l' attentato, il primo al di fuori della Sicilia, sarebbero
stati gli ostacoli posti dal giudice Pavone con le sue inchieste e il traffico
internazionale di droga. Gli attentatori avrebbero dovuto utilizzare un' Alfetta 1800 mascherata da
gazzella dei carabinieri. All' azione avrebbe dovuto partecipare anche due
palestinesi. Non è la prima volta che nelle indagini dei carabinieri padovani
sul traffico di eroina compaiano elementi legati al
terrorismo mediorientale, utilizzati come corrieri e interessati a riportare in
patria armi. Ma proprio sei mesi fa è terminato un processo nell'
ambito del quale sono emerse ampie zone d' ombra sull' attività
investigative degli inquirenti. Sul banco degli imputati c' erano quattro
siriani, di cui due furono condannati a sei e nove anni di reclusione per aver
portato in Italia un chilo di eroina, e un presunto
ufficiale dell' Olp, il giordano Hussein
Kasin Hakam Badar. Quest' ultimo venne assolto con
formula piena dall' accusa e durante il processo sostenne di aver agito come
agente provocatore al servizio dei carabinieri. Al giudice Pavone, che da
alcuni mesi ha chiesto ed ottenuto il trasferimento alla pretura di Mestre,
intanto è stata aumentata la scorta. Il magistrato non sembra particolarmente
scosso dalla notizia. Non sono un eroe spiega ma con le indagini che ho
condotto e che sto terminando, pur essendo stato trasferito, potevo
aspettarmelo. Il magistrato proprio in questi giorni sta concludendo
l' inchiesta sulla malavita della riviera del Brenta: gli imputati sono un
centinaio e le accuse vanno dall' omicidio (ne sono stati compiuti 17 in pochi
anni e tutti fino ad ora insoluti) al traffico di droga, dalla rapine (quelle
miliardarie messe a segno al casinò e nei grandi alberghi di Venezia) al
riciclaggio di denaro sporco attraverso la gestione delle case da gioco
jugoslave. Inoltre Pavone ha condotto le indagini su tredici sequestri di
persona, di cui tre terminati con l' omicidio dei
rapiti. - di GIORGIO CECCHETTI
1988
ARRESTA FRANCESCO MOISIO ED
ALTRI COMPAGNI, CON UNA SCANDALOSA MONTATURA, A MARGHERA
1987
ARRESTA NUMEROSI GIOVANI E
COMPAGNI, ACCUSATI DI APPARTENERE AD UNA INSESISTENTE COLONNA VENETA DELLA UdCC.
TUTTI PROSCIOLTI AL TERMINE DELL'ISTRUTTORIA, CONDOTTA CON DALLA COSTA MICHELE,
CHE SI SCAVALLA POI IL CASINO GIRANDOLO A IONTA A ROMA, MENO 2, ASSOLITI AL
PROCESSO. I 14 ARRESTI COSTARONO CIRCA UN ANNO DI PEDINAMENTI E INTERCETTAZIONI,
CIRCA 90 RAPPORTI DI P.G.
1985
VEDASI LA PAGINA
http://www.paolodorigo.it/Antireatiassociativi.htm