CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA

Prima sezione penale

Udienza 19.6.2008 rinviata al 7.10.2008

 

 

Proc. N. 63/06 R.G.APP. riunito con il N. 3887/07 R.G.APP. 

 

 

Memoria difensiva nell'interesse del sig. Dorigo Paolo, nel procedimento di cui al n. 63/06, a cui è riunito il procedimento n. 3887/07, R.G. APP., in seguito ad istanza di revisione di sentenza di condanna ex art. 629 e segg. c.p.p..

 

La Corte d'Appello di Bologna, investita dell'istanza di revisione proposta in data 11.01.2006, con ordinanza del 15.03.2006, sollevava, in relazione agli artt. 3, 10 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lettera a), c.p.p., “nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l'impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l'assenza di equità del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo”.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 129 del 16.04.2008, depositata il 30.04.2008, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale.

La Corte motivava l'infondatezza della censura di illegittimità sollevata in relazione all'art. 3 Cost. (per violazione, secondo il giudice a quo, del principio di ragionevolezza, essendo in presenza di “un'ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili”), in quanto “il contrasto, che legittima – e giustifica razionalmente – l’istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale”, avendo la “la sua ragione d’essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato “accadimento della vita” – essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda – può aver ricevuto all’esito di due giudizi penali irrevocabili”. Secondo la Corte, “il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” (ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storiconaturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze”.

La Corte costituzionale riteneva, ugualmente, infondata la censura formulata dal giudice a quo in relazione all'art. 10 Cost., per il motivo che, tra le norme di diritto internazionale consuetudinario, vi è la presunzione di innocenza, che comporterebbe anche il diritto alla revisione del processo ove questo si sia svolto con lesione del diritto ad un equo processo e si sia concluso con condanna. Secondo la Corte, “il principio di presunzione di non colpevolezza non si pone in contrasto con l'esigenza di salvaguardare il valore del giudicato”, in quanto la “presunzione di non colpevolezza accompagna lo status del “processando” ed impedisce sfavorevoli “anticipazioni” del giudizio di responsabilità”, ma “si dissolve necessariamente (sul piano sintattico, ancor prima che giuridico) allorchè il processo è giunto al proprio epilogo”.

Infine, il prospettato contrasto con l'art. 27, comma 3, Cost., contrasto rilevato dal giudice a quo,  sulla base dell'assunto che la pena potrebbe rieducare solo se inflitta all’esito di un processo giusto, è stato ritenuto infondato dalla Corte, in quanto, “se si assegnasse alle regole del ‘giusto processo’ una funzione strumentale alla ‘rieducazione’, si assisterebbe ad una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe – questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza”. Inoltre, secondo la Corte, i valori costituzionali del giusto processo e della giusta pena sono “termini di un binomio non confondibili fra loro; se non a prezzo, come si è già accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello ‘strumento’ (il processo) nel ‘fine’ cui esso tende (la sentenza irrevocabile e la pena che da essa può conseguire)”.

Nel motivare il rigetto della questione di legittimità, la Corte costituzionale svolgeva anche una serie di considerazioni su “l'improrogabile necessità di predisporre adeguate misure – atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di “processo equo”, accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo”. Già nel punto 3 del considerato in diritto la Corte rilevava, infatti, che “la questione di legittimità costituzionale nasce dalla assenza – nel sistema processuale penale – di un apposito rimedio, destinato ad attuare l’obbligo dello Stato di conformarsi (anche attraverso una eventuale rinnovazione del processo) alle conferenti sentenze definitive della Corte di Strasburgo, nell’ipotesi in cui sia stata accertata la violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli”.

Il riconoscimento di una tale lacuna nell'ordinamento giuridico italiano, tuttavia, con costituiva, ad avviso della Corte, un motivo ostativo al rigetto della questione di legittimità costituzionale sollevata.

Secondo la Corte, infatti, una sentenza additiva in riferimento alla disciplina della revisione prevista dagli art. 629 e segg. c.p.p. non sarebbe lo strumento adeguato a livello sistemico, considerata la complessità della materia e la molteplicità di soluzioni suscettibili di prospettarsi (a questo proposito, la Corte fa riferimento al disegno di legge n. 1797, presentato dal Governo nella XV Legislatura e recante “Disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, che optava, a tal fine, per un istituto distinto da quello di cui agli art. 629 e segg. c.p.p.).

Infine, la Corte (dopo un passaggio relativo alla necessità di dichiarare infondata la questione di legittimità “con specifico riferimento ai parametri di costituzionalità che sono stati richiamati”, il che sembrerebbe evocare la possibilità di un differente esito in relazione ad altri parametri di costituzionalità) concludeva indirizzando “al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all'ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall'art. 6 della CEDU”.

Tutto ciò premesso, questa difesa ritiene che la sentenza della Corte Costituzionale, di cui sopra, pur essendosi concretata in un rigetto dei rilievi di incostituzionalità sollevati dalla Corte d'Appello,  non precluda, allo stato attuale, l'accoglimento dell'istanza di revisione presentata dal ricorrente.

Ciò in quanto intervenivano, in questa vicenda, elementi nuovi, successivi alla proposizione dell'istanza di revisione, che impongono, oggi, una nuova considerazione dei fatti da parte della Corte d'Appello.

Infatti, la Corte di Cassazione sviluppava, negli ultimi due anni (ovvero dopo la proposizione della questione di legittimità costituzionale), una giurisprudenza innovativa in merito ai rapporti tra l'ordinamento nazionale e il sistema convenzionale della CEDU, nel senso del riconoscimento dell'efficacia diretta delle norme della Convenzione e della giurisprudenza di Strasburgo nel diritto interno (sentenze n. 32678/2006 (Somogyi) e n. 2800/2007 (Dorigo)).

In particolare, i giudici di legittimità, con la sentenza n. 2800/2007, erano chiamati a decidere sul ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine, avverso l'ordinanza pronunciata, in data 05.12.2005 dalla Corte di Assise di Udine, nel procedimento di esecuzione nei confronti del Dorigo.

Con tale ordinanza, la Corte di Assise, in funzione di giudice dell'esecuzione, rigettava la richiesta proposta dal Procuratore della Repubblica, al fine di far verificare la perdurante efficacia del titolo esecutivo a carico del condannato e, di conseguenza, la legittimità della sua detenzione.

Nella sentenza n. 2800/2007, i giudici di legittimità utilizzavano un procedimento argomentativo che sembra rievocare la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE sull’inerzia colpevole del legislatore statale, in ambito di direttive non attuate.

In un primo momento, la Corte di Cassazione richiamava, per sottolineare la propria adesione alla tesi espressa, quanto sostenuto dal Procuratore Generale nella sua requisitoria, ovvero che, nel caso Dorigo, a seguito della dichiarazione della violazione dell'art. 6 della Convenzione “il titolo di condanna in effetti non è ancora divenuto definitivo, stante la necessità della rinnovazione del giudizio”.

In seguito, la Corte si pronunciava in merito all'argomento contenuto nell'ordinanza impugnata, secondo il quale l'impossibilità di dichiarare ineseguibile la sentenza di condanna sarebbe derivata anche dalla mancanza di un mezzo processuale che rendesse realizzabile la rinnovazione del giudizio. A tale proposito, la Corte riscontrava che «la prolungata inerzia dell’Italia corrisponde alla trasgressione dell’obbligo previsto dall’art. 46 della Convenzione di conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea, e, quindi, costituisce una condotta dello Stato italiano qualificabile come “flagrante diniego di giustizia”… Ne segue che la tesi accolta dal giudice dell’esecuzione si risolve, in buona sostanza, nell’ammettere che la persistenza della detenzione del Dorigo possa trarre titolo dal conclamato inadempimento degli obblighi sanciti dalla Convenzione, vincolanti anche nell’ordinamento interno, e che l’esecuzione della pena possa cessare soltanto se e quando verrà meno l’illecito diniego di giustizia. È evidente, tuttavia, che i principi di legalità, di coerenza e di razionalità, dai quali è permeato l'intero ordinamento, rendono assolutamente inaccettabile una siffatta proposizione, che ha finito per capovolgere diametralmente l'esatta prospettiva interpretativa col disconoscere la precettività delle norme della Convenzione e la forza vincolante della decisione della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».

Conseguentemente, la Corte dichiarava l'inefficacia dell'ordine di carcerazione emesso in esecuzione della sentenza della Corte di Assise di Udine e disponeva l'immediata liberazione del Dorigo.

Occorre rilevare come la Corte Costituzionale non menzioni in alcun modo, nella sentenza citata, il percorso seguito dalla Corte di Cassazione.

L'ipotesi in merito più congrua, al fine di escludere l'esistenza di un conclamato, benchè non esplicito, conflitto giurisprudenziale tra la Consulta e la Suprema Corte, è che ciò sia dovuto al fatto che le due giurisdizioni si siano occupate di differenti profili relativi alla stessa vicenda giuridica, uno afferente alla posizione individuale dell'odierno istante, e l'altro agli interessi pubblicistici di coerenza e razionalità dell'ordinamento giuridico nazionale.

Di conseguenza, ad avviso di questa difesa, la sentenza n. 129/2008 della Corte Costituzionale non deve essere considerata impeditiva del riconoscimento del diritto del Dorigo alla rinnovazione del processo.

In definitiva, altrimenti, non si potrebbe che constatare l'esistenza di un mostro giuridico, qual'è una sentenza senza efficacia di giudicato, dichiarata ineseguibile con sentenza irrevocabile, ma al tempo stesso produttiva ancora di effetti negativi nei confronti dell'interessato. Sì, perchè non ammettere la possibilità di revisione, per il caso in oggetto, significherebbe anche non riconoscere al Dorigo il diritto ad ottenere una riparazione per l'ingiusta detenzione patita, quando tale ingiustizia è dichiarata in una sentenza definitiva della massima autorità giudiziaria nazionale. Allo stato, infatti, non risulta azionabile né il meccanismo previsto dagli artt. 314-315 c.p.p., che contempla il diritto ad un'equa riparazione per la custodia cautelare subita e che non abbia trovato conferma in una sentenza di condanna, né quello previsto dall'art. 643 c.p.p. in caso di errore giudiziario, che presuppone, appunto, un giudizio di revisione.

Uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ovverosia il principio di completezza dell'ordinamento giuridico, implica che la posizione del Dorigo non possa rimanere priva di tutela, a causa del colpevole ritardo del Legislatore nel predisporre un'organica disciplina della materia.

Negare il diritto del Dorigo alla revisione del processo avrebbe, poi, delle ripercussioni di indubbia gravità anche sulla responsabilità internazionale dello stato italiano.

Occorre ricordare, infatti, che, in seguito alla sentenza 2800/2007 della Cassazione, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa decideva, con la risoluzione finale ResDH(2007)83, di porre fine al controllo sull'esecuzione del caso Dorigo. Il Comitato dei Ministri è l'organo che, nel sistema convenzionale della CEDU ha il compito, ex art. 46 comma 2 CEDU, di verificare la corretta esecuzione degli obblighi derivanti agli stati membri della Convenzione dall'articolo 46 comma 1 (“Le Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parte”).

Dopo otto anni, nel corso dei quali il Comitato dei Ministri ha ciclicamente denunciato (risoluzioni interinali ResDH(2002)30, ResDH(2004)13, ResDH(2005)85) l'inadempienza dello Stato italiano nel caso Dorigo, il caso veniva chiuso, anche “considerando che spetta alle autorità italiane competenti trarre le necessarie conseguenze dalla sentenza della Corte di Cassazione e dalle esigenze della Convenzione, sia sul piano generale, sia nel presente caso, compresa l'eliminazione degli effetti negativi risultanti dall'iscrizione della condanna del ricorrente nel casellario giudiziale ed ogni riparazione che costui potrebbe pretendere”. Mentre nell'Annesso alla Risoluzione ResDH(2007)83, “Informazioni sulle misure volte all'esecuzione delle decisioni del Comitato dei Ministri nel caso Dorigo contro Italia”, le stesse autorità italiane affermavano che “considerata la decisione della Corte di Cassazione, diversi nuovi mezzi di ricorso si aprono oggi al ricorrente, al fine di ottenere una riparazione per la sua detenzione illegale e la cancellazione della condanna dal suo casellario giudiziale”.

L'accertamento dell'impossibilità, per il Dorigo, di ottenere la riparazione a cui ha diritto, oltre al fatto che non sembra esistere, a differenza di quanto affermato dalle autorità italiane nella sede internazionale, una procedura per ottenere la cancellazione della sua condanna dal casellario giudiziale, comporterebbe la riapertura del caso davanti al Comitato dei Ministri, con la conseguente possibilità, per lo stato italiano, di incorrere nelle sanzioni previste dal sistema convenzionale nel caso di mancato adempimento alle sentenze della CorteEDU.

Per tutti i motivi fin qui richiamati, questa difesa insiste nell'istanza di revisione promossa davanti a questa Ecc.ma Corte d'Appello, ritenendo che la previsione letterale contenuta nell'art. 630, comma 1, lettera a), sia integrata compiutamente dai fatti di cui è causa, senza la necessità di ricorrere a procedimenti di interpretazione analogica o adeguatrice.

La sentenza n. 2800/2007 della Cassazione, infatti, costituisce quella “sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario”, richiesta dalla disposizione in esame, che stabilisce fatti che non possono conciliarsi con quelli posti a fondamento della sentenza penale di condanna a carico del Dorigo.  

In via subordinata, questa difesa richiede che questa Ecc.ma Corte, nel caso in cui ritenesse di non dover ammettere la revisione di cui all'istanza proposta, emetta una pronuncia di improcedibilità della domanda, per la ragione che la sentenza di condanna del Dorigo non è idonea, in quanto difetta della qualità di valido giudicato penale, a fondare un giudizio di revisione, ai sensi degli artt. 629 e segg. c.p.p..

Si allega la seguente documentazione:

-         copia della sentenza Corte Costituzionale n.129/2008;

-         copia della sentenza Corte di Cassazaione n. 2800/2007;

-         copia della traduzione italiana della Risoluzione ResDH(2007)83, rinvenibile sul sito internet della Corte di Cassazione all'indirizzo www.cortedicassazione.it/documenti/dorigo.pdf.

 

Bologna, 18.06.2008

Avv. Marina Prosperi