A cura di SLAI COBAS – sindacato di classe – provinciale
VENEZIA, ed.12-12-2006
GLI ATTI PUBBLICI SONO DELLE MASSE NON PRIVATI !
Petrolchimico: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di
Venezia
Gli imputati (OMISSIS) Peraltro bel noti al proletariato
FATTO E DIRITTO
Con sentenza
in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli imputati venivano assolti, nei
termini in epigrafe riportati, in ordine ai reati ascritti in rubrica.
Circa il primo capo
d’imputazione, ricordava il predetto giudice in premessa della sentenza che,
così come già esposto dal P.M. nella sua esposizione introduttiva illustrata
all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini avevano preso avvio a seguito di un
esposto presentato da Gabriele Bortolozzo componente del comitato di redazione
della rivista Medicina Democratica, che segnalava la produzione presso il
petrolchimico di Porto Marghera di una sostanza chimica denominata CVM
riconosciuta cancerogena dalla organizzazione mondiale della sanità (OMS) e
dalla Comunità Economica Europea che aveva provocato la morte per tumore di 120
lavoratori, addetti alla lavorazione nella filiera del cloro, che indicava
nominativamente. Un altro esposto era stato trasmesso all'autorità giudiziaria
dallo stesso Bortolozzo in data 6/5/1985
in cui già allora denunciava il pericolo
derivante dalla esposizione al
cloruro di polivinile, ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine
e di cui era stata disposta la archiviazione.
Dai primi elementi
raccolti e da una consulenza orientativa affidata al professor Carnevale risultava
che 37
dei 120 lavoratori segnalati dal Bortolozzo erano affetti da patologie
correlate alla esposizione al CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività
di indagine con acquisizione della documentazione scientifica in materia ed
espletamento di specifici accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che
sulla base degli esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici
effettuati nelle industrie di
lavorazione di tali sostanze, sarebbe
risultato che i primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e
che la cancerogenità era stata
segnalata per la prima volta dal
dottore Gian Luigi Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di
Rosignano, nel 1969.e confermata dagli studi
sperimentali che la Montedison
affidò al professor Cesare Maltoni, noto oncologo, i cui primi risultati furono comunicati ai committenti
nel 1972 e alla comunità scientifica nel l974, quando oramai era stata data
notizia della morte di lavoratori addetti alla produzione di CVM dipendenti della società statunitense
Goodrich per angiosarcoma epatico, identico tumore individuato dal professor
Maltoni nei suoi esperimenti sui ratti.
Sia in America che in Italia si rivalutarono alloro le patologie tumorali di
taluni lavoratori nel frattempo deceduti che vennero riclassificati come
angiosarcomi epatici, rara forma tumorale che venne associata alla esposizione
al c v m.
Tale esposizione venne
altresì correlata dalla agenzia per il cancro (IARC) nelle monografie
pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al fegato, ai polmoni, all'encefalo,
e al sistema emolinfopoietico, individuando evidenze anche per i tumori della laringe in particolare per i
lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano, insieme agli autoclavisti, i
più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze, secondo il P.M., e
nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino al 1977, che ebbero come risultato l'indagine dell‘Istituto di
Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una drastica riduzione della
concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la Montedison non operò
quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere tale obiettivo, anche
approfittando della crisi economica che indusse il sindacato alla moderazione
sui temi della nocività e della salute
a fronte del ricatto occupazionale .
Né le successive vicende societarie, che
porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison nella gestione degli
impianti di produzione del c v m, determinarono sostanziali mutamenti . Si
sosteneva in particolare che i risultati degli accertamenti disposti sui
sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di lavoro, attuati dall’azienda
mediante la installazione dei gascromatografi monoterminali, avevano
evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità, poiché era risultato
possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché l'abbattimento dei
valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali apparecchiature era
da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato dagli interventi
effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e inadeguati.
E così, nel
primo capo di imputazione vengono contestati i reati di lesioni e di omicidio
colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele e di
dispositivi diretti a prevenire il verificarsi
di eventi lesivi o di danno dei singoli lavoratori esposti alla produzione del CVM - PVC (art.
437 co2 c p) nonché il reato di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p)
per la gravità, l'estensione e la diffusività del pericolo per la pubblica
incolumità e, in particolare, per la vita e l'integrità fisica della
collettività operaia del petrolchimico. Veniva altresì contestato il delitto di
strage colposa che secondo l’accusa doveva ritenersi punito dall'articolo 449
in riferimento all'articolo 422 codice penale. Si attribuiva in particolare
rilevanza unitaria a condotte protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al
2000), mediante la contestazione della cooperazione colposa tra gli imputati
che avevano ricoperto posizioni di garanzia e altresì mediante la contestazione
della continuazione.
L’ ipotesi
accusatoria sceglieva quindi un modello unitario di qualificazione della
fattispecie concorsuale nella forma colposa ex art.113 cp, ponendosi quindi
l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli imputati vi era piena e
reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i precetti volti a prevenire
gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti penalmente rilevanti delle
proprie condotte si ricollegavano a quelli causati dalle condotte di chi precedentemente
aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel comune perseguimento di un medesimo
disegno criminoso che portava alla con contestazione della continuazione
(interna ed esterna) tra tutti i reati, assumendosi che “il disastro è unico e
riguarda sia il primo che il secondo capo di accusa in quanto l’attività di
industria ha esplicato i suoi effetti dannosi sia all’interno che all’esterno
della fabbrica”, e con addebito agli imputati della previsione dell’evento ex
art. 61 n°3 cp.
A fronte di tale
generale quadro di accusa, le difese degli imputati, sempre come ricordato dal
Tribunale, ponevano in rilievo che successivamente alla pubblicazione delle
monografie di IARC del 1978 e del 1987 era stata pubblicata nel 1991 da
Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta Agenzia, uno studio
multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici differivano dalle
precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e concludevano
affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul polmone, sul
cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata. Precisavano
ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della sanità che la
commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio del c v m è
il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale sostanza è l'
angiosarcoma epatico.
Anche per i
tumori al polmone associati ad esposizione al PVC, cui in particolare erano
interessati gli insaccatori, i risultati degli studi e cui si era riferito il
pubblico ministero non sarebbero stati confermati da studi successivi. Si
contestava comunque che gli studi epidemiologici cui aveva fatto riferimento
prevalentemente il pubblico ministero fossero sufficienti all'accertamento del
nesso di causalità che necessitava di una legge di copertura scientifica
universale o di elevata significatività statistica.
Si sosteneva
infine che, allorquando ebbe a manifestarsi la cancerogenità e tossicità del
CVM, tra la fine del 1973 e gli inizi
del 1974, gli impianti ebbero a subire urgenti e rilevanti modifiche. Si concludeva affermando che
proprio i risultati di tali interventi determinarono sin dal 1974 una drastica
riduzione delle concentrazioni: dai 500 ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere
nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia : dapprima fissato in 50
ppm e successivamente stabilito in 3 ppm
con DPR n° 962 del 1982 .
Concentrazioni
che risultavano documentate dai bollettini di analisi e dai tabulati dei
gascromatografi installati in quell'anno (1975) la cui affidabilità era
confermata anche dai dati rilevati nei
mesi precedenti mediante i misuratori personali che indicavano un trend in
progressiva diminuzione. La configurazione della imputazione ha poi indotto le
difese a individuarne le caratteristiche in una sorta di “massificazione delle
condotte”, espresse in termini impersonali e cronologicamente indifferenziati,
che “si compattano attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e
sovrapposizione in guisa tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti
ascrivibili a questo o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa
riferibile all’ente societario in quanto tale”.
Questi,
puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti nel corso della lunga istruttoria
dibattimentale, durante la quale, relativamente al 1° capo di imputazione, sono
stati sentiti numerosi consulenti introdotti dalle parti processuali, esperti
non solo in epidemiologia e in medicina legale, ma altresì in biologia, in
genetica molecolare, in tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria
impiantistica; inoltre sono stati escussi numerosi testi in particolare sulle
condizioni ambientali dei luoghi di lavoro, sulle modificazioni impiantistiche intervenute e sui risultati ottenuti.
Il Tribunale,
nell’affrontare le problematiche poste dal primo capo di imputazione, ha
ritenuto di trattare separatamente, pur a fronte di condotte casualmente
orientate, il problema del nesso di condizionamento tra le condotte e gli
eventi contestati e gli addebiti di colpa rimproverati, occupandosi
preliminarmente dell'accertamento del nesso causale tra esposizione a CVM-PVC e
l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli organi o apparati che sono stati
individuati come " il bersaglio "
di tali sostanze.
Si è soffermato
quindi sulle caratteristiche chimiche e tossiche e cancerogene del CVM-PVC,
ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza probatoria e valutati gli studi e
conoscenze scientifiche che negli anni si erano sviluppate, all'inizio della
produzione industriale del PVC, mediante
la polimerizzazione del monomero, la principale preoccupazione che si nutriva era legata alla idoneità
della sostanza gassosa di causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni
di circa 30.000 ppm; per contro era
considerato scarsamente tossico tanto che fu impiegato come gas anestetico ed utilizzato come
propellente per spray fino ai primi anni '70, e che in tale contesto di
conoscenze furono condotti i primi studi sulla tossicità del cvm che ebbero attenzione
agli effetti conseguenti ad esposizioni a dosi molto elevate. Analiticamente
quindi si soffermava su quelle che erano le conoscenze scientifiche degli anni
‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi
gli studi in Europa -Mastromatteo e
altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi
sugli gli studi di VIOLA e MALTONI.
Pier Luigi Viola
era un medico di fabbrica della Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a
Tokyo, nell'ambito di un congresso di medici del lavoro, i dati relativi ad una
sperimentazione sugli animali in cui aveva individuato lesioni polmonari,
emorragia addominale, lesioni al cervello, fegato ingrossato, lesioni
osteolitiche e alterazioni degenerative del tessuto connettivo; lesioni di
uguale genere vennero osservate in
ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un successivo studio realizzato con
il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di Roma. Tali studi di Viola sugli
animali erano stati provocati dalla osservazione sui lavoratori addetti alla
pulizia delle autoclavi di casi di osteolisi e di alterazioni vascolari alle
estremità, tipiche del fenomeno di Raynaud, dato emergente dal rapporto Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che
già a metà degli anni sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze
nelle fabbriche americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal
contatto con la sostanza.
A parte tali
patologie, riteneva però il Trtibunale che detti studi ancora non acclarassero
scientificamente la cancerogenità per l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo
a seguito degli studi del prof. Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo
l’allarme lanciato da Viola, ed a seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974,
presso la Goodrich Company di tre casi di angiosarcomi in operai addetti alla
produzione del cvm, e, nei mesi successivi, di altri casi presso altre
industrie americane.
La valutazione
degli studi e diffusione delle conoscenze scientifiche in quegli anni
(1970-1974), e delle testimonianze sul punto, porta il Tribunale a ritenere:
1) che determinanti per la conoscenza della
cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola
reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate
esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e
nei polmoni e non già angiosarcomi);
2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano
provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di
acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era
stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia
senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla
scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò
l'approfondimento affidato a Maltoni;
3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono
tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a
controllare i protocolli sperimentali;
4) che i risultati, ancorché parziali, furono
comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al
convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni
pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo
tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza e si ridussero alla fine in una moratoria di
15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati
alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i
primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;
5) che già si poneva al centro dell'attenzione la
individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano
adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un
processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia
biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia
socialmente accettabile).
Tali elementi,
secondo il Tribunale, smentivano altresì la tesi del P.M. del patto di
segretezza tra le industrie del settore in ordine alla diffusione della notizia
della cancerogenità del cvm, patto che non avrebbe in realtà avuto la finalità
di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco
controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati
per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi
in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non
concordate.
E comunque la
clausola di riservatezza sarebbe
rimasta di fatto inosservata come risulterebbe inequivocabilmente dagli
avvenimenti, oltre che dalle documentate e riscontrate dichiarazioni di
Maltoni, posto che lo stesso diffuse pubblicamente i risultati delle sue
ricerche nel convegno di Bologna tenutosi nell'aprile del 1973 di cui furono
partecipi la comunità scientifica e le pubbliche istituzioni.
Osserva dunque il
Tribunale come dal 1974 ha inizio un’ampia revisione delle diagnosi per decessi di lavoratori dell’industria di
polimerizzazione con tumore al fegato e vengono accertati casi di angiosarcoma
che per la sua rarità era anche di difficile identificazione. A tal punto
resterebbe acclarato che: il cvm è oncogeno per l’uomo, onde gli interventi
delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC che classificano appunto il CVM come
sostanza cancerogena per l'uomo e la inseriscono in categoria 1) e la
fissazione di limiti di esposizione lavorativa richiamati in sentenza.
In particolare,
ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro
erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference
Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un
valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data
12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31
ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm
come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una
giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore
viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se
la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è
in corso di individuazione .
Solo con il
contratto collettivo del 23 luglio 1979
il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm . Tale valore è
definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata
lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i
lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza
effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974-
su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una
raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di
riferimento tendenziale. E solo con la
direttiva CEE n° 610/78 recepita con
DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.
Passa quindi in
rassegna il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali in materia e la
loro valutazione scientifica in primo della IARC cui hanno fatto principalmente
riferimento i consulenti del P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi
epidemiologici che mettevano in discussione le comclusioni di IARC 1987.Si
ricorda come IARC avesse effettuato tre diverse valutazioni della cancerogenità
del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel 1987 e tale sostanza è stata oggetto anche
di rapporti interni nel 1975 e nel 1989
e le conclusioni di ques’ultimo anticipano i risultati dello studio
epidemiologico multicentrico europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al
quale, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto
l'aggiornamento curato da Ward nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott .
Boffetta che ne è coautore.
La monografia
del 1974 prende in esame, ai fini della valutazione del rischio cancerogeno nell'uomo, i risultati delle
sperimentazioni di Maltoni e di Viola
cui si è già fatto riferimento. Riferisce che la prima associazione tra
esposizione al c v m e lo sviluppo del
cancro è stata avanzata da Creech e
Jonnshon nel 1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in
operai che lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei lavoratori dellaGoodrich).
Riferisce
inoltre che dall'esame dei registri medici e da una analisi del
materiale patologico erano stati scoperti altri dieci angiosarcomi in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e
il tempo intercorso tra la prima esposizione e la diagnosi del tumore andava
dai 12 ai 29 anni e la durata complessiva dell'attività aveva comportato una
esposizione di 18 anni (Heath e altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso
stabilimento erano stati accertati 48 casi di malattie del fegato non
maligni in esposti mediamente da oltre
vent'anni e che dalla biopsia era stata riscontrata una fibrosi portale e
noduli della fibrosi subcapsulare.
Altri studi avevano accertato, tra la metà e la fine
degli anni ‘60 l'insorgere di
acrosteolisi generalmente localizzata nelle falangi distali delle mani
negli addetti alla pulizia delle autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali
mansioni, i più esposti alle alte concentrazioni, in uno stabilimento per la
produzione di PVC in Germania, sottoposti a test di funzionalità epatica e a
esame istologico dei frammenti di biopsia epatica, è stata rilevata
splenomegalia , epatomegalia e fibrosi
portale ovvero fibrosi della capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che
erano quelli conosciuti alla data del 26 giugno1974 - la valutazione
dell'agenzia era la seguente: “considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma
del fegato nella popolazione comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti
al c v m prova che c'è una relazione causale".
In conclusione
la prima valutazione sulla base dei pochi dati sperimentali e della scarsa
casistica di osservazione sull'uomo indicava una relazione causale tra l'esposizione
al c v m e l’angiosarcoma epatico e la presenza di fibrosi portale e subcapsulare ; infine individuava l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori
addetti alla pulizia delle autoclavi.
La successiva
monografia pubblicata nel febbraio del 1979, sulla base di ulteriori ricerche
sperimentali e, in particolare, di studi epidemiologici, così concludeva per
quanto riguarda i risultati sperimentali in topi, ratti e criceti: " il
cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in tutte e tre le specie e produceva
tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma del fegato...... È stata dimostrata
la relazione dose –risposta”. Per quanto concerne l'uomo si affermava che
" i vari studi tra loro indipendenti, ma i cui risultati si confermavano
a vicenda, hanno dimostrato che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un
aumento del rischio cancerogeno negli umani riguardante il fegato, il cervello,
i polmoni e il sistema emolinfopoietico".
Si concludeva
pertanto per la cancerogenità del c v m per l'uomo indicando quali organi
preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico. Per
quanto riguarda l'effetto dose-risposta si affermava che "nonostante dai gruppi di lavoratori esposti ad alte
dosi di c v m si sia avuta la prova della cancerogenità del c v m per l'uomo,
tuttavia non si ha la prova del fatto che esiste un livello di esposizione al
di sotto del quale non si verifichi un incremento del rischio di cancro
nell'uomo". Si affermava infine che gli studi esistenti sul p v c non erano
sufficienti a stabilire la cancerogenità di tale composto.
Con la
valutazione del 1987 si afferma che in un gran numero di studi gli
epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale esistente tra il cloruro di
vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi inoltre confermano che
l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di cancro e cioè il
carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone e tumori del
sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno studio
(Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata all'aumento della incidenza del tumore al
polmone e gli autori hanno pensato che
il responsabile fosse il c v m intrappolato.
Peraltro
l'agenzia continua a classificare il PVC nel gruppo 3 per la inadeguata
evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli animali da esperimento.
Osserva peraltro
il Tribunale come tali conclusioni di IARC 1987, alle quali i consulenti
medico-legali della accusa si sarebbero principalmente riferiti ai fini di
ritenere le patologie discusse correlabili o meno con l'esposizione a c v m o PVC, siano state poste in
discussione dagli studi epidemiologici
successivi. In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da
IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti
americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati
rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).
Nell’analizzare
tali studi il tribunale ricorda come nel primo si fosse concluso che non
sussiste alcuna associazione tra esposizione a cvm e i tre organi bersaglio
diversi dal fegato (polmone, cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro
del fegato l’analisi basata sulle variabili temporali ha rivelato eccessi
statisticamente rilevanti nel periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964
mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli
ultimi anni ‘60 e nei primi anni '70 anche se viene precisato che il tempo di
osservazione è troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori
assunti recentemente.
La mortalità da
cancro del fegato, secondo il tipo di lavoro, distingue i lavoratori addetti
all'autoclave fra i " sempre " e gli " altri " e dimostra che
l'aumento del rischio è concentrato fra coloro che hanno lavorato all'autoclave
in ogni momento (" sempre").
Ma si evidenziava altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima
esposizione (15 anni di latenza) un aumento del rischio statisticamente
significativo compare anche per quelli classificati come " altri ".
Onde l’'analisi dei decessi da cancro del fegato basata sulla esposizione
cumulativa rivela un rischio crescente con l'aumento dell'esposizione e con una
consistente relazione esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro
al fegato la latenza varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la
durata media dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).
In proposito
riteneva il Tribunale importante rilevare che l'anno di assunzione e'
soprattutto ricompreso nell'ambito degli anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2
negli anni 40); e che veniva rilevata una tendenza verso una diminuzione del
rischio per quelli assunti negli ultimi anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si
precisi che il tempo di assunzione era ancora troppo corto per poter valutare
il rischio per i lavoratori assunti recentemente. Inoltre sono molto chiare le
relazioni esposizione - risposta fra l'esposizione cumulativa al c v m e
rischio di cancro del fegato e
angiosarcomi. Distinguendo, invece, l' angiosarcoma dalle altre
neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era pressoché sovrapponibile
all'atteso.
Questa
osservazione assume, secondo il Tribunale, particolare rilievo nella
controversa discussione in ordine alla associazione cvm-epatocarcinoma, e si
ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma che i risultati dello
studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e l'esposizione al c v
m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati e 8.4 attesi (RSM
2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il livello delle
esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di regressione che
indicano che il rischio di cancro del fegato dipende significativamente dall'esposizione
cumulativa e dagli anni trascorsi dalla prima esposizione.
Si
osserva poi come l'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (di Ward -
Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni 90 l'accertamento dello stato in
vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende incluse nello studio:
l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia dall'anno 1993 all'anno
1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa (RSM 0,99), leggermente
inferiore a quella dello studio precedente.
Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli operai assunti dopo il 1973
e non si era verificato alcun decesso per cancro del fegato prima che fossero
trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.
Inoltre,
neppure nel predetto aggiornamento della corte europea si è rilevata alcuna associazione tra
esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone, sottolineandosi
tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei soggetti che avevano soltanto
ricoperto mansioni relative all'insacco si nota un trend significativo per il
cancro del polmone con l 'aumentare dell'esposizione cumulativa al cvm. Si
aggiunge che lo studio non ha rilevato prove di un aumento di mortalità dovuta
a tutte le malattie del sistema respiratorio (pneumoconiosi, bronchite,
enfisema, asma) e neppure alcuna
indicazione di un aumento di mortalità per malattie respiratorie più
specificamente tra i lavoratori addetti all' insacco o al miscelamento ancorché
si precisi che tali risultati non contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e
altri) poiché è possibile che gli effetti respiratori dell'esposizione e al c v
m o alla polvere di PVC non conducano alla morte.
Così, ancora
nell’aggiornamento Ward, neppure si presenta un eccesso statisticamente
significativo di cancro al cervello, ed altrettanto si conclude per i tumori
del sistema emolinfopoietico.
Si analizzano
poi gli studi della coorte USA, in particolare Wong -1991; Mundt -2000).
L'aggiornamento di Mundt, più informativo, individua l'esistenza di una
associazione tra esposizione a cvm e aumentata insorgenza di tumori del fegato;
indica la insussistenza di una associazione tra esposizione a c v m e
insorgenza di tumori del polmone.
Nel commentare i
risultati dello studio, gli autori affermano che le cause di morte per tumore
già segnalate non sono risultate in eccesso e tra di esse il tumore del polmone
e i tumori emolinfopoietici e altresì le malattie respiratorie quale enfisema e
pneumoconiosi. Viene inoltre precisato che l'associazione tra esposizione a
cloruro di vinile e tumore del polmone non ha trovato alcuna evidenza e pertanto
non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al cervello si afferma che la associazione è incerta perché
le elevate età al primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i
lavoratori potrebbero avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni
prima dell'esposizione al cvm.
Si afferma in
conclusione che lo studio ha confermato una forte associazione tra durata
dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran
parte dovuta ad un grande eccesso di
angiosarcomi.
Richiama
poi il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali che hanno affrontato
il problema della eventuale associazione tra esposizione a PVC e insorgenza di
tumori, in particolare all'apparato respiratorio e al polmone, nei lavoratori
che abbiano svolto sempre o prevalentemente la mansione di insaccattori, studi
che in conclusione ritiene indichino che il
p v c ha una scarsa o assente attività biologica e la sua presenza
fisica nei polmoni produce pneumoconiosi benigne.
Partendo
dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di PVC possa dar luogo a una aumentata
insorgenza di tumori del polmone, avanzata da Waxweiler (1981) che suggeriva
l'idea che l'eccesso osservato fosse da attribuire non tanto alla polvere di
PVC bensì al c v m intrappolato nella polvere, il tribunale richiama i
successivi non confermativi studi di Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso
solo apparente, di Jones ( 1987) che indica un chiaro difetto per la mansione di
insaccattore, di Wu (1989), che esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro
impianti di polimerizzazione in attività da almeno 15 anni in uno stabilimento
di sintesi di sostanze chimiche con un totale di 3635 rispetto ai 1294
lavoratori precedentemente considerati con almeno cinque anni di esposizione e
dieci anni di latenza in aree e mansioni con esposizione a c v m nel periodo
1942-1973, e che non accerta nessun eccesso escludendo ogni relazione tra
esposizione a polveri di PVC e tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini
in cui viene invece evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori,
peraltro con un andamento per latenza decrescente contrario, secondo il
Tribunale, ad una spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata
neppure dalle sperimentazioni.
Si
ricorda poi che in particolare sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati
condotti tre studi: una analisi di
mortalità degli insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità
degli insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in
appalto e infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza
sulla morbilità (Chellini), peraltro
subito ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori
critiche: da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità
delle sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle
cooperative) e dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due
categorie di insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per
di più l'età media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle
cooperative e lo svolgimento di attività plurime con possibili differenti
esposizioni.
E
comunque i rapporti di mortalità, presenterebbero un andamento di relazione
inversa tra la durata della latenza e l'insorgenza del tumore che, come detto
nei precedenti studi già commentati, depone per l'insussistenza di una
associazione. Lo studio di prevalenza della dottoressa Chellini ha incontrato
critiche ancor più radicali inquantoche' non era stata effettuata alcuna
validazione sulla qualità dei dati anamnestici
raccolti, posto che le patologie
riportate nelle schede fanno riferimento a malattie diagnosticate nell'arco
della vita, e pertanto non sono correlate alla attività svolta in qualità di
insaccatori, venendo così a mancare la garanzia dell'antecedenza tra
esposizione e malattia.
In questi studi comunque, si afferma
che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso angiosarcoma o
epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente quella attesa
particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa osservazione si trae
la conseguenza che sia di natura causale anche la relazione fra esposizione a cvm
e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche plausibile sul piano biologico e
sostenuta da una considerazione di tipo analogico inquantoche' i due altri
agenti conosciuti che inducono
angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast) causano anche essi carcinomi
epatici (Popper 1978 ).
Per
quanto riguarda la mortalità per tumore polmonare si è osservato un incremento
significativo fra gli insaccattori in considerazione dell'intensità
dell'esposizione a c v m , in particolare fra il 1950 e il 1970 (non meno di 50 ppm) e tenuto conto
che nell'attività dell'insacco del PVC si era in presenza di elevati livelli di
polverosità (in proposito si citano gli autori di studi che hanno descritto
casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti a polveri di PVC e tra questi
lo studio di Mastrangelo).
Per
quanto riguarda gli altri tumori che
secondo IARC 1987 sarebbero ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva
che nella corte Montedison Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due
casi di tumore dell'encefalo (SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si
riconosce peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi
epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche
esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema
emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai
diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.
Si afferma
conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di tumore devono
essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle osservazioni e
delle conoscenze disponibili sulla eziologia.
I
suddetti dati sarebbero poi sostanzialmente confermati dalla memoria depositata
dai consulenti epidemiologici del pubblico ministero contenente un
aggiornamento della mortalità al 31 luglio 1999, peraltro non sottoposto al
contraddittorio dibattimentale e comunque esaminata e utilizzata dal Tribunale
come un approfondimento, proveniente dalla pubblica accusa, degli studi
precedenti. In particolare, sulla base dell' incremento nel numero di decessi
per tumore epatico primitivo accertato nella coorte di Porto Marghera alla data
del luglio 1999 si ribadisce con questo ulteriore elemento la sussistenza di un
eccesso di tumori epatici diversi dall' angiosarcoma, sia con riguardo ai
lavoratori della coorte nel suo complesso che in maniera ancora più evidente
tra coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti che notoriamente sono
stati esposti alle concentrazioni più elevate. E così sarebbe stato rilevato un
eccesso di tumori polmonari nell'ambito della coorte, con specifico riferimento
alla mansione di insaccattore esposto alle polveri di PVC.
Circa i fattori
di confondimento, sia rispetto ai tumori epatici che a quelli polmonari, i
consulenti del pubblico ministero, facendo ricorso ad un raffronto tra i
lavoratori della coorte e i lavoratori di altri settori (municipalizzata di
igiene urbana e amministrazione provinciale di Venezia) per quanto riguarda la
propensione a bere alcolici e individuando nei primi stime più basse dei
consumi alcolici, affermano che
l'assunzione di alcol non poteva spiegare l'incremento di mortalità
rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma sia nella coorte complessiva
e sia, a maggior ragione, nella categoria degli autoclavisti.
Per quanto
riguarda il fumo si è fatto invece riferimento alla percentuale di fumatori
nella popolazione italiana (tra il 53 e 75%)
che si stimava mediamente uguale a quella presente tra gli insaccattori
e si concludeva che gli incrementi di mortalità in tali categorie per tumore
del polmone non era spiegabile con l'abitudine al fumo.
Sempre con
specifico riferimento ai lavoratori della corte di Porto Marghera, il professor
Diego Martines, consulente del pubblico ministero, ha presentato uno studio
caso- controllo sui lavoratori affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma,
cirrosi epatica, e epatopatia cronica.
Sulla scorta dei
dati rilevati e riportati in tabella si evidenzia che per tutte le malattie
considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a
quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con
esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di
angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima
esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967
e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il
tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da
angiosarcoma era di 18 anni.
Per quanto
riguarda gli epatocarcinomi nella tabella numero 4 il consulente rileva 13 casi
nella categoria ad alta esposizione 1 caso nella categoria a media esposizione
e 2 per casi nella categoria a bassa esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi
delle categorie bassa e media esposizione la riferibilità all'esposizione
professionale dell'epatocarcinoma e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I
13 casi di epatocarcinomi ad alta esposizione presentano un tempo di latenza
medio dalla prima esposizione pari a 31 anni (range 22 - 42) e la prima
esposizione in tutti questi pazienti si è verificata in un arco ristretto di
tempo compreso tra i 1952 e il 1961.
Due pertanto le
conclusioni da trarre: tutti i casi di
angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto Marghera riguardano
soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di calendario è tra gli anni
'50 e '60.
Nelle successive
precisazioni a seguito dell’osservazione
dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette
conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva
il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma
anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea
generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la
diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per
l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la
responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C nel determinare la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma andava
valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione
al c v m.
Si insisteva dunque
nell’affermare che l'esposizione al c v
m è in grado di stimolare la fibrogenesi conseguente al danno
epatocellulare provocato dai fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o
i virus B e C , e di innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano
alla cirrosi, agendo in tal caso come fattore
concausale.
Ricorda poi il
Tribunale gli studi caso-controllo dei consulenti dell’accusa privata,
professor Gennaro e professor Mastrangelo, volti all’approfondimento della
relazione tra mortalità per tumore polmonare ed esposizione alle polveri di
PVC.
In particolare
Mastrangelo, sulla scorta dei dati analizzati e delle valutazioni peraltro
analiticamente criticate dai consulenti della difesa, afferma che il fumo non
rappresenta un fattore di confondimento nella associazione tra esposizioni a
polveri di PVC e rischio di cancro polmonare inquantoché, pur essendo il fumo
di tabacco una causa di cancro polmonare, esso non è risultato correlato con le
esposizioni a polveri di PVC nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto
della concausalità sostenendosi che,
anche se tutti i casi esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se
qualcuno di loro era stato esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di
lavorare come insaccatore di PVC a Porto Marghera, la responsabilità della
esposizione a polvere di PVC rimane comunque per il fatto che la sostanza
attiva il penultimo stadio della cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un
agente concausale.
Ricorda al
riguardo il Tribunale come il professor Mastrangelo, nelle precisazioni che ha
ritenuto di fare per iscritto rispetto alle contestazioni cui è stato
sottoposto in sede di controesame dai difensori degli imputati, evidenzia il
suo assunto nel modo seguente: entrambe le sostanze (c v m ePVC) sono
cancerogene e la seconda può veicolare la prima; entrambe provocano la fibrosi
polmonare che può indurre a un eccesso di cancro polmonare.
Si ricordano
altresì le obiezioni dei consulenti della difesa: non solo il prof. Mastrangelo
ha proposto proprie ipotesi non convalidate scientificamente e ha mosso
critiche infondate agli studi epidemiologici che non evidenziano eccessi
significativi di tumore polmonare associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi
principale si basa su premesse destituite di ogni fondamento, in quanto si
osserva che il PVC non è di per sé considerato una sostanza cancerogena , posto
che lo IARC lo classifica nel gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di
cancerogenità per l'uomo e per l'animale da esperimento, e ancora meno è
dimostrato che esso possa indurre fibrosi polmonare, sicché non può
condividersi che la causa di eccessi di tumore al polmone possa essere il PVC.
Passando alla
problematica del rischio da esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa
pubblica e privata hanno sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di
rischio sulla base di modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P
A ha divulgato due diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima
nel 1994 e la seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte
più basso rispetto alla stima precedente.
Si osserva però
che le valutazioni dell‘EPA non intendono stabilire il rischio effettivo o le
conseguenze sulla salute per le persone, ma piuttosto sui rischi potenziali
utilizzando i dati sperimentali sugli animali, ma anche opzioni di default
mediante metodologie matematiche di estrapolazione lineare alle basse dosi per
i cancerogeni oppure estrapolazioni non lineari (e cioè modelli matematici che
ammettono una soglia) per le sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm
considerato genotossico la risposta e
il rischio sono nulli solo per una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e
l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di
assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva
Tossicologica Nazionale ha assunto
identica posizione.
La ragione
fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva
dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose di regola è lineare con la dose e la
probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è
proporzionale al numero di molecole presenti. Un ulteriore argomento, basato su
semplici criteri matematici, è quello che in presenza di un'esposizione di
fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola
esposizione si andrà a collocare nel tratto lineare della relazione
dose- risposta.
Ma l’OMS stima
il rischio cancerogeno anche sulla base di dati epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio
relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e
atteso nella popolazione esposta; diversamente il centro tossicologico e
ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto
dedicato al cloruro di vinile, nelle sue conclusioni, specifica che
"sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di
esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo
rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel
rispetto del limite di 3 ppm comporti
rischi significativi per la salute "; il professor Zapponi, consulente
tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente,
partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i
cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza
effetto, passa in rassegna le
principali stime, su dati
epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, e
nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione: che queste
valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur considerando che le
diverse stime si basano su diverse categorie di dati (epidemiologici e sperimentali),
pur tuttavia pervengono a risultati molto simili.
L'indicazione
che se ne trae è che una esposizione
lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe
andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e
l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha
portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono
valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni
di rischio che assumono l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle
ricerche degli Stati Uniti (NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano
di valutare l'operato dell' EPA per quanto attiene la valutazione del rischio,
ne ha innanzitutto individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le
stime del rischio ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di
tumore ma sono utili ai regolatori per stabilire delle priorità di
intervento": si tratta cioè di stime estremamente conservative che ricomprendono
opzioni inevitabilmente politiche di protezione della salute pubblica.
Si
evidenzia conseguentemente che le scelte politiche portano a opzione di default
utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti
problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino
in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la
salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul
livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare
i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli
teorici.
E
così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del rischio si scontra con elementi in cui il livello di
conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico, discordante, non
convincente, è necessario far ricorso a congetture e semplificazioni, assumendo
per l'appunto opzioni di default di cui le più importanti sono:
1) gli animali
da laboratorio sono un surrogato per gli esseri umani nella valutazione del
rischio dei tumori e i risultati positivi negli esperimenti sono presi come
evidenza della capacità di una sostanza chimica di causare il tumore negli
uomini;
2) gli esseri umani sono sensibili come le più
sensibili specie animali;
3) gli agenti
che risultano positivi negli esperimenti a lungo termine sugli animali e che
mostrano anche evidenza di attività promovente devono essere considerati
cancerogeni completi;
4) anche una
sola molecola della sostanza chimica ha associata una probabilità di indurre
tumori che può essere calcolata mediante il modello linearizzato multistadio.
Osserva dunque
il Tribunale che in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione
soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si
ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo
la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata
dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il
tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la
probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il
rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito
delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi
livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i
roditori".
Onde nella
comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi
il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è
sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse
dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti
delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto
per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta
essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che le esposizioni normativamente imposte e osservate
sono sufficientemente protettive ( Storm-1997).
In conclusione
secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla
base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default,
che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è
pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini
precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Ad analoghe
conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo
nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo
avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della
difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in
ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia
relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi
bersaglio.
Quanto alla soglia,
rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e Rozman ( 1997)
che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli dopo il 1968 negli
Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato alcun angiosarcoma, e
che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che resta avvalorata dalla
considerazione delle informazioni derivanti dagli studi epidemiologici e dagli
stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto
che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori
esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, pervenendo gli autori
alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5
ppm possa ritenersi adeguatamente
protettiva.
Gli autori mettono
anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una suscettibilità
alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti esposti: infatti non
solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai cancerogeni genetici in
generale a causa della durata di vita più lunga, della minore velocità del suo
metabolismo basale e delle maggiori capacità di riparazione del DNA, ma anche
perché dai risultati sperimentali è stata osservata un'incidenza di
angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore rispetto all'uomo esposto
al c v m e nell'ambiente di lavoro.
Da parte del
Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili
con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia
e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non
hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità
in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione
scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali
proprio perché convergenti hanno una
loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non
effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual
certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi
analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti
successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su
incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Comunque, sulla base delle opinioni espresse dai consulenti delle parti e dell'ampia
letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi
scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte,
sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di
conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo
specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.
Si evidenzia al
riguardo che l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come e' messo in
rilievo dai risultati degli studi sperimentali o osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli
sperimentali sono basati su modelli comuni. E' ancora in discussione il modello
di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un
numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del
tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la
mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di
riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due
contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza,
pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del
tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe
che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla
instabilità genetica.
Per quel che
riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione
specifico di tale sostanza è affermato dai
consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i
dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità
specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile".
E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti)
problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere
quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di
falsificazioni nel loro progredire.
Peraltro ritiene
il Tribunale non si possa negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno,
anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui
emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi: il
cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO"
che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce
direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a
pagg.48-59).
E, quanto agli
organi bersaglio, se ne rileva, sulla scorta degli studi esaminati che lo hanno
evidenziato, maggior incidenza e specificità negli angiosarcomi di animali
inalati e di lavoratori esposti a cvm. Tale maggior incidenza non è stata
invece individuata in altri organi (polmone e cervello) attraverso studi
metodologicamente corretti, condivisi e reiterati. Si ricorda al riguardo che
le mutazioni a p53 sono state osservate sia in lavoratori esposti che non
esposti pressochè in pari percentuale affetti da epatocarcinoma e comunque tali
mutazioni non solo non sono specifiche ma "possono riflettere meccanismi
endogeni piuttosto che essere indotte da cancerogeni esogeni"(Weihrauch).
Osserva poi il
Tribunale come la tesi accusatoria si
sviluppi ulteriormente deducendo l’ipotesi
della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità dell'alcol di
interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa,
metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del
processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non sussistano dati scientifici su cui
solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm
e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile
l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno
dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due
sostanze.
Sulla scorta dei
dati e studi di cui sopra, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei
fatti di cui in imputazione, premettendo brevi cenni sulle note teorie della
causalità, che riteneva necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe
stata la insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con
la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre
certi tipi di evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli
apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni
o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva
incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il
Tribunale, non può trovare consenso posto che, in via di principio, la
causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il
nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità
della sostanza a causarla.
Si afferma
infatti che tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i
loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi
preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la
causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli
comportamenti.
Anche perché gli
studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente
causati dall'esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità
dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze
tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un
significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più
propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova della
idoneità della sostanza a provocare la malattia.
E'
per questa ragione che non c'è alcuna possibilità di distinguere tra i casi
esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si
sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre
che il mesotelioma da asbesto, l'angiosarcoma
per esposizione a c v m) le neoplasie professionali non hanno carattere di
specificità e non sono distinguibili
neppure istologicamente sotto il profilo morfologico da quelle extra professionali.
Si ritiene
dunque che l'incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità
dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli
scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella
carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione
riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite
nella sua ipoteticità. E si richiamano concetti espressi da epidemiologici e
dalla stessa EPA nonché studi soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo
che solo una piccolissima parte dei tumori è in realtà ricollegabile
all'attività industriale (dall'1 al 3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale
residua è dovuta a cause diverse, cioè all'esposizione a inquinanti diffusi
nell'ambiente o all'ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare
il cui uso è normalmente consentito. Ricordandosi altresì che gli stessi consulenti della accusa pubblica
e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può
bastare perché suggerisce inferenze
eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli
individui.
Se dunque la
causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo
riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può
essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo
assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di
ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle
valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali
dell'accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le
indicazioni di IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e
in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai
loro coautori dott.Simonato e dott.Boffetta.
Diverso invece
l’approccio, in quanto, una volta chiarito il contributo che l'epidemiologia,
attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del
problema, la sussistenza del nesso causale per l’attribuzione del fatto
contestato va argomentata giuridicamente considerando tutte le implicazioni e
considerazioni che vanno ben oltre
quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice sulla scorta dei principi di
diritto ai quali il Tribunale si ispira enucleandoli dopo excursus anche
relativo alla giurisprudenza e dottrina americana che ben metterebbero in
rilievo, pur nell'ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare
il modello meccanicistico di causalità evocate dallo stesso P.M.: l'esigenza di
una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana.
Osserva
il Tribunale che seppur detti beni devono essere tenuti senz'altro in alta
considerazione, e seppur queste sono le motivazioni più o meno esplicite che
spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso
causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C 12/7/91 -sez 4° cui si
rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che nell'ambito del processo penale
vi sono altri beni da tutelare che sono quelli della responsabilità personale e
della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di uniformarsi ai più recenti e più
rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così potendosi enucleare
i principi in diritto applicati: le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto
dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango
costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un
rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o
daleggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da legi di
copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.
Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze
causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e
corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza
scientifica;
2) l'affidabilità delle
conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono
modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che
riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica
nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo
dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una
"corroborazione provvisoria ";
3)
le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi
e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza
complessiva del risultato raggiunto;
4) l’incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento;
5) la
causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre
certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare
il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e
l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può
essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del
verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il
piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità
dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;
6) gli studi
epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi
preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di
spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi
a singoli comportamenti.
Osserva peraltro
il Tribunale come nella specie proprio la causalità generale da esposizione a
clorulo di vinile è stata utilizzata
dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma
altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna neoplasia che si è ritenuta in qualche
misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il
Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali
risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del
raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica
americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività
statistica, ma ciò nonostante sempre e
comunque assunta come ineludibile
presupposto della causalità individuale
anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza
esplicativa che sono stati valutati
come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e
necessari.
Si
osserva al proposito che le conclusioni di IARC 1987, punto di partenza per le
imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM, salvo alcuni aggiustamenti
quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano una associazione tra
esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari),
tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico,
melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la
maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo (
Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e
Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali
studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto
Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività
dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato
diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le
malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti epidemiologici dell’accusa(si cita l’ultima
relazione presentata dai consulenti
Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità
in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei
tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe
aggiungere anche del tumore della laringe .
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla
base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più perentorie conclusioni cui erano pervenuti
gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del
successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi
che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della
idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che
l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi
(e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare
l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e angiosarcoma epatico e eccessi di rischio
nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad
elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le
altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto
riferimento IARC, non sono state confermate.
Ma il PM
non ne avrebbe tratto le logiche e
conseguenti conclusioni, in quanto, pur avendo al termine della
requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti offese relative a 311
patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542 parti offese introdotte
con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni
supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto di fornire
una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria,
limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque
un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.
Sono
stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati
associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie e le broncopneumopatie (87), nonchè le
pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime
indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici
è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe
l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per
"inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre patologie
(neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito
della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa
ovvero non correlate all'esposizione.
Ma,
secondo il Tribunale la logica conseguenza sarebbe che essendo insussistenti o
comunque non causalmente riconducibili esse non possono avere rilievo neppure
nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il
pubblico ministero ha fatto riferimento.
Si
osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il PM ha cercato di
supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora
incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in
particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio
noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo
assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non
considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto
epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un
fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa
Il PM nessun
rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e sperimentale che
indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta la
cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni
di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la
rilevanza causale delle esposizioni
successive al 1974.
Infatti in
tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori
rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro
che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro
che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad
elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60
e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza. E si
citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt,
ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme
e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo,
in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del
fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in
lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e
successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.
Si osserva poi che se si
considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma
(oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm
circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già
presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni
degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e
in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli
stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta
esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero
convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano
un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e
gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative
di 10 ppm non è stata accertata una
idoneità lesiva del c v m.
I consulenti del pubblico ministero relativamente al
problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto
smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati
ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di
sotto della quale non si sono osservati tumori
non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si
possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché
bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino); “attualmente una relazione tra esposizione e
cancerogenità delle sostanze genotossiche
è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità
di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e
sul rischio e quindi accettare che non
vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non
riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso
dire assolutamente nulla " (Martines).
Resta il fatto, e questo
rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti
che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati
negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo
insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo,
abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono
verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e
prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla
conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun
tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto
Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il
periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte
medio-alte rilevate.
Conseguentemente si può
trarre una prima incontestabile conclusione:
alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva
del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle
esistenti dal 1974 in poi.
Le incertezze della
scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni
cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori
approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito processuale dove ci si deve attenere ai
fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole
esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone
tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni
agli imputati tutti tratti in giudizio,
sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.
Infatti le
condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e,
quindi, a epoca precedente alla conoscenza della canceroginità del cvm. Mentre per
il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale
sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti
imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli
stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di
impresa), non si ravvisano neppure condotte
cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.
Invece, si
osserva, il PM compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché
rappresenta nella imputazione “un quadro del passato” che ci riporta a
condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle
proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame dibattimentale tali situazioni
come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000.
In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua delle risultanze
epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM ha adottato un criterio selettivo per
individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è
scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la
strategia “della massificazione degli
eventi e delle condotte“: indubbiamente “fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun
fondamento in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca
erano vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si
parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano
norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno
determinato gli eventi.
Ma il Tribunale
già osserva che allora si ignorava la pericolosità e la canceroginità sia del
gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell'ambiente di
lavoro, e quindi la rappresentazione e
la prevedibità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla
metà degli anni 60 la sindrome di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso,
patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che veniva a colpire i lavoratori che per le
loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle
autoclavi o dei filtri o nell’insacco.
Dunque non appare
condividibile l'assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al
datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota del fattore inquinante, di mettere in atto
ogni strategia possibile per eliminarlo
o neutralizzarlo, assumendosi diversamente
la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella
violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili.
Questa
tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità
colposa poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale
non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma neppure la rappresentazione
dell'evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può
eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor
più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un
determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale
secondo il modello del c.d. agente modello.
Ma soprattutto, osserva
il Tribunale, ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello
oggettivo deducendo dalla inosservanza di quelle norme di cautela generica la
attribuibilità dell'evento lesivo "con alta probabilità riconducibile
proprio all'inalazione delle polveri o del gas", così ritenendo decisivo
per l'accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia
astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento.
La dottrina e la giurisprudenza prevalenti
escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso causale possa farsi
ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non essendo possibili
ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo" poichè dalla
problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere escluse tutte le
questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all'elemento
psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).
Ma pur seguendo il P.M.
su tale piano ci si dovrebbe interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia
stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per
contro la condotta corretta che, se
posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi
d'accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia
l'omessa fermata degli impianti - o comunque un adeguato e tempestivo
intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione nociva e cancerogena - sia
l'omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei
lavoratori maggiormente esposti ( in particolare autoclavisti e insaccatori).
Ammesso per pura ipotesi
che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza
del rischio tossico e oncogeno , si tratta di verificare se avrebbe potuto il comportamento alternativo
che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei
lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze
epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami
medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I dati di
conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce
secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più elevate
sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli
effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio il cvm
sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente
irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che il periodo di
esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di
"lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca della
induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la
manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della
letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter
ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori
siano quelle degli anni 50-60. Ne
consegue che all'epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente
esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si
vuole, non sussiste una prova
dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo
avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori.
Ma il Tribunale,
ha intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità:
tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e
aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente
una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e
patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche
epatopatie interessanti l'endotelio.
A tali fini il
Tribunale ritiene di effettuare, con specifico riferimento alla coorte di Porto
Marghera, un esame più dettagliato e una valutazione critica dei dati
epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare
nonché di approfondire le caratteristiche nosologiche e morfologiche delle
neoplasie alla luce dei contributi dei
consulenti medico-legali e anatomo patologi. E conclude ritenendo non
individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo
concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità
del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e
omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone,
e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.
Circa il tumore
al polmone il tribunale ha ritenuto non sussistere l'evidenza epidemiologica e
neppure la plausibilità biologica e ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei
12 casi di un rilevante fattore di rischio extraprofessionale per elevato
tabagismo.
Con riferimento
all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur
prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi
statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che
hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati
degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e
istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi
epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la
prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.
E ciò, non solo perché gli
studi epidemiologici riguardano ancora un piccolo numero di persone sia nella
corte europea (10 soggetti ) sia in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti)
con problematiche ancora aperte sulla precisione della stima e con andamenti di
rischio non particolarmente elevati se si tiene conto della eziologia variegata
e dell’alta incidenza dei plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in
tutti i casi esaminati mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento
non sono state evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro
sono state invece individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti
di induzione di tale tumore presenti
in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c, elevato consumo di
alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni alternative.
Alla logica della
falsificazione si sono richiamati gli stessi consulenti dell’accusa,
allorquando hanno affrontato il problema se sia possibile pervenire dal dato
epidemiologico a livello di popolazione a quello individuale, e la risposta è
stata cautamente affermativa, ma ristretta sostanzialmente ai casi in cui non si è in grado di fornire una spiegazione
alternativa, cioè solo se si è in grado di affermare che il singolo soggetto
esposto a cvm non era esposto ad altro fattore eziologico che giustifichi la
insorgenza della patologia indipendentemente dal cvm.
Analogamente si ritiene
non provato il nesso causale per la cirrosi, osservandosi che tutti i casi di
cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile
l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i
casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico
coincidente con uno dei noti fattori di rischio (infezione virale b o c,
consumo di alcool).
Proprio la presenza di
tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero a ipotizzare comunque solo un ruolo
concausale del c v m. Ma, osserva il
Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi
lesioni tipiche dell'esposizione a c v
m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che,
secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e successivamente
angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra tale malattia
epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha trovato
conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi epatica
congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di Simonetto
dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non angiosarcoma: nel
primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi ha origine in una
malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.
Analoghe,
ancora, le conclusioni per le epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni
da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia
associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a
epatiti virali.
In conclusione,
osserva il Tribunale che all’osservazione epidemiologica gli eccessi
significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori
epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico
organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori
esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60,
perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che
le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa
incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di
fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’
epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo
una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di
conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato.
Altresì per
quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è
noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che
interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente
viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione
plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie
nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso
organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello
sperimentale.
Eguali
considerazioni merita l’ipotesi del cvm come fattore concausale che
interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di rischio (alcool, epatite
b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze
non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla
sussistenza di tali meccanismi sinergici.
Il ricorso alla
concausalità non può essere neppure un espediente per sfuggire alla prova della
efficienza causale esclusiva del
fattore professionale posto che il nostro ordinamento (art 41 c p) non
autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico
della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di
copertura.
Pertanto trovano
spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
Tanto ritenuto in ordine alla
problematica del rapporto eziologico tra esposizione a cvm e a polveri di PVC
ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella disamina degli
impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto Marghera
ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità di dette
tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte contestate,
per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici addebiti
contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della colpa
nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.
In diritto, peraltro, previamente esclude la configurabilità
nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo
l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all'
articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo l’accusa, sulla scia di
parte della dottrina, l’accento andrebbe posto sull’articolo 449 cp che
consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie aperta di disastro
innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il rinvio che tale
norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre figure di
disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece il
Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza della
strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute
fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p,
nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di
altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo
selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo,
individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione
di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio
perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione
delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite
iniziale della serie delle disposizioni richiamate.
Ritiene invece il Tribunale corretta
la prospettata configurabilità del delitto di disastro innominato colposo,
disattendendo, quanto a tale reato, le critiche della difesa. Premesso che in
punto di fatto il pubblico ministero, come ha chiarito anche nel corso della
sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie per utilizzarla come "trait
d'union" tra i due capi di imputazione e, anzi, per configurare un unico
disastro in quanto " l'attività di industria e di impresa ha esplicato i
suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno che all'esterno della
fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e morte ai lavoratori
esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un grave inquinamento dei
sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle acque di falda
sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono derivate anche
alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che, riferendo il disastro
anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe difficile tracciare il
limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437 comma secondo c p e che,
inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e dell'ittiofauna vi sarebbe
una sovrapposizione rispetto ai
contestati reati di avvelenamento e di adulterazione colposa di acque e di
sostanze alimentari, e si è sostenuto che ad integrare la fattispecie non è
sufficiente un qualsiasi pericolo, ma esclusivamente un pericolo che deriva da
una atto diretto a cagionare un disastro (comma primo) o integrato dalla
verificazione dell'evento disastroso (comma secondo).
Ma ritiene il Tribunale che una
siffatta ricostruzione della fattispecie non sia condividibile laddove nel
reato di disastro innominato si ritengano, quali elementi necessari alla sua
definizione, una sia pure relativa contestualità degli eventi e la loro
determinazione da causa violenta. Elementi, questi, specificativi e non costitutivi,
tali essendo invece la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una
comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la
pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo
che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività
predisponente o aggravante la situazione di rischio. L’evento può verificarsi
solo quando si siano determinate un complesso di condizioni: in tal caso è
irrilevante verificare se i fattori causali di quel complesso di apporti sia
prossimo, remoto o concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché
anche in tal caso ricorre il principio di equivalenza delle cause
diacronicamente succedutesi ( art.41cp).
E nel caso che ci occupa il rischio
costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati ,
le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di
Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva
dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della
comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle
mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione
delle esposizioni sin dal 1974.
Il Tribunale esclude infatti
completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle
condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria
dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire
appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed
ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica. A sostegno di tale
conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi delle risultanze processuali
in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità del cvm, ai
processi produttivi nei singoli reparti, agli interventi di manutenzione e di
modifica degli impianti, volti a limitare le esposizioni dei lavoratori, alle
misure di prevenzione personale predisposte, in particolare per la tutela degli
insaccatori ed autoclavisti.
Ne consegue che il predetto reato si
ritiene causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell'epoca in
considerazione (1969-1973) posizioni di garanzia e, in tale ambito temporale
rimane circoscritto, perché per il periodo successivo viene meno anche
l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la situazione di rischio.
Peraltro la riferibilità causale di
tale reato, così come dei reati di omicidio e di lesioni colpose per gli
angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli imputati che nell'epoca
considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio
relativo all'esposizione alla sostanza tossica e oncogena, non è accompagnata
anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di colpa (tranne che per i reati
di lesioni colpose per i casi di Raynaud in ordine ai quali il proscioglimento
degli imputati specificamente interessati in relazione al predetto periodo di
causazione, consegue alla prescrizione).
Il principio ispiratore, quanto
appunto alla componente psicologica del reato, è che nei delitti colposi, la
prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta, in particolare per quanto
riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla base del criterio della
migliore scienza ed esperienza presenti in un determinato settore ed in un
preciso momento storico, costituito dall’epoca in cui viene iniziata la
condotta. La prevedibilità dell’evento può essere affermata solo quando
sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali permettano di stabilire
che da una certa condotta possono conseguire determinati effetti. La
responsabilità dell’imputato può essere affermata solo quando l’evento
verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola cautelare
intende prevenire.
E nella specie, all'epoca non era
noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche fondate su affidabili
verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo (angiosarcomi), e le
lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato segni patologici
inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di sofferenza
epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in tal modo
osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza sanitaria.
Obbligo non osservato, invece ,
relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi , trattandosi di
patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con l'allontanamento
dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù riguardante mansioni che
implicavano un contatto diretto con la sostanza che doveva essere evitato con
idonee misure protettive realizzate tardivamente.
Dunque secondo il Tribunale, nella
fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni imputati, risulta essersi mossa
tempestivamente, sotto il profilo della modifica delle procedure e degli
interventi sia immediati che a medio termiune sugli impianti e sulle
apparecchiature, non appena il problema della canceroginità del cvm ebbe ad
appalesarsi con un consistente fondamento scientifico. Le opere eseguite,
comprovate documentalmente e confermate dai testi escussi, avrebbero, a parere
del Tribunale, permesso di ottenere in breve termine una drastica riduzione dei
precedenti livelli di esposizione, concretamente evidenziata soprattutto a
partire dalla seconda metà dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con
successivi netti sviluppi di riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori
ampiamente ricompresi nei limiti prudenziali e rispettosi delle soglie
all’epoca individuate e successivamente stabilite dalla normativa.
Si ritiene dunque infondato
l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della responsabilità
colposa, sia generica che specifica.
Né tantomeno, ed a maggior ragione,
è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo, integrante l’ipotesi di reato di
cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va
rilevato che l’accusa, sotto la qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437
c.p., ascrive l’omessa collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza
destinati ed idonei a prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche
gravissime”.
Osserva al riguardo il Tribunale che
tale tipologia di contestazione non contiene, nella fattispecie concreta,
l’indicazione di fatti specifici, in particolare per quanto riguarda la natura
degli apparecchi che avrebbero dovuto essere collocati, per cui si deve
ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte le asserite violazioni
integranti gli addebiti di colpa ascritti.
Peraltro il Tribunale, nell’analisi
della suddetta norma, precisa che: la previsione normativa di cui all’art. 437
c.p. configura la più severa sanzione,
predisposta per le violazioni più gravi del dovere di sicurezza, in
quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla necessarietà del dolo e sotto
il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza
aventi particolare serietà;
la fattispecie in esame non descrive specificamente in quali
situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve ritenersi, secondo i
principi generali concernenti la responsabilità per omissione, che la condotta
di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli
apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica
norma di prevenzione di disastri o d’infortuni;in sostanza, la previsione di
cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad
una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla
violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale,
che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici
doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire
disastri od infortuni sul lavoro.
Dunque sorgono in considerazione, nella
fattispecie, le asserite violazioni di cui ai DPR n. 547/55 e n. 303/56; sotto il profilo oggettivo, la
definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da
stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature
aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione
summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione”
corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità
strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di tale
previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le cautele
relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di organizzazione
del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati. Neppure le parti
d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano nell’ambito dei dispositivi
suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si
riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione alla sicurezza.
E in forza di tali premesse ritiene
che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di omesso risanamento dei
medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a
deterioramento, di mancata adozione delle misure necessarie a tutelare la
salute dei lavoratori, di mancata emissione dei provvedimenti conseguenti alla
segnalazione (con la relazione del marzo 1977) dell’Istituto di Medicina del
Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione normativa succitata, sia per la
genericità dell’oggetto, sia per la palese non correlabilità alle nozioni di
collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque
di prevenzione; la contestazione d’insufficiente manutenzione degli impianti,
con riferimento alla sostituzione degli organi di tenuta (valvole, rubinetti),
non concerne ugualmente l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 437
c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli impianti produttivi
normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e distinti strumenti
con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di
omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di
particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di
omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa
separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei
all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le
motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti
relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da
collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed
antinfortunistica.
Secondo il Tribunale anche la
contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti di monitoraggio non
appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In ogni caso, anche a
ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature
summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi sono stati
effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa
tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole
zone di lavoro.
E analogamente inconsistenti, alla
luce delle installazioni e delle modifiche impiantistiche adottate con le
commesse analiticamete ricordate dal Tribunale, si ritengono gli addebiti
relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.
Ulteriormente precisa poi il
Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di reato di cui
all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in quanto è del
tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui al presente
giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a
neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai
medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata
all’esposizione degli operatori risulta
essere stata invece adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli
odierni imputati, mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per
quanto riguarda la modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione
degli elementi tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione
degli impianti.
In conclusione sarebbe rimasta
provato che solo per quanto riguarda gli operatori sui quali è stato
riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano superiori ai
limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco temporale sino al
1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e degli operatori
all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente individuati con
riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed all’acroosteolisi, per i
quali indubbiamente è emerso che, fino al momento dell’adozione delle diverse
procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento degli elementi delle
apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno 1974, non sono state
adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo contatto diretto tra
le mani ed il CVM.
Ma sulla scorta di tutte le
considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può però ravvisarsi
alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette patologie e quelle
tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a tipologia e formazione e
quindi integranti un tipo di evento diverso e non prevedibile, le quali sono
state oggetto di acquisizioni scientifiche sufficienti soltanto a partire
all’anno 1974, come evidenziato da tutte le organizzazioni internazionali che
si occupavano della sostanza in esame. Del resto, si ricorda, tutte le
patologie anzidette, integranti eventi di tipo diverso, trovano origine nelle
elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, le quali rimangono al
di fuori della contestazione del P.M. e quindi del presente giudizio.
Conclusivamente quindi il Tribunale
individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato solo sotto il
profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie sia sotto il
profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni colpose ormai
estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per tutte le ipotesi
di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le conseguenti formule di assoluzione
o proscioglimento.
Non si esime infine il Tribunale da
valutazione e conclusione di sintesi in ordine all’accusa prospettata,
osservando che il processo ha sofferto della fuorviante impostazione
accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le coordinate
spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle condotte e
dei soggetti ai quali fossero imputabili.
Si ricorda che nel 1° capo di
imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie – di cui 228 neoplasie-relative
a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a 311 patologie – di cui 164
neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a condotte omissive che si
sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto e non concluso di 30 anni
(il PM ha contestato la permanenza in atto).
Addebiti di colpa infondati in fatto
e eventi suggestivamente massificati configuranti i reati di disastro colposo e
di strage colposa (inesistente nel
nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza evocativa.
Eventi che, nei limiti in cui siano
imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono essere ricollocati nel loro tempo
reale, un "quadro del passato" che ci riporta alle condizioni di lavoro incidenti sullo stato di salute
dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 – ‘60 e non alla fase temporale successiva (1969-2000)
che è stata proposta all'esame dibattimentale.
Questa sfasatura temporale, secondo
il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti:
perché era reale la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e,
invece, inattuale e contraria al vero se riferita agli anni successivi.
Dunque necessaria una
contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione
dei piani temporali.
Ricorda al riguardo il Tribunale che
allorquando nei primi anni ‘50 presso il petrolchimico di Porto Marghera iniziò
la produzione del cloruro di vinile e del polivinile le condizioni di lavoro erano estremamente pesanti, usuranti e
nocive e non subiranno cambiamenti fino alla fine degli anni ‘60, primi anni
'70.
Da tale periodo iniziano a
determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta delle rivendicazioni
sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli operai.
Vi concorrono le prime conoscenze
sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli esperimenti sugli animali
portati avanti da Maltoni evidenziano.
La definitiva conferma, nel gennaio
1974, della cancerogenità della sostanza determinerà una accelerazione degli
interventi sulle procedure di esercizio degli impianti di polimerizzazione,
sugli interventi di manutenzione e sulle modificazioni ai processi e agli
impianti.
L’incalzare del sindacato, da un
lato, la responsabile disponibilità della controparte, dall’altro, progressivamente e in uno spazio temporale
relativamente breve, ridurranno le
esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli anni '50 '60 e dai 200
ppm dei primi anni '70 si passerà
rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti tra 5 e 3 ppm,
per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.
A esposizioni, cioè, non solo
consentite sulla base del parametro di 50 ppm provvisoriamente raccomandato
nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità (che è quello stesso fissato in
Germania e nel Regno Unito), ma
ampiamente al di sotto dei nuovi parametri allorquando la normativa di
recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n° 962 del 1982 il limite di 3
ppm come esposizione media di lungo periodo.
Nei reparti di polimerizzazione, e
quindi in quelli con i valori di esposizione più elevati e maggiormente a
rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo intercorrente tra l'aprile del
1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351 determinazioni mediante
"pipettone": i valori medi mensili di concentrazione del c v m sono
inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale arco temporale e tendono a una
progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei primi mesi del 1975 valori
medi inferiori a 5 ppm.
I valori espressi dalle rilevazioni dei
gascromatografi entrati in funzione nel marzo 1975 vengono confrontati anche
con i campionatori personali indossati su turni di 8 ore di operai dedicati a
varie mansioni di lavoro e la correlazione è confermata : negli anni 1976-1977
il 75% delle determinazioni è risultato inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato
compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5
ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A novembre del 1975 i valori medi mensili
sono inferiori a 1 ppm.
Tale crollo delle esposizioni fu la
conseguenza incontestabile di modifiche delle procedure, di interventi sugli
impianti, documentata in atti e confermata dalle prove testimoniali.
Dunque, i tumori e le patologie che
il pubblico ministero ha ritenuto riferibili all'esposizione al cvm sono tutti,
pacificamente e incontrovertibilmente, come hanno detto unanimamente i
consulenti della accusa e della difesa, attribuibili alle condizioni di lavoro
e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.
Questa è l'epoca in cui sicuramente
si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi in cui si produceva questa
sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono compiuti i numerosi e
approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai tempi nostri, la
produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni lavorative, con
gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi sistemi
produttivi esistenti a quell'epoca a
Marghera.
Per propria scelta quindi il
pubblico ministero non ha agito nei confronti degli amministratori e dei
dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi verificatisi non
potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa derivante dall'ignoranza
degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso invece di agire nei
confronti dei loro successori.
Per portare comunque a compimento il
suo proposito il PM è stato costretto a trasferire l’epoca della causalità a
quella della colpa: ha collocato cioè la causa degli eventi, risalenti alla
prima era degli anni '50 '60, nella
seconda era degli anni '70-2000 allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre
direttrici.
La prima tende, nei limiti in cui è
possibile, a sovrapporre la prima e la seconda "era": la conoscenza
della oncogenità del c v m è fatta risalire al 1969, e cioè ai primi esperimenti
del dottor Viola che individua sui ratti esposti ad elevatissime concentrazioni
di c v m (30 mila ppm) dei tumori sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano
stati ritenuti non significativi e non estrapolabili da animale a uomo oltre
che dalla comunità scientifica anche dallo stesso autore.
Si pretende cioè dal PM un
adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di Viola comunicati nel
1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato degli stessi e
ritenga sia necessario un loro approfondimento.
Tutta la comunità scientifica e gli
organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di conferme e di sviluppi
della ricerca che era impostata su modelli sperimentali ritenuti inadeguati
(alte concentrazioni, numero e specie di animali insufficiente..) e comunque
non estrapolabili dall’animale all’uomo.
E’ stata Montedison ad assumere la
tempestiva iniziativa di uno studio
basato su modelli sperimentali che saranno unanimamente apprezzati, incaricando
sul finire del 1970 il professor Maltoni
di condurre un esperimento secondo metodologie adeguate, "meno
pionieristiche", che produrrà i primi risultati, individuando i primi
angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti nel 1972, risultati che
l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e, ancorché parziali, alla
comunità scientifica già nell’aprile dell'anno successivo.
Suggestivamente il PM insinua, ma
non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino allora taciuto perchè
avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime morti per angiosarcoma
accertate su tre lavoratori della società americana Goodrich nel gennaio del
74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof. Carnevale, che pure si è
occupato di complotti dell'industria, ha affermato che vi furono sospetti, ma
che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più propriamente probatorio,
dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli USA effettuata dal PM è
emerso piuttosto che le industrie europee e americane si vincolarono ad un
patto di riservatezza sino alla conclusione degli esperimenti di Maltoni con il
proposito di garantirsi da fughe di notizie e strumentalizzazioni che potessero
avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli altri, patto che non ebbe alcuna
esecuzione per le perplessità delle industrie americane e per le notizie
preoccupanti sui primi risultati sperimentali comunicati da Maltoni.
Gli esperimenti di Viola possono
essere considerati un campanello d’allarme sulla possibile oncogenità della
sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si sono associate le altre
industrie europee, come un impegno ad approfondire gli studi sperimentali per
fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai fini di adottare le
conseguenti decisioni.
Ma nel frattempo Montedison non
rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì interventi già nel 1973 che
riducevano l’esposizione negli impianti di polimerizzazione (il degasaggio e lo
scarico delle autoclavi, la loro bonifica e
pulizia).
E successivamente, come si è detto,
quando la cancerogenità fu confermata sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre
lavoratori della industria statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974,
intraprese quelle modifiche agli impianti, cui si è fatto diffusamente
riferimento nella parte motiva, che ridussero drasticamente le esposizioni ai
fini di prevenire tali eventi avversi.
Nel corso degli anni successivi
l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori iniziative da cui è conseguito il raggiungimento di valori
ampiamente al di sotto della soglia stabilita.
Il pubblico ministero intraprende la
seconda direttrice.
Contesta l'affidabilità delle
misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei vari reparti : ma la
comparazione con i rilevamenti effettuati con “i pipettoni” e con i campionatori
personali smentiscono tale assunto perché viene evidenziata una situazione
espositiva sostanzialmente corrispondente con diversi sistemi di rilevazione.
Anche gli accertamenti effettuati dal consulente dell’accusa privata su pretese
violazioni di procedure nell’esercizio dei gascromatografi risultano del tutto inidonei a infirmare la
validità e la correttezza del loro funzionamento e, comunque, anche a voler
ammettere l’esattezza dei rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto
trascurabili.
Contesta ancor più radicalmente il
PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di monitoraggio sequenziale
multiterminale che determinerebbe una diluizione delle concentrazioni. Ma tale
sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n° 962/1982, è stato quello
prescelto anche dalla componente maggioritaria del sindacato, perché più idoneo
a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori nelle zone di lavoro:
comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16 è risultato che i
valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano sovrapponibili a quelli
acquisiti col sistema pluriterminale.
La pubblica accusa nell’intento di infirmare i valori
espositivi, ampiamente al di sotto di quelli stabiliti dalla normativa,
intraprende la terza direttrice e si attesta su una posizione di assoluta
intransigenza, negando che vi possa essere una qualsivoglia soglia di sicurezza
per gli oncogeni : "non si può escludere". Si tratta di una posizione
cautelativa condivisibile sotto l'aspetto sociale, ma la valutazione del
legislatore è stata diversa perché non ha vietato la produzione del cvm, ma ha
semplicemente imposto dei limiti di esposizione che ritiene possano essere
cautelativi rispetto al rischio oncogeno.
Gli studi tossicologici e di
oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte motiva sono convergenti,
secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto dose-risposta per il c v m,
individuando una dose cumulativa di non effetto a 10 ppm (Maltoni, Weinrauch,
Swemberg).
Ricorda d’altra parte il Tribunale come gli studi
epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una esposizione
cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato tale
tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.
E che l'osservazione ha messo in evidenza che nessun
angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente
al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte
statunitense e in quella di Porto Marghera. Ed ancora si ricorda il recente
studio (Rozman e Storm-1997-) con il quale viene confermato che " fino
all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal
registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che
erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968,
traendone la conseguenza che la riduzione dell'esposizione entro il range di
0,5- 5 ppm sembra essere stata sino ad ora adeguatamente protettiva".
Si osserva infine che il principio
di precauzione è divenuto patrimonio della cultura scientifica, industriale e
legislativa solo in tempi recenti e per quanto riguarda il CVM la sua
produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non fu sottoposta a
sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il rischio di
esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi anni '70.
Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti causate, i
numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle indicazioni in base
alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi che appaiono
adeguatamente protettivi.
E se tali limiti sono rispettati (si
intende i limiti cumulativi medi e non gli sforamenti occasionali che pur
possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per "incidenti rilevanti"
in occasione dei quali vengono tuttavie attivate le procedure di emergenza) e
se sinora non si sono verificati effetti avversi nonostante che sia trascorso
un periodo temporale che oltrepassa il periodo medio di latenza dei tumori indotti,
che è di 28-30 anni, l’ultimo fronte su cui si attesta il pubblico ministero -secondo cui
"nessuna dose è sicura"- non ha nessuna valenza giuridica e nessun
fondamento in fatto. Così come
infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto sinergico anche a basse
dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c.
Si ricorda ancora, infatti, che in presenza di tali fattori di rischio,
che da soli possono offrire una spiegazione causale o alla patologia o alla neoplasia
(in particolare alle epatopatie, alle cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto
contributo del cvm non ha trovato convincenti conferme nelle ricerche
sperimentali.
Queste le ragioni in base alle quali
il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere l'impostazione accusatoria che
contesta i reati in oggetto a 31 amministratori e dirigenti che avevano
governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai più alti livelli, ognuno
accusato di essere consapevole della responsabilità del predecessore, ognuno
partecipe del medesimo disegno
criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa come se la
situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata non solo
negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.
Conclude infine il Tribunale ribadendo
ancora che in questa traslazione dei piani temporali si annida il vizio
d’origine della imputazione, in un quadro del passato riportato al presente, in
una artificiosa forzatura che non consente di individuare negli imputati
condotti a giudizio i responsabili di eventi che hanno la loro causa in un'altra epoca, cui si accompagna la
rappresentazione di un quadro accusatorio che risente dell’enfasi della
formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è inserito un
ingiustificato accumulo di eventi.
Avverso
tale sentenza proponeva appello il P.M., nonché, ex art. 576 cpp, le costituite
Parti Civili.
In particolare,
il P.M. proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza
relativamente alla intestazione dell’imputazione, nonché relativamente a tutti
i punti del dispositivo che fanno riferimento al primo e al secondo capo d'
imputazione e per tutte le fattispecie
di reato contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art.
422-449 c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle
contestazioni ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del
13 dicembre 2000.
Il P.M. chiede,
quindi, che venga dichiarata la penale
responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i periodi
di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza preliminare,
nonchè che i medesimi vengano
condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di essi
richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.
Non viene presentato
appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché il reato è ormai
prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli artt. 422-429
(rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto residuale.
Sostanzialmente e
sinteticamente, i motivi che determinano l’appello per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei
seguenti:
- omessa lettura ed
omessa considerazione di tutto il materiale probatorio fornito da Pubblico
Ministero e dalle parti civili;
- omissione dei
fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e dalle parti
civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;
- travisamento dei
fatti;
- omessa
considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici del
P.M. e delle parti civili;
- travisamento ed
errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti tecnici del P.M. e
delle parti civili.
- incompletezza e
contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e omessa
applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che
dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974)
considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;
- errata
interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali penali
contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione delle
norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie
dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.
Si
lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e
l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M. evidenziandosi che il Tribunale
ha omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare, ha omesso
di riportare le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle
udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.
Già per tale motivo,
si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di primo grado.
Quanto al merito, relativamente al primo capo
d’imputazione, esordisce il P.M. con la disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT.
437-589-590 C.P., lamentando superficiale ed erronea valutazione da parte del
Tribunale, osservandosi che in più
punti della motivazione, ma in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza
riconosce per " l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli
di esposizione al CVM per autoclavisti, insaccatori ed essiccatori erano " nettamente
superiori " ai limiti della normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD
e l’acroosteolisi riscontrati e confermati anche dal Tribunale in queste
categorie di operai erano dovuti al loro lavoro, per il quale fino al 1974
" non sono state adottate le misure cautelari idonee ".
In conclusione, riconosciuto il nesso causale, il
Tribunale -a causa dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione
per le lesioni colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e
doveva attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437
(omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per
condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".
Il Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del
periodo precedente -che di dice sicuramente contestato dal Pubblico Ministero-
mentre altrettanto sicuramente, stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale
avrebbe dovuto dichiarare per l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità
quanto meno degli imputati per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato
la prescrizione del reato di lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI,
GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD
riconosciuto e ammesso dal Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato
diagnosticato nel 1995 e, quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il
2 novembre 2001 (come, peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate
dopo il 1995 per Terrin Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il
Tribunale non ha nemmeno considerato, pur trattandosi di parti civili ancora
costituite).
Ciò
già imporrebbe la modifica della sentenza di primo grado e del dispositivo
"in parte qua". Ma comunque, secondo l’appellante, relativamente
all'accusa di cui all'art. 437 codice penale, nella sentenza si rinvengono
ulteriori e più ampi vizi, in fatto e in diritto, per i motivi che seguono, che
hanno attinenza sia alla interpretazione giuridica delle norme, sia alle
contestazioni specifiche risultanti dal primo capo d'imputazione, sia agli
studi e alle conoscenze storiche sulla tossicità e sulla cancerogenicità del
CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e cancerogene del CVM e del PVC.
Si sostiene, in particolare, che il
Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed
esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati,
omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito,
che riguarda:
- le conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che
si dice risalire alla fine degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);
- i particolari organi colpiti dal
CVM .
Si aggiunge
altresì che, altrettanto inspiegabilmente,
il Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a
tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970,
norme sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr.
303/56.
Quanto
all’INTERPRETAZIONE GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto
centrale di riferimento relativamente al primo capo d’imputazione,
considerato come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e
conseguono le singole imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a
tale norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando
come insussistente il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente
procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi
dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione
penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in
materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art.
2087 c.c., norma di chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni
normative espressamente previste nello stesso capo d’imputazione.
E
rispetto alle condotte individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati
i fatti specifici ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno
costituito violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi
consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato
dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei
molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento
della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.
Si
sostiene preliminarmente in ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale
reato, che la motivazione dell’impugnata sentenza dimostra un’evidente
incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero impianto logico su cui è
costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre inizialmente essa nega la
configurazione del reato dal punto di vista oggettivo, soffermandosi sulla
natura e sulla nozione dei concetti di “impianti”, “apparecchi” “segnali”,
sulla locuzione “destinati a”, sull’interpretazione del termine “collocati”,
successivamente sostiene, in contraddizione con quanto poco prima affermato,
che non vi è stata alcuna consapevole volontà da parte degli imputati di
omettere quelle stesse condotte che tuttavia aveva negato essere esistenti sul
piano oggettivo (“di astenersi dal
collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di
rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).
Circa
l’ASSERITA INSUSSISTENZA DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta
che il Tribunale abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente
rigorosissima - quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in
giurisprudenza - della previsione normativa e della sua applicabilità in
concreto. Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio
giudicante, verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta
ogni qual volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il
reato di cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con
l’affermazione “…la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è
caratterizzata sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi
particolare serietà” (pag. 459).
E
facendo tesoro di quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la
sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso
vigore che le condotte omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee
alle nozioni espresse dalla norma
penale in questione. Si osserva invece
da parte dell’appellante che l’art. 437 c.p.
trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento
negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto
della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive.
Dunque è dalla Carta costituzionale che derivano,
concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della normativa
speciale che in questo processo sono
state enucleate e circoscritte,
quanto al primo capo d’imputazione, nei D.P.R. 547/55, 303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre
che nelle norme derivanti dai
contratti lavoro.
Tali
norme speciali, che il Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte
secondo l’appellante che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una
disposizione di carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che
costituisce il “cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R. 547/55 e
dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme
che sono l’una lo specchio dell’altra: esse contengono il principio
imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni
misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro
possano essere poste in pericolo e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei
lavoratori l’oggetto centrale della tutela posta dall’art. 437 c.p., che
interviene con al sanzione ogni qualvolta vi sia una volontaria violazione
degli obblighi imposti a tali fini dalle norme speciali.
La
norma di cui all’art. 437 c.p. è dunque diretta ad anticipare – reprimendo
la condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela rispetto all’effettiva lesione del bene protetto,
imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare
ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività
economica.
Il
Tribunale invece, ne ha inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e
arbitrariamente voluto restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una
elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma
penale, ad escludere dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p.,
e quindi dalla possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il
profilo oggettivo:
a)tutti
quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte
omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non
rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel
concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);
b)tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata
individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non
correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag.
460-461);
c)tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità
operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica (pag.
461).
In realtà,
secondo l’appellante, la stessa dottrina più accreditata in materia e la
costante giurisprudenza sostengono unanimemente il principio di carattere
generale secondo cui l’interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale
della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi
tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma. Richiedendosi solo,
secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il comportamento
dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o danneggiamento di
apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione di infortuni in
relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone essa stessa le
condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I 2.3.1983).
Quanto dunque al
primo assunto (a), il Tribunale, per negare l’attribuibilità delle condotte specificamente
contestate agli imputati, concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”,
senza avvedersi che proprio quelle condotte che sono state contestate in questo
giudizio hanno tutte un comune denominatore, costituito dall’essere state
dirette a vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio
dell’attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e
dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione
prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che
costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa
attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di
lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata
adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.
Quanto al
secondo assunto (b), gli addebiti liquidati dal Collegio come “generici” o “non
correlabili” (le condotte omissive relative al blocco degli impianti, al
risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più
soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei
lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione
dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla
sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano nell’istruttoria
dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di luogo e di tempo, ma
è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare corrispondenza nella
fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli addebiti mossi
sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni che nel capo
d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta) dagli imputati:
in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due D.P.R. in tema di
sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della legislazione
speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le condotte
doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art. 2087
c.c.
Nello specifico, il P.M., lamenta poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM
solo l'angiosarcoma epatico, il fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi
rari casi di epatopatia, escludendo qualsiasi altra patologia, in maniera
estremamente contraddittoria, ha chiuso completamente gli occhi di fronte ad un
dato storico e processuale
incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico
generale ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche
di organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il
fegato e per i polmoni: natura
tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.
L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in
fatto, in quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e
nazionali (quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale
natura tossica del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità
del CVM. E persino gli organismi
d’origine industriale, statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla
tossicità del CVM e poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un
cancerogeno totipotente, fin dal 1974.
La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra
parte pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale,
che costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza
sulla tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro
acquisiti interrogatori in sede di
indagine preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario
Montedison di Porto Marghera, dottor
Salvatore Giudice, che in un documento
agli atti del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal
CVM e che in aula ha detto
tranquillamente che, giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM
era un epatotossico.
Procede poi il P.M., con citazione di specifici brani della
sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi della situazione degli
impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti, obsoleti e inadeguati
alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e sostenendo che la sentenza
assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente riformata per i seguenti
principali motivi:
- omessa valutazione di fatti e dati offerti all’esame del
Tribunale, così come emergenti dalla documentazione acquisita presso Enichem e
Montedison;
- omessa valutazione degli stessi dati, così come esposti e
provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e delle parti civili;
- incomprensibile e comunque immotivato appiattimento sulle
posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e Montedison, dei quali sono
riportati pari pari in sentenza interi brani tratti dalle loro relazione
tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica (nemmeno negativa) di
quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M., dalle parti civili e
dai loro consulenti;
- deformazione e travisamento delle dichiarazioni dei
testimoni assunti in dibattimento;
utilizzazione di dati di fatto completamente sbagliati, ma
tratti pari pari dalle memorie della difesa.
Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui
parte (e a cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al
fatto che MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo
cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per
garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata
fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di
disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però
una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di
considerazioni, soprattutto di fatto.
Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato
quello di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore
“tossicità” e trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.
Infatti, la
tossicità del CVM è emersa fin dagli anni cinquanta e da quell’epoca gli
impianti dovevano adeguarsi alla normativa e tutelare la salute dei lavoratori.
A ciò va aggiunto il fatto che anche il rischio cancerogeno è emerso
durante gli anni sessanta, comunque ben prima del 1974 e quantomeno dal 1969
con gli studi del prof. Viola.
L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia,
pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro
contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico
mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse
modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione
esaminata dal C.T. prof. Nardelli.
Procede poi il P.M., con la consueta tecnica di citazione di
specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi
delle
singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si
sostiene, non ritenute dal Tribunale.
Si precisa in particolare l’indicazione e l’illustrazione
dei fatti che concretamente si contestano agli imputati, ognuno per il periodo
di rispettiva competenza, sostenendosi che:
1.VENIVA OMESSO
QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo) DEGLI IMPIANTI, in particolare di quelli più
obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e richiesto
dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977), nonché dalla
mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto del 1975,
mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva in data 19
agosto 1975.
2. VENIVA OMESSO DI
PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI DI SICUREZZA
DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO
PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA, NONCHE’
NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E MALATTIE (ANCHE
GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi
componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).
3. VENIVA OMESSO IL
SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI IMPIANTI DA UN
LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO CONTINUO
DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova del
12.3.1977)
4. ANCORA PIU’ IN
PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN IMPRUDENZA,
NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C. – ARTT 236
CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391
D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59 DEL D.P.R.
19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE
MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA
TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI
LAVORATORI.
5. PER AVER INSERITO
(o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o poliennali) DI
INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN MANIERA
SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLA
NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM, DI
1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO
(reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di
investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di
Venezia).
6. PER NON AVER
CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI PROTEZIONE
INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle autoclavi, dei
serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di strippaggio, degli
essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero, nonché all’essiccamento
e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI
GAS.
7. PER NON AVER
PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO PRODUTTIVO
(comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento, trasporto,
carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO, COMPRESO IL
LABORATORIO.
8. PER NON AVER
SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE ALL’ESTERNO DEI
LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A PERDITE ANCHE
STRAORDINARIE DEI GAS.
9. PER NON AVER
DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A RISCHIO CVM DEI
LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui spostamento era stato
indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977 dell’Istituto di
Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.
10. PER NON AVER
REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE, ALLE
SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si parlava di
“situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un intervento
globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che garantiscano per
il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai”.
11. PER AVER CREATO,
ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA E UN SERVIZIO
MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON
E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLE
NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE SANITARIA GENERALE E
PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO STABILIMENTO PETROLCHIMICO
e, in particolare, delle varie centinaia di dipendenti addetti alla lavorazione
e trattazione in qualsiasi maniera del CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle
società cooperative che lavoravano in appalto all’interno dello stabilimento,
entrando in contatto con il CVM-PVC.
12. PER NON AVER
FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI DI PORTO
MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN ORDINE ALLA
NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL DICLOROETANO (fin
dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI EMISSIONE IN ARIA (sia
all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON A SEGUITO DI PRESSANTI
RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al 1977 e al 1980) generate
dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e dai loro rappresentanti
di fabbrica e sindacali.
13. PER NON AVER
MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI INQUINANTI
IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER MODALITA’ DI
ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI, DI GAS E
DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra cui le fasi
di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica, pulizia dei
filtri, insaccamento del polivinilcloruro.
14. PER NON AVER
REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE DEGLI
ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA
GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI
GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.
15. PER NON AVER
TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI RILEVAZIONE IN
CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN TUTTI I REPARTI LE
FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal 1972) E DI
DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI SINGOLI POSTI DI
LAVORO.
16. PER AVER
COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD UTILIZZARE
GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE LA
TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI FUGA,
NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO, GASCROMATOGRAFI
E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN CONTRASTO PURE
CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 – E CON IL
D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE, con particolare
riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno fino al 1989, era
necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM sull’intera linea
in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di sistemi di
monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo ed alla
pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.
Ripropone poi il
P.M. l’elenco dei lavoratori del Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli
addetti alle autoclavi, all’insacco e all’essiccamento del PVC, colpiti da
diversificate patologie. Elenchi che durante la requisitoria erano stati
proiettati sullo schermo e che,
secondo l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di
singolare epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in
questione.
Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha
considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano –
tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo dovuto
riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il Tribunale
non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le conseguenze, non
avendo valutando la massa imponente di dati storici ed oggettivi attestanti il
pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso concretizzatosi con
numerosi casi di malattia e di morte.
A sostegno di tale motivo l’appellante richiama
l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche
portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi
dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà
processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione,
più che in ogni altra, si rinviene
una sbalorditiva concentrazione di errori, di contraddizioni in punto di fatto,
di omissioni evidenti, di vere e proprie distorsioni ed alterazioni della
realtà processuale emersa nel corso
del dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come
nelle altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi
eseguiti sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione
accoglie in toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le
risultanze documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note
“commesse”. Si ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite
dall’accusa, distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.
Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si
concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende,
elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle
procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la
sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro
costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile:
errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e
procedure solo perché progettati dalle singole commesse.
Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o,
anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per
l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse.
Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di
primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.
Si citano dunque nell’atto di appello i passi della
sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e
contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il
contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale
quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti;
quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi
accolta dell’efficienza degli impianti.
Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti
testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella
stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza
impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.
Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza
di primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle
posizioni riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.
Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni d’accusa mosse agli imputati che
fanno riferimento alla categoria degli operai addetti all’insacco.
1. Con particolare riferimento agli insaccatori soci delle
cooperative in appalto, osserva l’appellante come il Tribunale, dopo aver
escluso la sussistenza di una relazione causale (o concausale) tra le
patologie respiratorie che hanno colpito tale categoria di lavoratori e
l’ esposizione dei lavoratori alla
polvere di PVC, riconosce comunque che
vi è stato, da parte di Montedison, l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei
soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra le condotte contestate nel capo di
imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso riferimento normativo nell’obbligo del datore di lavoro “di disporre ed esigere che i lavoratori
usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955
n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il
lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con
l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie
a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas,
polveri o fumi nocivi”.
E così il Tribunale, mentre:
- da un lato riconosce
l’applicabilità degli obblighi di cui alla citata normativa
antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a tutela dei soci lavoratori delle cooperative – in
evidente applicazione degli artt. 3, 2
comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56, nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta
committente, che determina la responsabilità della ditta committente – Montedison - per eventi di malattia o morte che
colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente, riconosce che questa categoria di lavoratori (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori
dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni
pericolose” e che la polvere di PVC era a tutti gli effetti
“nociva;
si pone poi in evidente contrasto – con conseguente vizio
della sentenza sotto tale profilo – con
quanto dallo stesso assunto in altre parti della decisione laddove ritiene la “non pericolosità” della polvere di PVC e l’ insussistenza di
situazione di alta polverosità degli ambienti di insacco (che, se
insussistente, avrebbe esentato i
lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere) ed anzi assume che
Montedison ed Enichem avrebbero predisposto tutti gli accorgimenti e gli interventi idonei ad evitarla.
Tanto, nonché l’omessa valutazione delle ulteriori
specifiche contestazioni rende
viziata, secondo l’appellante, la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del
PVC – sia in quanto “polvere” in sé
(cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56) sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il
riferimento, seppur implicito, all’art. 387 ) - non si poteva non rilevare la palese violazione degli
altri obblighi contestati nel
capo di imputazione.
2. Palese poi, secondo l’appellante, la
violazione dell’obbligo di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici
cui erano esposti…” (cfr art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e 5 DPR 303/56), violazione contestata
all’ultima riga di pag. 6 del capo di imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti delle
ditte..”).
Al riguardo sostiene l’appellante che intanto sicuramente
esistente, in forza delle evidenze processuali fondate sulle relazioni dei
consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto specifico, era il
rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato respiratorio dei
lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in capo ai dirigenti
Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:
- dalla doverosa
conoscenza della normativa vigente (il DPR 303/56, art 21 , impone, ad
esempio, al datore di lavoro di evitare
il contatto e/o di ridurre la
dispersione delle “poveri in genere” mentre
l’articolo 33 e la tabella richiamata prevede l’obbligo di effettuare
visite trimestrali nei confronti di lavoratori addetti all’impiego del cloro e
dei suoi composti);
- dalla conoscenza certa sin dagli anni cinquanta e sessanta
che all’interno del polimero, in particolare nel PVC in sospensione, erano inglobate molecole di CVM, come è
confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa avrebbe negli anni ‘76
e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio proprio per prelevare
queste molecole di CVM;
- dai rilievi svolti dai singoli operatori che accertavano,
contrariamente alle rilevazioni
dell’impresa, che la presenza di CVM nei locali addetti all’insacco era particolarmente consistente;
- dalla scheda della Montedipe numero 336 del 05/07/85 in
cui il PVC viene definito “tossico acuto per inalazione” e che - si dice-
“induce alterazione al sistema respiratorio”;
- dalla consegna ai lavoratori (solo quelli dipendenti) del
dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti, per evitare l’ingestione
delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale da parte dei lavoratori
del CVM-PVC;
dal fatto che nel 1967 vennero pubblicati, come detto, sulla
Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle indagini sui granuli del PVC
svolte da Montedison.
Di converso la contestata violazione dell’obbligo di
informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:
- dai contratti di appalto
con le varie Cooperative, dove non vi è cenno alcuno al rischio
specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di PVC e dal CVM nella
stessa contenuto come monomero residuo;
- dalla lettera del
maggio del 1984 con la quale il dott. Clini
chiedeva a Montedison, Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa
Facchini Tessera, i motivi per i quali non sono stati comunicati al suo
servizio i nominativi dei lavoratori delle cooperative per la tutela sanitaria;
- dalle
testimonianza dei testi Barina,
insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda
che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle
cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato
della pericolosità del PVC e del CVM in
esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86, ma
non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che
non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere indirettamente dai dipendenti; Giacomello,
che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della
difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative
erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.
Connesso al predetto obbligo sarebbe poi quello del
committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida l’opera sia soggetto non
soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla legge, ma anche della
capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di lavoro che gli è stato
affidato. E anche in riferimento a questo obbligo vi è, secondo l’appellante, il fondato dubbio che, nel caso in
esame, vi sia stata una violazione di legge.
3. Risulta,
ancora, provata la violazione
dell’obbligo del datore di lavoro
e committente dei lavori in appalto di
“adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la diffusione
della polvere” (art. 21 comma 1 DPR
303/56 ) e di “ove non sia possibile
sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare procedimenti
lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta
delle polveri…” “…vicino al luogo di
lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare nell’ambiente di
lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel capo d’imputazione
con specifica contestazione.
Al riguardo, ricordate le tecniche di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in
“emulsione”, adottata presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in
“sospensione” adottata presso gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il
P.M. l’assunto del Tribunale secondo il quale la polverosità dell’ambiente
conseguente alla polimerizzazione in sospensione sarebbe migliorata dopo i
primi anni settanta, affermandosi invece che tale miglioramento e adeguamento
impiantistico sarebbe sconfessato da ben 7 testi, e perché gli interventi
tecnici realizzati sarebbero comunque o tardivi o inutili, onde la valutazione
del Tribunale sarebbe oltre che erronea frutto di travisamento dei fatti
emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e ricorda l’appellante le
testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle asseritamente travisate.
E così fondata sarebbe
l’accusa di “aver omesso le misure quali …. il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai…” e “di non aver tempestivamente installati
gascromatografi o altri strumenti di rilevazione in continuo” negli ambienti di
insacco.
Sarebbe infatti dato indiscutibile che gli ambienti dove
veniva svolto l’insacco non sono mai
stati ricompresi tra le “zone
sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre sul punto nulla
dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché la presenza di CVM residuo nel PVC in
emulsione sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il
P.M., non starebbero così in quanto nell’apice
del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente una notevole quantità di CVM residuo,
CVM che si libera in ambiente dagli
sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive
apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi che i
bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del
periodo 1987 - 1989 e quindi assai
recenti ( nulla ci dicono della
presenza del CVM in epoca anteriore) e
che il
teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si
riscontrava con gli apparecchi di rilevazione presso il magazzino PVC o CV7 era “di
base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva imporre il
monitoraggio continuo in tali ambienti.
4) E’ Fondata,
ancora, per il P.M., la
contestazione “di aver creato organizzato e mantenuto all’interno dello
stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un servizio sanitario del tutto
insufficiente rispetto alle necessità di prevenzione e di controllo della
situazione generale e in particolare dei dipendenti delle cooperative che
entravano in contatto con CVM e PVC”.
Lamenta l’appellante che sul punto il Tribunale nulla assume, nonostante fosse pacifico che
i soci delle cooperative, dalle misure sanitarie praticate agli altri
lavoratori, periodicità dei controlli normativamente previsti per gli addetti a
produzioni nocive e ai lavoratori del ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56),
sono sempre stati i grandi esclusi, fatto comprovato in atti testimonialmente.
Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai
lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito
il Giudicante di primo grado.
Secondo il P.M. i dati certi che si traggono dalle
dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal Giudicante di primo
grado, sono due.
Innanzitutto, i
testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria,
eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente
svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche
quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di
reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con
conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.
In secondo luogo, i
lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla manutenzione
intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei reparti senza,
tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta esposizione ai gas
tossici fuoriusciti.
Sul punto poi si
ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo sull’utilizzo
anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione personale, richiamando
testimonianze al riguardo.
Ne deriverebbe come
inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei lavoratori addetti
alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di personale adibito
agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti, ivi compresi anche
quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso Giudicante di primo
grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa sospensione degli
impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento a seguito di
fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte le sostanze
nocive prodotte nei singoli reparti.
Conclusioni che
sarebbero conformi a quanto
risultante dalle matrici mansione-esposizione pubblicate dai dott. Comba e Pirastu e altri (“La mortalità dei
produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav. 1991) sulla base di dati
forniti dall’azienda. E conformi altresì alle risultanze d’origine aziendale
della “Legenda dei reparti con esposizione diretta e/o indiretta degli addetti
ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri agenti tossico nocivi presso il
Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente agli atti del procedimento,
legenda secondo la quale i lavoratori addetti a interventi manutentivi su
impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro relativi a tutte le
lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti all’esposizione di tutti gli agenti tossico nocivi presenti nei
reparti frequentati. Ed altresì
conformi alle indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti
lavoratori nel cd. “Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco
serbatoi, le manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della
lettera datata 12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini,
discussa all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra
gli esposti. Lamenta poi l’appellante un’altra grave omissione addebitabile al
Tribunale, al quale era stato rappresentato, chiaramente e documentalmente, che
dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano stati assegnati ai reparti CVM
–PVC decine di nuovi operai. Per costoro, quindi, l’esposizione al CVM-PVC
iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro persino dopo il 1973.
Rilievo, questo, che si assume importante in
quanto:
- secondo
l’accusa, la cancerogenicità del CVM venne segnalata ufficialmente al
mondo intero in occasione del Congresso internazionale di Medicina del Lavoro
di Tokyo del settembre 1969, a
seguito delle vicende del Prof. Viola;
- secondo il
Tribunale, l’epoca scriminante relativamente alla conoscenza della
cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno 1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.
Ciò significa che, dal punto di
vista della conoscenza sulla
cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto del Tribunale sull’inizio
dei consequenziali obblighi per l’imprenditore, andavano in ogni caso,
esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei lavoratori:
- con inizio
esposizione successiva al 1969 (accettando l’impostazione del P.M.);
- con inizio
esposizione successiva al 1973 (accettando l’impostazione del Tribunale).
Ma i
Giudici di primo grado non hanno fatto né una cosa né l’altra.
Per
contro, nel riproporre i relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una
analisi particolareggiata quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo
stesso Tribunale aveva riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed
epatopatie).
E
meritava un’analisi, anche semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano
iniziato ad essere esposti dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il
Tribunale – ormai tutti i precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC
sarebbero stati risolti.
In
particolare, si cita il caso di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma,
assunto nel 1981 ed andato in cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato):
morto dopo aver lavorato per MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.
Ma
nemmeno lui, rimarca l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale,
nemmeno una riga sulla sua particolare situazione.
Anche
per questi motivi, ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere
radicalmente riformata.
Rimarca
poi ancora l’appellante la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe
operato, con USO DISTORTO DELLE
DICHIARAZIONI TESTIMONIALI, una
errata ricostruzione dei fatti storici oggetto della presente vicenda
processuale estrapolando, dalle deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel
corso del dibattimento, solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze,
mirate alla decisione di cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei
criteri di selezione, scelta e valutazione adottati.
E
cita al riguardo, a titolo esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI
Danilo, GIUDICE Salvatore, ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a
diversa valutazione rispetto a quella avvalorata dal Tribunale.
Circa
i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’,
il P.M. appellante, premesse alcune considerazioni che troverebbero
giustificazione a seguito della sentenza
n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il
pilastro dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata
commette gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che
riguardano sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado
dell’istruttoria dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa
interpretazione giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte
agli imputati e agli eventi di reato che ne sono conseguiti.
Osserva in
particolare: che la sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte, dirimente un
contrasto interpretativo sorto in seno alla sezione IV dello stesso giudice di
legittimità, pur riguardando un caso di responsabilità per attività
medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa pronuncia afferma
espressamente – anche ai settori delle malattie professionali, delle
alterazioni ambientali e del danno da prodotto.
Nello specifico
settore delle malattie professionali si ritiene che essa si attagli
precipuamente al caso oggetto della presente vicenda processuale.
L’imprescindibile
riferimento ad essa consente, inoltre, di affermare la valenza della tesi
sostenuta dall’accusa, in particolare di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre
in sede di replica della propria requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001
sulla questione giuridica del nesso causale.
Nel contempo, la
pronuncia citata permette di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza
impugnata.
Premette al
riguardo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – per usare le stesse
parole della Corte - sono state chiamate a dirimere un conflitto interpretativo
che non riguarda lo statuto condizionalistico e nomologico del rapporto di
causalità, riguardando invece il contrasto giurisprudenziale a causa del quale
è stato chiesto l’intervento delle Sezioni Unite la concreta verificabilità
processuale di quello statuto, ovvero la individuazione dei criteri di
determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione
causale.
E rivendica il P.M.
che già in sede di replica nel giudizio di primo grado, seguendo un
ragionamento logico analogo a quello che oggi si ritrova nella sentenza delle
SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle varie e diversificate pronunce della
giurisprudenza di legittimità in tema di causa penalmente rilevante, si era
soffermato sulla necessità di definire e precisare meglio il concetto di
grado di probabilità. Aveva fatto riferimento a questo proposito alla
sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che riteneva sufficiente un grado di
probabilità pari al 30% per ritenere sussistente il nesso causale tra la
condotta omissiva del medico e l’evento lesivo. Ma solo come riferimento di
minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo per considerare che lo stesso
concetto veniva ripreso da una sentenza di 10 anni dopo, il 17.9.2001, a
ridosso della conclusione del primo grado di questo processo, sentenza che era
in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta sezione (estensore
Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di probabilità.
Errerebbe quindi
la sentenza impugnata laddove, inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero
affermazioni di stretto diritto che non ha mai espresso, attribuendogli del
tutto arbitrariamente “orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo
del nesso causale istanze di prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle
conclusioni cui giunge in tema di spiegazione del nesso causale.
Al riguardo,
ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale
compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le
spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla
legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un
modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico
contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e
interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di
spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di
inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione
logico-probabilistica” (pag. 145).
E questo modello –
continua – è quello assunto dagli orientamenti giurisprudenziali più recenti.
Questo è il
modello, secondo il Tribunale, che consente di spiegare l’indagine causale
nell’ambito delle scienze cui si è fatto ricorso nel processo che ci riguarda
(epidemiologia, biologia molecolare, tossicologia, medicina legale).Continua,
ancora, il Tribunale sostenendo che il ragionamento del medico-legale è
tipicamente induttivo: muove da un fatto concreto (l’evento) per risalire al
fenomeno che lo ha determinato (la causa) e questo ragionamento, anche se
fondato su osservazioni di valore statistico-probabilistico, può fornire
apprezzabili e rigorosi risultati (pag. 146).
E precisa ancora
che il rigore metodologico e epistemologico con cui le scienze conducono le
loro indagini, la potenza dei risultati raggiunti per l’ampiezza di uno studio,
il grado di consenso ricevuto nella comunità scientifica, la coerenza dei
risultati raggiunti nelle diverse scienze, sono tutti elementi necessari a
propendere verso la certezza dei nessi sia nella causalità generale che nella
causalità individuale (pagg. 146-147).
Può accadere
tuttavia, prosegue il Tribunale, che nonostante siano le scienze e il loro
metodo scientifico a consentire di spiegare le inferenze causali, nonostante ci
sia validazione degli stessi risultati scientifici sulla base dell’accettazione
generale da parte della comunità scientifica e delle verifica empirica mediante
il controllo dell’ipotesi attraverso la confutazione, nonostante vi sia coerenza complessiva del risultato raggiunto
attraverso il confronto con altre discipline e la verifica delle conclusioni
raggiunte nel loro progressivo evolversi, nonostante tutto ciò può accadere che
rimanga l’incertezza scientifica.
A questo punto,
di fronte all’incertezza scientifica non resta che ricorrere – conclude il
Tribunale – alla regola di giudizio che la responsabilità deve essere
provata oltre il ragionevole dubbio,
“regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento” (pag. 148).
Conclusioni,
queste del Tribunale, ribadisce l’appellante, erronee che non possano essere
accettate. Ciò prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle
SSUU della Corte di Cassazione, dal quale ogni giudice di merito da oggi in poi
non può prescindere.
Sostiene infatti
il P.M. che le Sezioni Unite non assumono affatto il modello causale invocato
dal Tribunale di Venezia. Al contrario, esse aprono la via per chiarire in
questa sede come nel processo che ci riguarda il Tribunale sia caduto in un
errore fondamentale e irrimediabile.
E così ritiene
di schematizzare il P.M. il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:
il processo penale,
passaggio cruciale e obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato,
è sorretto da ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono
dal fatto storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della
conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da
ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;
1)
lo stesso modello condizionalistico
orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via
deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli
antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;
2)
il giudice ricorre, invece, nella
premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”,
presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno”
non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità
l’impiego della legge stessa;
3) non potendo conoscere
tutte le fasi intermedie attraverso cui la causa produce il suo effetto, né
potendo procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi,
il giudice potrà riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in
partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento
soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da
escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale;
4) ove si ripudiasse la
natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse
comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo,
secondo criteri di utopistica “certezza
assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del
diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni
primari;
5)tutto ciò significa
che il giudice è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni
canoni di “certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità
enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica”
o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.
A questo punto
si può già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta
dal Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi
espressi dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità.
“….Non è
sostenibile – afferma la C.S. – che si elevino a schemi di spiegazione del
condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle
statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè
alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e
omessa rispetto al singolo evento”.
E qui, si
sostiene, il punto cruciale: “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di
probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica,
impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che
della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che
anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo
le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la
sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del
necessario nesso di condizionamento. (pag.15)
Viceversa,
livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da
leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra
eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi,
pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo,
insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse,
controllandone quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e
all’evidenza disponibile.
Ecco
allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal
principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza
impugnata sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole
dubbio, ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo
ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è
in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite
raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va
provata oltre il ragionevole dubbio.
Il Tribunale si
è fermato al riscontro scientifico (peraltro, in maniera del tutto incompleta e
contraddittoria, come si è visto e come si vedrà) e non ha valutato il
riscontro probatorio dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di
verificare i dati delle scienze con i riscontri probatori del processo.
Sostiene il P.M.
che mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in
presenza di una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere
risolto secondo la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni
Unite una legge statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di
copertura se corroborata dal positivo riscontro probatorio.
Sostiene
il P.M. che la tesi sarebbe erronea sotto
molteplici punti di vista.
Innanzitutto
è quantomeno illogica - oltre che
contraria al dettato normativo - l’affermazione apodittica secondo cui “ciò che
non è causa non può essere concausa”, dal momento che si risolve in una
confusione di concetti.
E’
evidente, infatti, che l’art. 41 del codice penale, nel disciplinare il cd.
concorso di cause, ha per oggetto (al primo comma) distinti fattori ciascuno
dei quali - per definizione - è, da solo, privo dell’efficacia causale che si
determina, invece, proprio per effetto del concorso di tutti.
Di
norma, infatti, secondo il P.M. che richiama sul punto dottrina e
giurispridenza, il fenomeno delle concause si verifica con riferimento a
fattori che sono, da soli, privi della capacità di determinare un evento il
quale, invece, si produce necessariamente grazie al contributo sinergico di due
o più fattori concausali (la sentenza citata, Cass., sez. IV, n. 7617 del
31/10/1973, parla di situazione di interdipendenza tra due fattori che, da
soli, sarebbero privi di efficacia causale “non potendo nessuna di esse,
disgiunta dall’altra, causare l’evento”).
Tale
pronuncia evidenzierebbe secondo il P.M. proprio il fenomeno trascurato dal
giudice di primo grado: l’interdipendenza tra esposizione a CVM ed altri
fattori (per la verità spesso preesistenti e/o concomitanti), quali il consumo di
alcool e di sigarette da parte degli operai deceduti per tumore al fegato ed al
polmone.
Sostiene
il P.M. che nessuno potrebbe dire che, nel procedimento penale in questione,
sia stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati cagionati
esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone erano
stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori
deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di
sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM. Dunque, in
nessuno dei casi esaminati dal Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere
considerati, ai fini della corretta applicazione della legge penale, concausa
sopravvenuta degli eventi. Eppure, nonostante
tale indiscutibile evidenza probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto
dispensato dal dover svolgere
quell’accertamento sul tema della rilevanza concausale
dell’esposizione a CVM che l’accusa aveva prospettato, avendo postulato quell’apodittica ed erronea
affermazione di ordine generale secondo cui
la mancanza dell’idoneità causale rende, per ciò solo, il fattore
inidoneo ad essere concausa di un evento. Ed in tal modo sono state ignorate
circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto essere valutate
con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema.
In
particolare, erano stati dimostrati i ritardi e le omissioni in relazione agli
spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori, che, in passato, erano stati
esposti ad alte concentrazioni di CVM.
In
casi del genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il
profilo concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio
anche in relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della
malattia, così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in
particolare i medici Bracci, Rodriguez,
Bartolucci e sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente,
evidenziato.
Al
riguardo osserva il P.M. che il tema dell’accelerazione della malattia
derivante dal prolungamento dell’esposizione
è ben noto alla giurisprudenza, avendo di regola costituito tema di
approfondimento specifico nelle più importanti vicende di malattie
professionali. E sul punto rinvia alle considerazioni, ad esempio, svolte dal Tribunale di Casale Monferrato 30/10/1993, in cui si
legge (sia pure in tema di malattie professionali da amianto, ma -per il P.M.-
non vi è alcuna ragione – né logica, né scientifica, né normativa- per
sostenere – come fa il Tribunale – che i criteri di valutazione del nesso
causale per le patologie derivanti da esposizione da amianto dovrebbero essere
diversi da quelli da seguirsi nella presente vicenda processuale):“Con
riferimento ai tumori professionali si è rilevato in giurisprudenza che,
allorchè la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo l’innesco biologico di
una malattia professionale costituisce causa certa di aggravamento, deve
affermarsi il rapporto di causalità fra tale prosecuzione e l’evento delle
lesioni o dell’omicidio colposo del lavoratore”.
Il
P.M. conclude dunque sul punto sostenendo che il grave errore giuridico
compiuto dal Giudice di primo grado a proposito della ricostruzione del nesso
causale ha, così, irrimediabilmente condizionato la sua valutazione, allorquando
si è trattato di considerare profili specifici e particolari della causalità
come, per l’appunto, il descritto tema del contributo concausale del CVM
(insieme ad altri fattori quale alcool e fumo) in relazione sia all’insorgenza
che allo sviluppo ed all’accelerazione delle patologie tumorali (tumori al
fegato ed al polmone), in ordine alle quali è stata pronunciata l’assoluzione
degli imputati per insussistenza del fatto. Inoltre, a questo grave errore
giuridico sia è aggiunta un'altra grave omissione, di fatto: quella di non aver
per nulla considerato nè trattato le relazioni tecniche depositate e le
dichiarazioni in aula dei CC.TT. del P.M. (Prof. Vineis - Comba - Pirastu),
proprio sulle interazioni CVM-alcol e CVM-fumo.
Infine,
sostiene il P.M., il Tribunale si è completamente dimenticato della distinzione
tra patologie monocausali e patologie policausali, distinzione ribadita
ampiamente dal P.M. in sede di replica, distinzione ben nota anche ai
consulenti tecnici di Montedison, prof. Fornari e prof. Colombo. Il primo,
infatti, aveva parlato espressamente in aula di tumori policausali e il secondo
aveva definito in aula la concausa come “la contemporanea presenza di due
fattori noti e documentati per dare malattia epatica” e “mutatis mutandis”
malattia dell’apparato respiratorio.
E non
vi può essere dubbio che affezioni epatiche e affezioni polmonari possano
essere causate sia dal CVM-PVC, sia da fumo/alcol.
Anche
in forza di tali argomenti e doglianze, dunque, l’appellata sentenza andrebbe
riformata.
L’appellante
peraltro, nel contesto dei motivi relativi alla problematica della causalità
lamenta altresì che il Tribunale abbia prospettato una tesi, ancora una volta
sbagliata, sia dal punto di vista fattuale che da quello giuridico, portando a
paragone i meccanismi di azione del cloruro di vinile e dell’amianto, che
ritiene non assimilabili, onde se per quanto riguarda l’amianto “…il
verificarsi del mesotelioma piuttosto che dell'asbestosi, può correttamente
ricomprendersi nell'evento pur dall'agente non rappresentatosi tipicamente ma
prevedibile come conseguenza dannosa dell'inosservanza di norme cautelari
comuni”, per quanto riguarda invece il cloruro di vinile, “…non è accettabile
un’applicazione di tale orientamento per estrapolazione dall'amianto al
CVM-PVC, non essendovi alcuna correlazione o progressione tra la patologia nota
(Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma) causata dal CVM”.
Le
argomentazioni e conclusioni del Tribunale sarebbero per il P.M. appellante
arbitrarie, sostenendosi invece, previo excursus sul meccanismo cancerogeno
dell’amianto con richiamo e citazione di letteratura, che il mesotelioma non va
ritenuto complicanza dell’asbestosi e che non è vero che i meccanismi d’azione
dell’amianto sarebbero noti, onde se non è posto in dubbio, neppure dal
Tribunale, che l’amianto provochi il mesotelioma pleurico, non si vedrebbe
perché questo discorso non debba valere anche per il CVM-PVC e perché non sia
possibile sostenere, come per l’amianto, che la mancata conoscenza certa di
tutti i meccanismi d’azione (che possono essere plurimi) del CVM-PVC nel
cagionare ad esempio il tumore del polmone non può e non deve incidere sulla
attribuibilità al CVM-PVC pure di
questa forma tumorale, risultando peraltro evidente il parallelismo con i
diversi, ed intercorrelati, meccanismi di cancerogenesi dell’amianto.
Ne
conseguerebbe, secondo il P.M., che, sia alle malattie professionali da amianto
che a quelle CVM-PVC, va applicata la medesima normativa (a partire dalle leggi
speciali a tutela dei lavoratori in vigore dagli anni cinquanta), così come per
entrambe le patologie vanno applicate le medesime categorie interpretative, a
partire da ogni discussione in materia di nesso causale.
Passa
quindi il P.M. ad analisi dettagliata dei presupposti che per l’appellante
fanno ritenere sussistente il nesso di causalità in questione, per la gran
parte negato dal Tribunale, e lo fa seguendo passo passo, pagina per pagina,
come dallo stesso preavvertito, la motivazione della sentenza di primo grado,
avvertendo altresì che, in ogni caso, la base giuridica di questo appello è
costituita dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte, di cui si è
discusso poco fa, mentre i presupposti di fatto, storici e scientifici per
giungere ad affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella
disamina delle seguenti parti:
-
epidemiologia e studi epidemiologici;
-
metodologia epidemiologica;
-
studi epidemiologici sul CVM;
-
gli studi epidemiologici a Porto Marghera;
-
la causalità;
- la causalità generale da esposizione a
cloruro di vinile;
-
l’effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto Marghera;
-
cancerogenesi;
-
l’influenza delle esposizioni a basse dosi;
-
cancerogenesi e organismi internazionali;
- le patologie riscontrate a Porto
Marghera: il fegato, il polmone, gli altri organi.
Circa
il primo punto, si pone il P.M. l’obiettivo di evidenziare il modo sbagliato
del Tribunale di trattare il nesso causale intercorrente fra esposizione a cloruro di vinile e insorgenza
in particolare dei tumori epatici (angiosarcoma e carcinoma epatocellulare),
della cirrosi epatica e dei tumori polmonari, attraverso la trattazione di tre
questioni di fondo delle quali lamenta un mancato apprezzamento da parte del Tribunale: a) la distinzione
che è necessario fare tra le valutazioni dell’insieme dell’evidenza di
cancerogenicità di una sostanza
fatta da organismi internazionali e i
risultati di singoli studi, come anche
il diverso significato da attribuire ai
due; b) i fattori che sono alla base e che garantiscono una elevata qualità degli studi
epidemiologici; c) tentativi di ridimensionare le evidenze epidemiologiche relative
alla cancerogenicità del CVM.
Quanto
alla prima questione sostiene l’appellante che le valutazioni dell’evidenza
complessiva ad opera di organismi
nazionali e/o internazionali sono il
risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un gruppo di
esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed esplicitate,
che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche disponibili al
momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di singoli studi
non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono
all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità. Onde non
sarebbe corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le
conclusioni cui era pervenuta IARC nel 1987……… sono state poste in
discussione dagli studi epidemiologici
successivi . In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da
IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti
americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati
rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999)”.
Sarebbe
infatti assurdo e fuori dalla realtà sostenere, come ha fatto ripetutamente il
Tribunale (pag.148-158-159), che le valutazioni di un organismo scientifico
internazionale, che gode della massima stima e del massimo prestigio, come IARC
(o EPA), sarebbero superate. IARC infatti a partire dal 1975 non sarebbe mai
tornata sui suoi passi né avrebbe delegato l’uno o l’altro studioso a compiere
autonomi accertamenti, ed i nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte
del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non
portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un
meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o
riclassificazione) di una sostanza.
Quanto
alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente
viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000
fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in
dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu,
Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.
Quanto
alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le
evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella
letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria
nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello
specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben
pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato
mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente
associato con l’esposizione a CVM.
Passa
quindi il P.M., nell’affrontare le altre parti di cui sopra, all’esame degli specifici
punti della sentenza ritenuti errati in fatto o frutto di una contraddittoria
valutazione. E così, riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene
l’erroneo utilizzo da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di
confidenza diversi per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in
assoluto nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale, che esclude sempre e per partito
preso le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito
richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che “coefficienti medio bassi di pericolosità ….
impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se
corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze
tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio secondo
il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze
sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.
Lamenta
poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle
conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con
riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato
da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta
proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare
relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla
cirrosi.
Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto
Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai
Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera,
oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,
vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in
particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento 1999,
un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano
svolto mansioni di insaccatori, su tali risultati chiarissimi (che
emergerebbero da due tabelle riproposte), ha evitato di fare commenti e
valutazioni, pur dando atto della pericolosità particolare delle mansioni
rispettivamente di autoclavista e di insaccatore.
Anche
per tali omissioni, si chiede la riforma della sentenza.
Riaffrontando nello specifico la parte relativa alla
causalità, il P.M. innanzitutto lamenta
che il Tribunale non ha assolutamente seguito i criteri che egli stesso
aveva richiamato e indicato come i criteri-guida per ogni decisione. Ne
deriverebbe quindi contraddittorietà della motivazione.
Si citano quindi
i quattro criteri fatti propri dal Tribunale nei seguenti:
“1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che
attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e
affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di
ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è
determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o
preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle
sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione
così da raggiungere una "corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro
progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per
accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto ;
3)
la incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento”.
E
si sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da
esposizione a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra
accennato, in merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente
condivisibile l’affermazione del Tribunale relativa “all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche
della idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma epatocellulare e la cirrosi riconoscendo
solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e
con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il
Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto
dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal
P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni. Il
Tribunale non avrebbe fatto nemmeno questo, essendosi affidato in maniera del
tutto acritica alle relazioni dei consulenti degli imputati, riportandone pari
pari le osservazioni e tralasciando le specifiche repliche dei CC.TT del P.M.
Analogamente,
sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale
“tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e
aggiornati, valutati complessivamente,
non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra
CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la
sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti
l'endotelio”.
Nello
specifico delle singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare
gli studi dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle
coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti
come "solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco "
si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività
scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta
esposizione a polveri di PVC è elevata”.
Richiamando
poi ancora i dati in materia, rileva che:
a) Il trend positivo con l’esposizione a CVM nella coorte europea (Ward
2001);
b) L’incremento della mortalità nella coorte degli insaccatori
Montedison-Enichem, che contrasta con il deficit di mortalità per queste cause
osservato nella coorte complessiva;
c) L’assenza di elementi per suggerire un ruolo confondente del fumo di
sigaretta: è ovvio che i casi di cancro polmonare occorsi tra gli insaccatori
siano fumatori (come la quasi totalità dei casi di cancro polmonare in
qualunque categoria professionale); il fatto è che nella coorte degli insaccatori
nel suo complesso non ci sono evidenze di un abnorme consumo di tabacco. Al
Tribunale sfugge la distinzione fra “le cause dei casi” e “le cause
dell’incidenza”, così come sfugge la distinzione fra “individui malati” e
“popolazioni malate” … In assenza di questi essenziali riferimenti scientifici
e culturali, il paragrafo “L’epidemiologia: un primo approccio” (motivazioni,
pp. 29-37) appare del tutto inadeguato a sostenere le successive valutazioni
del Tribunale in campo epidemiologico.
Ed alla luce delle considerazioni di cui
ai tre precedenti rilievi, ritiene il P.M. che i quattro criteri di cui a pag.
142 delle motivazioni, sopra citati, siano adeguatamente verificati e, quindi,
va affermata l’esistenza del nesso causale anche in questo caso.
Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma
a bassa esposizione sostiene
l’appellante che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti
dallo studio europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali,
contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di
angiosarcoma anche a bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale
considerato che era stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un
operaio assunto dopo il 1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del
1974), ed avendo pure rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della
documentazione attestante un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM,
verificatasi negli USA, per bassissime esposizioni: di tale ordinanza, del tutto immotivata, si chiede la nullità e
la conseguente rituale acquisizione della documentazione tramite rinnovazione
del dibattimento.
Quanto
al carcinoma epatocellulare si richiamano ancora gli studi e conclusioni dei
propri consulenti che suggeriscono che “l’esposizione a CVM può essere associata anche con questo
tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni dell’associazione causale
intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma epatocellulare sono state
formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde anche nel caso secondo il P.M.
i criteri di causalità esposti dal Tribunale a pag. 42 siano stati
adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va affermata la
sussistenza del nesso causale.
E
così per la cirrosi relativamente alla quale se è vero che nella coorte
generale di Porto Marghera la mortalità per tale patologia è inferiore
all’attesa, va peraltro rilevato che essa è superiore all’attesa fra gli
autoclavisti.
Osserva poi il P.M.
che nelle motivazioni della sentenza viene in più punti affermato che la coorte
dei lavoratori di Porto Marghera è costituita da soggetti in buono stato di
salute, come mostrato dalla diminuita mortalità per tutte le cause, quando la
coorte viene confrontata con la popolazione residente nel Veneto. Tale richiamo
del Tribunale non avrebbe però portato il Tribunale stesso a valutarne
adeguatamente il significato e le implicazioni. I soggetti assunti al lavoro non sono un campione casuale della
popolazione generale, ma costituiscono un campione di soggetti in buono stato
di salute che desiderano un lavoro. Il gruppo dei soggetti assunti è perciò un
campione selezionato, non rappresentativo della popolazione generale. Quando si
confronta l’esperienza di mortalità dei lavoratori con quella della popolazione
generale residente in Veneto da cui provengono, si riscontra perciò un rischio
di morte. Questa differenza è chiamata “effetto lavoratore sano” ed è una
distorsione di cui tener conto in fase di analisi, proprio perché potrebbe
mascherare (in generale) l’effetto di importanti agenti tossici e nocivi a cui
i lavoratori vengono esposti nella loro vita professionale. Tale distorsione ha
portato erroneamente ad attribuire l’osservata diminuita mortalità dopo il 1974
a diminuite esposizioni ad agenti tossici, mentre questa è una osservazione
spuria: una volta rimosso l’effetto distorcente della selezione all’assunzione,
la diminuzione, non più statisticamente significativa, è di entità assai
modesta.
Per il P.M.,
contrariamente a quanto immotivatamente ritenuto dal Tribunale, ciò renderebbe
possibile rilevare che:
a) non c’è
alcuna diminuzione di rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974,
tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;
b) gli assunti in
anni più recenti non hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si
manifesti una patologia (soprattutto in riferimento a quelle patologie per le
quali il periodo di latenza può essere molto lungo);
c) non vi è
alcuna evidenza empirica che gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato
un vantaggio in termini di salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;
d) i soggetti
esposti nelle mansioni a rischio (autoclavisti e insaccatori) manifestano una
mortalità per tutte le cause aumentata e questo rischio appare crescente al
crescere della durata di impiego nella mansione a rischio;
vi è evidenza
notevole di due particolari rischi
specifici, il tumore polmonare per gli insaccatori e l’epatocarcinoma
per gli autoclavisti, oltre che una evidenza molto elevata anche per la cirrosi epatica.
Nell’esame delle
parti ritenute importanti nell’argomentazione dei motivi d’appello, affronta
poi il P.M. le questioni relative alla “CARCINOGENESI”, pure affrontate dal
Tribunale che però, subito osserva l’appellante, non ne avrebbe compreso il
significato.
Il Tribunale si
sarebbe sbarazzato in fretta della
questione, con due parole, non motivate (a
pag.101) dicendo che il problema è ancora “incerto e dibattuto”, così
abbandonando la stessa linea tracciata dal
prof. Harry BUSCH, presidente di un centro di ricerche sul cancro negli
USA indicato dalla difesa, il quale sull’origine del cancro aveva chiaramente
confermato l’impostazione dei consulenti del P.M., parlando di stabilità
genetica e precisando (controesame del 20.4.99 pag. 88) che “il genoma umano è estremamente stabile”:
a conferma della necessità di alcune alterazioni genetiche affinché una cellula
diventi maligna.
E oltre a “non
considerare” il prof. BUSCH il Tribunale avrebbe citato i consulenti del P.M.
soltanto per le parti che servono a sostenere la tesi assolutoria. Ma le questioni fondamentali trattate
dai CC.TT. del P.M. non sono state né affrontate né eliminate e, quindi, alle
relazioni dei professori Berrino e Colombati si deve fare integrale rinvio, con
particolare riferimento ai numerosi lavori scientifici presentati (e discussi
dal P.M. in requisitoria) a sostegno della origine professionale dei tumori da
CVM non solo del fegato, ma anche degli altri tre organi bersaglio (polmone “in
primis”).
Ripropone poi il
P.M. concetti di genetica molecolare per sostenere altresì che molte delle
disquisizioni della sentenza (da pag 106 a pag 126) sembrano poco rilevanti e
poco appropriata appare l'interpretazione di molti dei lavori scientifici
citati. Fatto essenziale, riconosciuto dalla stessa sentenza, è che il CVM è
cancerogeno. In questo, osserva ol P.M.,
non vi è contrasto di opinioni ed è stata precisamente identificata la
modifica chimica in un gene causata dal CVM, o meglio da un suo derivato.
E prosegue
l’appellante osservando che, chiarito questo, che è il punto centrale per
stabilire le responsabilità di chi ha esposto gli operai del Petrolchimico al
CVM, si può passare ad esaminare la questione della presenza o meno di una
" soglia di sicurezza" per il CVM
e anche per altre sostanze. Al
riguardo richiama quanto detto in aula, e riportato nell’atto d’appello, dal
prof. Maltoni, portato, osserva
l’appellante, sul palmo della mano dal
Tribunale su tutto, meno che per la sua affermazione relativa alla inesistenza
di una soglia biologicamente sicura per il CVM. E riporta, altresì, un concetto
di cinetica degli enzimi: la velocità di qualsiasi reazione enzimatica (e
quelle in cui il CVM partecipa come
substrato non fanno eccezione) dipende in modo asintotico dalla concentrazione
del substrato. A concentrazione molto bassa del substrato, inferiore al valore
della costante di Michaelis (Km), la velocità di reazione è pressochè lineare
in funzione della concentrazione del substrato ( nel nostro caso, il CVM).
Dunque per il
P.M. parlare di soglia è, teoricamente, un assurdo: si può dire, tutt'al più, che ci possono essere concentrazioni
del “veleno” tanto basse da rendere la reazione iniziale, e le successive,
molto lente, e lo sviluppo del tumore molto improbabile: ma mai impossibile. Il
fatto che sia difficile rilevare l'insorgenza di tumori per piccole dose di
mutageni dipende dal metodo di misura e dai limiti della sua sensibilità, come
è stato rilevato nel corso del processo.
Il problema, a questo punto è
giuridico (oltre che morale): è lecito esporre consapevolmente persone
ad una probabilità sia pur piccola di tumore? E quando, poi, questo tumore si
verifica, che succede?
Ma anche il tema
relativo alla influenza delle basse dosi sarebbe stato trattato in maniera
generica e superficiale dal Tribunale, il quale – anche in questo caso – si
è completamente dimenticato della
esistenza di una relazione tecnica del prof. Franco Berrino (direttore
dell’Unità Operativa di Epidemiologia dell’Istituto Tumori di Milano), pur
arrivando ad affermare in motivazione il presunto vuoto accusatorio sul punto.
Ed elenca l’appellante tutta una serie di elementi, in fatto e tecnici, che non
sarebbero stati considerati dal tribunale e che confermerebbero invece quanto
sostenuto dall’accusa, lamentandosi in conclusione un appiattimento totale del
Tribunale sulle posizioni della difesa, con oblio totale delle relazioni
tecniche e delle posizioni dell’accusa.
Richiama infine
sul punto il P.M. quanto segnalato e motivato dal professor Giovanni Zapponi, le
cui valutazioni il Tribunale ha frainteso o non compreso, in relazione alla
valutazione del rischio cancerogeno da CVM secondo organismi internazionali (e
non) come l’O.M.S., l’Unione Europea e l’EPA,
con particolare riferimento alle basse dosi di esposizione.
Quanto
alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M.,
contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari
organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo,
devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato,
il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di singoli studi, devono essere attribuite
all’azione del CVM alcune altre patologie, come il tumore del laringe, nonché –
come ampiamente illustrato anche nel capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e
l’acroosteolisi. Ancora lamenta il P.M. da parte del Tribunale, che ha ritenuto
di riconoscere come conseguenti all’esposizione a CVM solo l’angiosarcoma, il
fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi ed alcune epatopie, omissioni nell’esame
del materiale probatorio fornito dall’accusa e, in molti casi, anche
fraintendimenti del contenuto degli atti esaminati e soprattutto delle
esposizioni e dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M., con conseguente
grave vizio della motivazione della sentenza, la quale dovrebbe dunque essere
completamente riformata.
Nello specifico, con la consueta tecnica
argomentativa di richiamare determinati passi della sentenza che si ritengono
contenere osservazioni, valutazioni o conclusioni errate (per lo più, secondo
il P.M., preconcette, frutto di appiattimento sulle posizioni della difesa,
funzionali ad originario disegno assolutorio), si sottopongono già a critica
alcune affermazioni del Tribunale relative anche all’angiosarcomo, pur
riconosciuto come conseguente all’esposizione a CVM, ma che nella loro
erroneità producono influssi negativi su altri punti fondamentali della
decisione, quali ad esempio quelli relativi alla carcinogenesi, all’influenza
delle basse dosi (magari successive ad alte dosi) e al concorso di cause (fumo
ed alcool); e quali l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per
Simonetto Ennio su asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando
invece tra i consulenti vi era contrasto sul punto, potendosi citare a favore
della diagnosi di angiosarcoma ed epatocarcinoma, la diagnosi iniziale del
Prof. Maltoni che include il paziente fra i casi di angiosarcoma della coorte
dell’Istituto Superiore di Sanità e la conferma della diagnosi che il maggior
esperto in questo campo ne fa in aula nel corso del processo, la diagnosi del
Prof. Rugge che descrive la lesione con “fenotipo” compatibile con la diagnosi
di angiosarcoma, la registrazione di
Simonetto Ennio nel registro mondiale degli angiosarcomi.
Sostiene
poi il P.M., sempre a tale riguardo, che il Tribunale senza alcuna motivazione
reale avrebbe rifiutato non solo l’ipotesi di approfondire il tema delle morti
per angiosarcoma a bassa esposizione nella popolazione, ma ne avrebbe
aprioristicamente negato la rilevanza, scrivendo ad esempio che per i casi
proposti al suo esame “manca la certezza diagnostica” o che “i tempi di latenza
non sono osservati” (pag.212), mentre al contrario in atti esistono addirittura
atti d’autopsia e precise indicazioni sulle esposizioni.
Quanto
all’epatocarcinoma, l’appellante, dopo citazione di osservazioni sul punto dei
vari consulenti e critica ancora di specifiche affermazioni e conclusioni del
Tribunale che non trascura di apostrofare come arrampicate sugli specchi,
lamentando travisamenti ed erronei apprezzamenti dei contributi scientifici, e
dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai propri consulenti, dell’azione
sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le infezioni da virus B e C, sostiene che in forza degli
atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere ascritto
all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
i.
Dati epidemiologici ormai derivanti da coorti
assai numerose provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.
ii.
Una forte evidenza (p<0,002) in favore di una relazione dose-risposta
iii.
I casi occorsi in Germania in lavoratori nei quali erano stati esclusi tutti i fattori
extralavorativi
iv.
Cinque lavoratori di Porto Marghera,
Fusaro Vittorio, Cividale Luigi,
Favaretto Emilio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare, che non presentavano fattori di rischio extralavorativi.
In due casi di epatocarcinoma
(Bonigolo e Mazzucco) i consulenti della difesa ammettono la
responsabilità dell’esposizione a CVM.
v.
Una evidente anomala distribuzione
dell’eziologia (50% alcolica e solo il
19 % virale) che è stata dimostrata nei lavoratori di Porto Marghera che non ha
riscontro in casistiche finora pubblicate, provenienti da aree come quella
della regione veneta con un’alta incidenza di infezioni da virus epatitici.
vi.
I casi di pazienti descritti in
letteratura nei quali nello stesso
fegato sono stati trovati noduli di angiosarcoma ed epatocarcinoma (Simonetto Ennio è uno di questi casi)
vii.
I riscontri sperimentali che dimostrano che
l’esposizione a CVM nei ratti può determinare l’insorgenza di diversi tipi di
tumori fra i quali l’angiosarcoma e l’epatocarcinoma.
viii.
L’analogia con l’esposizione al Thorotrast che è ormai accettato che possa
indurre nell’uomo non solo l’angiosarcoma ma anche l’epatocarcinoma.
Analogamente, anche relativamente alla cirrosi
epatica contesta il P.M. come già accennato, le conclusioni del Tribunale,
ritenendole non basate sulla realtà dei dati e sulle logiche considerazioni
che ne sarebbero dovute scaturire, il
tutto ampiamente presentato in dibattimento, anche in sede di requisitoria e di
replica finali. E previa elencazione dei principali aspetti della questione,
sulle quali il Tribunale sarebbe incorso in madornali sviste e/o errori di
valutazione, con il supporto di copiosa citazione di dati e passi dei
consulenti, e riproposizione di casi, sostiene che, se ci si attiene agli atti del processo, la cirrosi
epatica, può essere ascritta all’esposizione a CVM per le seguenti motivazioni:
- Dati epidemiologici derivanti dall’aggiornamento della coorte europea
(Ward et al, Epidemiology, 2001) con un RR di 9,24 nella classe di soggetti
esposti fra 524 e 998 ppm.anni.
- Evidenza in favore di una relazione dose-risposta analoga a quella
riscontrata per l’angiosarcoma e per il carcinoma epatocellulare, con una
tendenza della curva di dose risposta intermedia tra i due.
- L’associazione tra cirrosi epatica e angiosarcoma,
che secondo il Tribunale potrebbe avvalorare la tesi dell’associazione tra
“tale malattia epatica (la cirrosi) ed esposizione a CVM è stata riscontrata in
tre (su sette) lavoratori di Porto Marghera con angiosarcoma (Simonetto Ennio,
Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo.
- In letteratura sono stati descritti altri casi di pazienti con cirrosi ed angiosarcoma.
- La
plausibilità biologica confermata dalla spiccata attività fibrogenetica del CVM
che in presenza di un abuso di alcol o di una infezione cronica virale causa
un’amplificazione notevole delle conseguenze in termini di tossicità e di
potenziale profibrogenico.
Sempre con
riferimento all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando
delle epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il
Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM.
Infatti, ancora a pag.246 della sentenza, citando fuori luogo l’audizione del
consulente del P.M. prof. Berrino, il Tribunale continua a mescolare senza
ragione IARC 1987, “oncogenità del CVM”, epatopatie e bronchiti. Sostiene
dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza concettuale e
sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione dei casi dei
lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come causate
dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente invocato
(fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione
alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie.
Ma, sostiene
l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è troppo
elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol. Infatti,
gli operai di Porto Marghera avrebbero dovuto fare un consumo di alcolici
doppio rispetto alla popolazione generale maschile della stessa età, un
comportamento che sarebbe difficilmente compatibile con una regolare attività
lavorativa e di cui non vi è alcuna prova in atti. Anzi, vi sono diverse prove
in senso contrario, a partire dalla relazione FULC del 1975, alle indagini
effettuate dalla ULSS e dalla ASL di Mestre anche negli anni novanta: in
proposito si indicano le dichiarazioni rese in aula dai testi dr. Magarotto e
dr. Munarin.
Di tutto ciò
i giudici di primo grado si sarebbero completamente
dimenticati, ed anche sul punto il Tribunale avrebbe scritto circostanze e
fatti sbagliati in sentenza e avrebbe gravemente omesso di vagliare e di
valutare il materiale probatorio offerto dall’accusa, affidandosi alle
dichiarazioni in aula dei consulenti di Montedison Colombo e Lotti. Il primo,
però, all’udienza del 18 maggio 1999 ha ripetutamente detto: “chiedete a Lotti”
(pag. 70 e 71) e quest’ultimo sempre su questo tema ha detto: “io non sono
molto esperto di questi studi di cancerogenesi” (pag.71): e il Tribunale si è
ripetutamente affidato e fidato di entrambi! Al contrario, di passaggi
fondamentali per la ricostruzione dei fatti e per la valutazione degli eventi
non vi sarebbe traccia in motivazione.
Lamenta altresì il
P.M. che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del
periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce
reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario,
Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati
dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione
dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si
sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a
questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da
omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.
Ciò
dovrebbe portare a una totale riforma della sentenza, con conseguente
declaratoria di penale responsabilità di tutti gli imputati per tutti gli
specifici reati loro rispettivamente contestati (artt. 437,589,590 c.p.).
Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto
rilevate in motivazione; incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi
probatori sottoposti dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto
scritto e segnalato dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e
totalmente immotivata delle tesi della difesa degli imputati.
Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando
altresì l’esclusione delle patologie degli altri "altri organi"
bersaglio del CVM-PVC (laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al
riguardo, ci si lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto
insufficienti e non affrontano nemmeno ("more solito") tutti i dati,
gli studi scientifici, le relazioni tecniche e le dichiarazioni dei consulenti
tecnici del P.M. e delle parti civili offerti all'esame e alla valutazione del
Tribunale.
E una situazione analoga si presenterebbe anche per i
melanomi, per i quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente
alla sindrome di Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati
numerici sbagliati rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi
confusione sul numero dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente
dimenticato di Terrin, non ha considerato che il certificato di diagnosi di
RAYNAUD per Gabriele Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato
dell’accusa di cui all’art. 437c.p..
In questa situazione di carente motivazione, per di
più contraddittoria nei pochi punti trattati, sostiene il P.M. che la sentenza
dei giudici di primo grado debba essere riformata "in toto", facendo
esplicito richiamo alle fonti di prova d'accusa indicate nell’atto di appello e
che già erano state sintetizzate durante la requisitoria all’esito del giudizio
di primo grado.
Conclude quindi il P.M. i propri motivi di appello
relativamente alle statuizioni sul primo capo d’imputazione, sostenendo ancora
la sussistenza del disastro innominato colposo e i suoi rapporti con l’art. 437
c.p., della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra tutti gli imputati, e
della continuazione fra tutti i reati colposi contestati, nonché
l’insussistenza della prescrizione.
Quanto al disastro innominato colposo e i suoi
rapporti con l’art. 437 c.p., ricordato che il Tribunale ha pronunciato
assoluzione dal reato di disastro innominato colposo contestato al primo capo
di imputazione, in quanto il fatto non costituisce reato per condotte tenute
sino al 1973 e per insussistenza del fatto per condotte successive al 1973,
avendo appunto i giudici di primo grado individuato nel 1973 l'anno a partire dal quale sarebbe cessata
l'efficienza lesiva del C.V.M. a seguito degli interventi per la riduzione
delle esposizioni, il P.M., ferme restando le critiche in fatto su tale epoca
sopra ricordate, censura comunque la pronuncia assolutoria alla quale il
Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta
della fattispecie contestata. Sostiene infatti l’appellante che il Tribunale,
secondo il quale il reato di disastro
andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel suo manifestarsi
dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha operato una
indebita sovrapposizione tra l'evento di
pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli
eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali elementi
costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto configurarli come
condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro considerata al
comma secondo dell' art. 434 cp. Necessario e sufficiente, sostiene il P.M., la
mera insorgenza di uno stato di fatto che renda possibile il danno.
Dunque i giudici di primo grado avrebbero dovuto
chiedersi se, in un momento anteriore al
giudizio, il bene protetto -incolumità pubblica- fosse effettivamente "caduto in crisi", formulando un
giudizio prognostico sugli eventi futuri. Orbene, il Tribunale ha affermato che
il rischio costituito dall'esposizione a CVM ha avuto idoneità lesiva dell'integrità
fisica ed efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti, in quanto lo dimostrano i tumori e
le malattie che la sostanza ha causato.
Se ne doveva trarre la conseguenza che il bene protetto era stato messo in
pericolo, quel pericolo che la constatazione degli eventi lesivi implica e che perciò stesso era stato
cagionato un disastro causalmente riferibile ed imputabile alla condotta
colposa degli imputati che, rivestendo posizioni di garanzia, avevano la
gestione del rischio relativo all'esposizione ad una sostanza tossica ed
oncogena.
Quanto al rapporto esistente tra la fattispecie di
disastro innominato colposo e la fattispecie di cui all’art.437 c.p., ritiene
il P.M. di sistemarlo dogmaticamente (e cita Cass. pen. Sez. IV,
16.7/8.11.1993, Arienti ed altri – caso Mec Navi; prodotta) nel senso che il
capoverso dell’art.437 c.p. costituisce un reato complesso in cui l’evento
disastroso (l’altro disastro o infortunio) concreta appunto un disastro
innominato colposo, che viene dunque assorbito nel reato di “omessa
collocazione” seguita dal disastro. Ciò viene precisato in ossequio al
principio del “favor rei”, in relazione alla eventuale determinazione della
pena da infliggere all’imputato.
Quanto alla
cooperazione colposa, contestata nell'imputazione, la stessa secondo il P.M.
pare del tutto provata, oltre che giuridicamente configurabile. Sostiene
l’appellante che in contrario, non giova sostenere che mancherebbero i supposti
requisiti della "reciprocità" e "contestualità" della
rappresentazione dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa
"anomala" forma di partecipazione al reato; e che proprio la
dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché la autonomia
dei due "centri decisionali organizzati" che hanno determinato le
decisioni di politica d'impresa sub iudice escludono già
"logicamente" la possibilità di concepire una cooperazione colposa.
Viceversa, né nella lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si
rinviene una siffatta restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di
operatività, essendo anzi vero il contrario.
Nel citare dottrina
e giurisprudenza che avallerebbero una interpretazione che riconosce autonoma
capacità "incriminatrice" all'art. 113 c.p., che estende anche a casi
non altrimenti punibili la responsabilità penale, in quanto la pericolosità di
determinate condotte (di per sé atipiche) può diventare attuale solo
incontrando la condotta pericolosa altrui, sostiene il P.M. che il legame di
"cooperazione" su cui si fonda detta estensione di punibilità, non
implica affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di
"consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo
sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità
della condotta altrui, concorrente con la propria» (Severino di Benedetto, La cooperazione, cit., 103; Cognetta, La cooperazione, cit., 87);
e, si deve, aggiungere: realizzatrice (o "concretizzatrice") proprio
del tipo di rischio che la norma precauzionale violata mirava ad evitare (cfr. Grasso, Comm. sist. cod. pen., II,
Milano, 198), con l'avvertenza che detta norma cautelare —rilevante per la
imputazione a titolo di cooperazione colposa — potrebbe essere anche
semplicemente quella volta a prevenire non direttamente l'evento lesivo in sé,
bensì la condotta colposa altrui che poi lo ha effettivamente causato (Cognetta, La cooperazione, cit., 88).
Nel caso di specie,
l'aspetto più importante dei fatti contestati, in cui rileva tale forma di
responsabilità concorsuale colposa, sarebbe
manifestamente quello che riguarda il subentro di fatto e la successione
anche "informale" in posizioni di controllo e gestione dell'impresa o
di singoli reparti ed impianti. Sarebbe infatti evidente e documentale la piena
consapevolezza, più che mera "conoscibilità", da parte di ENI-ENICHEM
e dei suoi responsabili e dirigenti, ai vari livelli di competenza oggi
imputati, sia delle condizioni degli impianti, sia delle problematiche di
sicurezza e rischio della produzione e delle sostanze, sia dell'adibizione
degli operai alle varie mansioni ed attività, con ampia partecipazione alla
piena responsabilità nel «dimensionare il personale degli impianti e dei
servizi, di intesa con ENI, in relazione ai costi concordati prima del closing».
Ed è dunque fondata su prove sicure, oltre che logica, al di là dell'ampia
dimensione temporale della vicenda, l'estensione di responsabilità ai diversi
imputati ENI-ENICHEM accanto ed in cooperazione colposa con quelli Montedison,
nella causazione delle malattie professionali e dei disastri contestati.
Quanto alla
configurabilità della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., fra i delitti
colposi contestati, in specie: lesioni personali, disastri e strage colposi,
nonché reati ambientali vari, contesta il P.M. la tesi difensiva secondo la
quale tale istituto sarebbe incompatibile con i reati colposi relativamente ai
quali non ci potrebbe essere l'identità
del disegno criminoso. Sostiene contrariamente che non solo qualche isolata ed
"originale" voce dottrinale sostiene la piena compatibilità della
continuazione con i delitti e i reati colposi, ma neppure la giurisprudenza
sarebbe in posizione così monoliticamente negativa. Al di là della sentenza
(già citata Cass., sez. I, 24 maggio 1985, Sicchiero, in Cass. Pen., 1987, pag.
742 s., m. 536, con nota di richiami, che fa espresso riferimento alla
possibilità di continuazione nei reati colposi, allorché vi sia - come nel
caso di specie! – l'aggravante di aver agito nonostante la previsione
dell'evento: e non si riscontrano invece precedenti in senso contrario, specifici
su tale ipotesi), ve ne è quantomeno un'altra, assai significativa e
riportata nei repertori e codici commentati, che riconosce la possibilità di
ravvisare la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa
impropria", che come noto implica un reale contenuto psicologico a base
della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e
non di dolo (Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, in Cass. Pen., 1985, pag.
1112 s., m. 672, con nota di richiami e motivazione).
Dunque non vi
sarebbe certo impossibilità di diversa interpretazione ed applicazione
dell'art. 81, comma 2, c.p.. Anzi: proprio di fronte alla oggi acquisita
maggior rilevanza e frequenza di applicazione delle fattispecie colpose, in
ambiti soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche di per sé
non illecite, se rispettose delle regole cautelari volute dall'ordinamento, si
è affermata la piena consapevolezza dogmatica che la colpa è senz'altro interna
e compatibile con la volontà e consapevolezza dell'agire economico, delle
scelte d'impresa. Sarebbe dunque senz'altro compatibile, con il rimprovero di
colpa, tanto più se "cosciente", la presenza di un unico
"disegno criminoso", realizzato dalle diverse condotte esecutive,
attive od omissive, in sé finalistiche, anche se non tecnicamente
"dolose" rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo intergrano, non
dovendo d’altra parte fare riferimento all’intera serie di elementi che costituiscono
i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”. In ogni caso rileva il P.M.
che il Tribunale, nel contestare la sussistenza della cooperazione colposa e la
sussistenza della continuazione (ex art.81 c.p.), abbia completamente
dimenticato che in questi processo si parla anche di un grave reato di natura
dolosa (art.437).
Quanto infine alla
insussistenza della prescrizione, ricorda il P.M. coma abbia già contestato
supra la tesi che l’esposizione sia cessata nel 1974 e si è sostenuto che
l’esposizione è perdurata fino agli anni ’90: è allora sufficiente applicare i
principi affermati in sentenza in tema
di disastro innominato colposo per escludere che ricorra detta causa di
estinzione. Secondo la sentenza è infatti “irrilevante verificare se le
condotte quali fattori causali siano state concomitanti, prossime o addirittura
remote rispetto al venire in essere dell’evento” (pag. 268), cioè della
malattia o del decesso.
Fermo che si debba
dunque rispondere per un evento avvenuto anche trent’anni dopo la tenuta della
condotta colposa, non può evidentemente fare alcuna differenza che gli eventi
siano uno, due o molteplici; si tratta di reato che può venire qualificato come
eventualmente progressivo ed il “dies a
quo” decorre dalla consumazione, quindi dall’ultimo evento. E dalle schede
prodotte dall’avv. Zaffalon, difensore di parte civile (ud. 15.6.01) e
ricostruite sulla base dei dati forniti in aula dalla Guardia di Finanza, oltre
che dai CC.TT. degli imputati, schede in cui
è stato ricostruito il disastro innominato colposo specificamente
attribuibile a ciascun imputato (cioè con la specificazione delle lesioni e
degli omicidi colposi a ciascuno addebitabili), emerge che per ciascuno e per
tutti gli imputati l’ultimo evento è avvenuto nel 2000: è dunque da questa data
che decorre il termine prescrizionale, termine allo stato evidentemente non
ancora maturato.
Nello specifico,
quanto al rapporto fra disastro innominato colposo (artt. 449-434 c.p.) ed
omessa collocazione di impianti antinfortunistici, ribadito che il capoverso dell’art. 437 c.p. costituisce
un reato complesso in cui l’evento disastroso (l’altro disastro od infortunio)
concreta appunto un disastro innominato
colposo, che viene dunque assorbito nel reato di omessa collocazione seguita
dal disastro, osserva il P.M. che ai fini dei termini prescrizionali non cambia
nulla, in quanto il citato reato complesso si consuma al verificarsi degli
eventi e quindi la decorrenza si ha dall’ultimo evento. Ed anche i reati di
omicidio o lesioni colposi, la maggior parte apparentemente estinti essendo
molto datati, possono andare esenti da prescrizione in quanto vincolati da
continuazione con l’omessa collocazione di impianti antinfortunistici, reato
che, attesa la contestazione dell’aggravante di avere agito con la previsione
dell’evento, può costituire la base del reato continuato comprendente le
lesioni e gli omicidi colposi, onde ancora nel 2000 andrebbe individuato il
dies a quo.
Per tutti i predetti
motivi insiste dunque il P.M. per l’accoglimento delle avanzate richieste in
merito al primo capo d’imputazione, e cioè: rinnovazione del dibattimento, al fine di acquisire le prove, specificate
nell’atto d’appello che qui s’intendono trascritte, previo annullamento, ove necessario, delle ordinanze della 1a Sezione
Penale del Tribunale Ordinario di Venezia;e quindi dichiarazione di penale
responsabilità degli imputati: CEFIS
Eugenio, GRANDI Alberto, PORTA Giorgio; GATTI Pier Giorgio, BARTALINI Emilio, LUPO Mario, D’ARMINIO
MONFORTE Giovanni, CALVI Renato, TRAPASSO Italo, DIAZ Gianluigi, MORRIONE
Paolo, REICHENBACH Giancarlo,
SEBASTIANI Angelo, FEDATO Lucian, GAIBA Sauro, FABBRI Gaetano, SMAI Franco,
PISANI Lucio, ZERBO Federico, PRESOTTO Cirillo, BURRAI Alberto, BELLONI
Antonio, GRITTI BOTTACCO Carlo Massimiliano, MARZOLLO Dino, PALMIERI Domenico,
NECCI Lorenzo, PARILLO Giovanni, PATRON Luigi,, con la conseguente condanna
degli imputati alla pena già richiesta in sede di conclusione del giudizio di
primo grado (ed indicata in epigrafe)
o, comunque, alla pena che sarà ritenuta equa, con ulteriore condanna alle spese di giustizia e ai
risarcimenti dei danni che saranno richiesti dalle Parti Civili costituite.
Quanto
alle impugnazioni delle Parti Civili, le stesse ripercorrono e ripropongono, in
ordine alle statuizioni del Tribunale relative al primo capo di imputazione, le
doglianze stesse più ampiamente sviluppate dal P.M. e di cui sopra.
In particolare,
l’Avvocato dello Stato, in qualità di difensore ex lege del Presidente del
Consiglio dei Ministri e del Ministero
dell’Ambiente e della tutela del Territorio, proponeva impugnazione e chiedeva
la riforma della sentenza nella parte in cui, in relazione al primo capo, ha
assolto, tra gli altri, Porta Giorgio (relativamente alle condotte tenute quale
Presidente della società Enichem spa dal gennaio 1991 al giugno 1993), Trapasso
Italo (relativamente alle condotte tenute quale Direttore della programmazione
della società ENI dal 1/1/1980 al 31/12/1981nonchè di Vice Presidente ed Amministratore delegato della società ENOXY
dal 1/1/1982 al maggio 1983, di Presidente della stessa società dal maggio 1983
al settembre 1983, di Vice presidente vicario ed amministratore delegato della
società Enichimica da maggio 1983 al 31/12/1984) , Smai Franco, Pisani Lucio, Zerbo Federico, Presotto Cirillo,
Burrai Alberto, Necci Lorenzo dai reati di <lesioni personali
colpose> e di <omicidio colposo>
riferiti alle ulteriori persone offese nonché dai reati di <omissione
dolosa di cautele>, di <strage colposa> e di <disastro innominato
colposo> per condotte tenute in epoca successiva all’anno 1973 perché il
fatto non sussiste.
Al riguardo, premesso da parte dell’appellante che tutte le
osservazioni e le censure mosse ai provvedimenti impugnati vanno intese e sono riferite
alle sole posizioni degli imputati e dei responsabili civili nei cui confronti
continua ad essere coltivata l’azione civile con la proposizione dei motivi
d’appello, in quanto all’esito del dibattimento di primo grado lo Stato ha
definito transattivamente la lite proposta con la dichiarazione di costituzione
di parte civile nel presente procedimenti nei (soli) confronti del responsabile
civile Montedison spa e del responsabile civile Montedipe spa e degli imputati agli stessi collegati
limitatamente alle condotte di gestione degli impianti del petrolchimico di
Porto Marghera attuate dalle predette
società e di cui le stesse debbano, a qualsiasi titolo, rispondere, onde si
anticipa che nel corso del giudizio d’appello si procederà a revocare (così
come in effetti si revocherà) la dichiarazione delle costituzione di parte
civile nei confronti di singoli
imputati rispetto ai quali, per
effetto dell’intervenuta transazione, è divenuta improcedibile - in tutto o in
parte, nei limiti che saranno precisati per ciascun imputato - l’azione diretta ad ottenere il risarcimento
del danno, si indicano nei seguenti gli specifici motivi di doglianza relativi
al primo capo d’imputazione:
1) In relazione all’affermata esclusione del nesso causale
tra esposizione a CVM e tutte le restanti patologie diverse da angiosarcoma
epatico, epatopatie e morbo di Reinaud.
In generale si
sostiene che la sentenza perviene a
tali conclusioni sulla base di ripetuti gravi
errori giuridici, che riguardano tutta una serie di profili concernenti
tanto gli elementi oggettivi quanto quelli soggettivi dei reati contestati, di
contraddizioni logiche e di incomprensibili
travisamento dei fatti, sottovalutazione di precisi elementi probatori,
alcuni dei quali addirittura del tutto trascurati benchè fossero stati oggetto
di particolare attenzione dibattimentale. E nello specifico:
1a) In relazione alla pretesa esclusione
della colpa specifica da violazione delle norme in materia di igiene del lavoro
per la mancanza conoscenza scientifica
delle correlazione tra le singole patologie e l’esposizione a CVM (con
particolare riferimento all’affermata inapplicabilità - in mancanza di detta
conoscenza - di norme di igiene del
lavoro quali gli art.. 20-21 DPR 19/3/56 n. 303).
Sul punto si lamenta
che il Tribunale avrebbe compiuto almeno tre gravi errori, di diritto e
nell’apprezzamento del fatto.
Innanzitutto ha
inserito la categoria della prevedibilità dell’evento nella struttura della
colpa per violazione di legge, ignorando
del tutto l’antico e costante
insegnamento del Supremo Collegio (valido a maggior ragione in materia di sicurezza ed igiene del
lavoro, atteso il carattere assoluto ed oggettivo del dovere di sicurezza)
secondo cui:
“In
tema di colpa specifica per violazione di determinate disposizioni di
leggi, regolamenti, discipline etc decisivo, ai fini di una prognosi sulla
responsabilità penale, deve ritenersi, in positivo, l’accertamento in ordine
alla regola trasgredita, nessuna influenza
potendo esplicare il criterio della prevedibilità; di guisa che,
accertata la violazione, sorge la responsabilità, dovendosi considerare che
l’inosservanza delle norme predette sostanzia quella imprudenza e negligenza
che costituisce il dato saliente della responsabilità per colpa” (Cass. Sez. IV
sent. nr. 14202 del 25/10/1989 RV 182332).
Del resto dovrebbe
essere dato ormai acquisito dalla cultura giuridica italiana (trattandosi di principio affermato
significativamente ancora negli anni ’60,
con le prime applicazioni della normativa in riferimento) che “le norme per la
prevenzione degli infortuni sono state
dettate per evitare i pericoli, anche non facilmente prevedibili, che sono
connessi a particolari condizioni di lavoro” (Così Cass. Sez. V, sent. nr. 806
del 17/6/1969, RV 111908).
Dunque è sufficiente
che vi sia una norma di legge che detta misure di prevenzione a tutela della
salubrità dell’ambiente di lavoro affinchè il datore di lavoro venga gravato
dell’osservanza degli obblighi in essa descritti, a nulla potendo rilevare la
rappresentazione (e la prevedibilità) di eventi ritenuti conseguenza della sua
eventuale inosservanza.
In secondo luogo, e
conseguentemente, il Tribunale ha completamente ignorato che era comunque nota, a livello scientifico, la conoscenza
di rischi per la salute, ancora non
mortali (ma non per questo giuridicamente irrilevanti) derivanti
dall’esposizione del lavoratore a concentrazioni non elevate di CVM (dell’ordine di decine di p.p.m.), quali quelli ben illustrati sin dagli studi
di TORKELSON e SOCIN, e che tale conoscenza avrebbe dovuto indurre il datore di
lavoro Enichem spa (ed anche negli anni ‘90) , secondo la nitida previsione
dell’art. 20 cit., innanzitutto ad
impedire del tutto lo sviluppo e la
diffusione del gas tossico (quale il CVM era noto che fosse) nell’ambiente di
lavoro o, in caso di assoluta impossibilità tecnica, a ridurre sempre più,
progressivamente e tendenzialmente a zero, nei limiti consentiti dal progresso
tecnologico e con l’utilizzo delle migliori tecnologie di volta in volta
disponibili, la presenza del gas in detto ambiente. (Sul pregnante e complesso
contenuto del dovere di sicurezza risultante dall’art. 20 DPR 303/56, che non
si limita a prevedere impianti di aspirazione localizzati il più vicino alle
fonti di produzione egli agenti nocivi ma che impone anche misure organizzative
del lavoro allorquando tali misure di difesa risultino insufficienti cfr. Cass.
Sez. IV sent. nr. 10730 del 25/10/1991, RV 188570).
Che ciò non si sia
affatto verificato (e per quel che interessa la prospettiva di questa parte
civile neppure nelle epoche più recenti,
per tutta la fase di gestione ENICHEM
degli impianti) sarà oggetto di
altre considerazioni specificamente sviluppate in seguito in diverso motivo di
appello (infra sub 1b)
Infine ha omesso di
considerare che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro in forza
del sistema giuridico costruito sui
principi dettati dall’art. 41 cpv. Cost. (e quindi art. 2087 cc. nonché normativa
speciale in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro e di igiene del
lavoro) ha contenuto oggettivo. L’ambiente di lavoro deve risultare
“oggettivamente” sicuro, a prescindere dall’affidamento che si può fare sulle
capacità dei soggetti che in esso vi operano di prevenire i rischi ed i
pericoli sulla base delle istruzioni eventualmente ricevute o in forza delle
loro articolari abilità. Da sempre il principio è stato affermato dal Supremo
Collegio: ad esempio Cass. Sez. IV sent. nr. 8082 del 6/10/79, imp. Vigano ha espressamente statuito che “in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, le persone preposte alla organizzazione
imprenditoriale hanno il dovere di garantire la sicurezza oggettiva degli impianti e non possono delegare ad
altri tali doveri”.
Più recentemente il
contenuto oggettivo del dovere di sicurezza (riferito alla oggettiva sicurezza
dell’ambiente di lavoro in quanto tale) è stato ribadito da Cass.
Sez.
IV sent. 8261 del 28/9/1982, imp. Tizza,
Cass. Sez. III sent. nr. 7936 del 3/10/84, imp. Barni;
Cass. Sez. III sent. nr. 7893 del 10/9/85, imp. Donvito; Cass. Sez. IV sent.
6686 del 7/7/93 imp. Moresco).
Dunque non sarebbe,
in alcun caso, giuridicamente proponibile la tesi seguita dal Collegio, dal
momento che la semplice esistenza (che il datore di lavoro ha l’obbligo
giuridico di conoscere e di valutare)
di una condizione di rischio, anche minimo, per la salute del
lavoratore comporta, ex se, in capo al
datore di lavoro l’obbligo giuridico di eliminazione del rischio in modo tale
che, oggettivamente, l’ambiente di lavoro risulti sicuro.
I gravi errori
descritti che, in serie, sono stati
commessi nella ricostruzione della colpa e, in particolare, nell’esclusione dei profili di colpa specifica derivanti dalla violazione della
normativa in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
hanno poi condizionato il decisum del Tribunale anche per quanto concerne la
tematica della ricostruzione delle effettive concentrazioni di gas (CVM in
particolare) cui i lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera sono stati
esposti non solo immediatamente dopo il 1973 ma anche in epoche molto più
recenti, appunto durante la gestione ENICHEM (i dati probatori più
significativi si riferiscono al periodo
1990-1993).
La valutazione del
Tribunale, sul punto, ha, infatti, pesantemente risentito degli effetti
derivanti dall’esclusione della colpa per le ragioni suddette, dato che tale
argomentazione giuridica (usata dal giudice di I° grado soprattutto per
escludere la colpa in epoca antecedente alla conoscenza della cancerogenicità
della sostanza) è stata subito accompagnata da un giudizio di adeguatezza delle
misure adottate dopo tale conoscenza che non solo non può essere condiviso nel
merito (per le ragioni di cui si dirà a proposito dell’effettiva esposizione
dei lavoratori a CVM) ma anche perché non è minimamente rispettoso di quello che è il reale contenuto del
dovere di sicurezza del datore di lavoro quale, invece, risulta dalle indicazioni
fornite dal Supremo Collegio alle quali si è fatto più sopra riferimento.
1b1) Errori,
sottovalutazioni e travisamenti nella ricostruzione della reale ed effettiva
concentrazione del CVM cui sono stati e
sono tuttora esposti i lavoratori (con particolare riferimento alle esposizioni
registrate dal gascromatografo nel periodo 1990 - 1993).
Si sostiene sul
punto che le evidenze probatorie, e si citano testimonianze e documentazione
oltre che le valutazioni dei consulenti tecnici, farebbero cadere il pilastro
su cui la sentenza appellata ha fondato – in fatto – l’esclusione del nesso
causale per molte delle patologie prese in considerazione. Ciò in quanto le
esposizioni reali dei lavoratori impegnati nei reparti di produzione e/o di
utilizzazione del CVM erano e sono sempre state (anche nei tempi più recenti
tra quelli presi in considerazione dall’imputazione) enormemente più alte di
quelle (trascurabili) mediamente indicate dai monitoraggi aziendali, eseguiti
in modo non conforme a quanto richiesto dalla normativa vigente, privi
dell’indispensabile completezza delle misure, con strumenti inefficienti e,
comunque, utilizzati in più occasioni con vistose correzioni apportate dagli
operatori e finalizzate ad ottenere risultati ben più favorevoli al datore di
lavoro di quelli altrimenti fornite dal
funzionamento automatico del sistema. Ed i dati che certificavano tali più alte
concentrazioni di CVM in ambienti di lavoro (quali, ad esempio, le annotazioni
sul registro per il passaggio di
consegne, in cui erano talvolta annotate le concentrazioni reali misurate con le sonde in occasione di fughe) sono
stati ignorati dal Tribunale benchè attestassero (sia istantaneamente che
cumulativamente intesi) un superamento di
gran lunga della soglia di idoneità lesiva che lo stesso Tribunale ha ritenuto
debba consistere in 10 ppm cumulativi (pagg. 116 – 121) e persino delle soglie più basse di
esposizione cumulativa riscontrate, in letteratura, per alcuni tipi di tumore (288
ppm. per l’angiosarcoma).
E si sostiene
altresì che la predetta censura esplica efficacia anche sotto il profilo della
critica al disconoscimento del disastro
innominato in relazione alle condotte
successive tenute dal 1973, doglianza, pertanto, che espressamente si propone a
codesta On.le Corte d’Appello sulla scorta sia dei dati sin qui illustrati in
ordine alla reali concentrazioni del CVM negli ambienti di lavoro sia in
relazione al riconoscimento del nesso causale tra esposizione e le patologie
per le quali esso è stato, invece, erroneamente escluso, alla luce delle
considerazioni sviluppate nei seguenti motivi d’appello.
1b2) In relazione
alla generalizzata assoluzione di tutti gli imputati da tutte le
contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro (con riferimento a
quelle previste dal DPR 547/55, dal DPR 303/56 nonchè dal DPR 10/9/82 n. 962).
Si sostiene sul
punto che le assoluzioni dalle contravvenzioni, pur indistintamente e
generalmente pronunciate dal Collegio, non risultano motivate nè con
riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione nè con
riferimento alle prove fornite dal dibattimento, che, nell’evidenziare le
elevate esposizioni di cui sopra, dimostrerebbero non solo l’inefficienza e la
non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno
dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami
prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte
dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha
ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR
nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive
modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i
sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.
Proprio tale
modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata
sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che
nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, abolitio criminis ma soltanto
successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente
dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei
noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.
Non lo ha fatto
perchè ha ritenuto - trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto
illustrati dal Prof. Nardelli e le implicazioni giuridiche che questa difesa
aveva prospettato nel corso della discussione - che il sistema di monitoraggio
fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di
misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro. La
valutazione, tuttavia, è errata sia in fatto che in diritto.
Il Tribunale,
infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed
inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo
(campanelle) nel reparto CV 24.
La sproporzione
evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a
piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio, (700 mc
per le prime contro 340 mc per le seconde) dimostra tale inadeguatezza e
consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82
con riferimento al punto 1C2 dell’Allegato I.
Ma le censure più
gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al
gascromatografo.
Esse ( si ricorda:
soltanto 25 ppm!) sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista
dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la
violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82. Violazione che sussiste anche in
relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal
momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato
gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni
possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.
Ma un tal genere di
genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio,
dall’art. 20 del DPR 303/56.
Da tale norma,
infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressivariduzione
all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico
sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso
punto in cui lo stesso è stato prodotto.
Di qui,
conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno,
pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione
puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi di una fuga e di consentire i tempestivi
interventi di contenimento e di bonifica.
Tutto questo avrebbe
dovuto essere considerato dal Tribunale, specie alla luce dei dati e delle
informazioni di cui si è trattato nel precedente motivo.
L’assoluzione dalle
contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è
immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della
contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di
monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento
documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal prof. Nardelli.
1c) Errore e
travisamento dei fatti in generale nella ricostruzione del nesso causale tra le
malattie contestate e l’esposizione a CVM, in particolare per le seguenti
ragioni:
1c1) Difetto di
motivazione, errore e contraddittorietà nella considerazione di ciò che, per il
diritto penale, deve essere inteso come malattia.
Sul punto rileva
l’appellante come il Tribunale abbia del tutto ignorato la necessità di
considerare, come malattie in relazione alle quali porsi il problema della
riconducibilità causale all’esposizione al CVM ed alle altre sostanze tossiche
indicate in imputazione , qualsiasi modificazione della condizione di benessere
fisiopsichico dei lavoratori cui fosse associata una anche solo temporanea
modificazione delle funzioni organiche
(secondo il noto insegnamento del Supremo Collegio: per tutte Cass sentenza nr.
714 del 19/1/1999 che statuisce:” Il
concetto clinico di malattia richiede
il concorso del requisito
essenziale di una riduzione apprezzabile di
funzionalita', a cui puo' anche
non corrispondere una lesione anatomica, e
di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza,
verso un esito che potra' essere la guarigione perfetta, l'adattamento a
nuove condizioni di vita oppure la
morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le
alterazioni anatomiche, a cui non si
accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalita'”).
Il Tribunale ha
dunque omesso di fare chiarezza sulla stessa nozione di malattia penalmente
rilevante, così come definita dal Supremo Collegio e si è adagiato acriticamente sul concetto (clinico) di
malattia che era stato fornito da alcuni consulenti di parte della difesa.
Ciò nonostante
questa difesa avesse dimostrato – in sede di controesame di detti consulenti di
parte, e se ne riportano nell’atto di appello i passi – quale fosse il limite
vistoso derivante dall’assenza della nozione di malattia così come descritta
dalla Suprema Corte.
Ed il Tribunale non solo non si è accorto del grave
problema – che l’accusa aveva prontamente evidenziato – ma, in nome del primato
della scienza, ha ritenuto che la nozione clinica (e dunque riduttiva) della
malattia dovesse prevalere sul concetto che di essa è ricavabile dal sistema
penale.
Il problema non è
stato minimamente affrontato dal Collegio e la circostanza – invece – pacifica
avrebbe potuto svolgere – a tacer d’altro – un ruolo importante nella
configurazione di una dichiaranda responsabilità penale per i delitti di
disastro innominato di cui all’art. 434 cp. nonché per quello di cui all’art.
437 cp. in relazione ai quali il verificarsi della malattia-infortunio
costituisce circostanza aggravante.
1.c2) Errore nel ritenere che il nesso causale
sussista soltanto quando sia possibile dimostrare l’esistenza di una legge
scientifica di copertura capace di dare la spiegazione scientifica dell’evento,
limitando così la certezza
processuale ai soli casi in cui la
scienza sia giunta a dare, in termini certi, la spiegazione dei meccanismi che
ingenerano la patologia e del loro modo di agire.
Proprio su tale punto,
sostiene l’appellante, la sentenza avrebbe compiuto l’errore più grave,
allorquando ha escluso il nesso causale tra esposizione a CVM e la quasi
totalità delle patologie che erano
state oggetto di contestazione sulla base di una concezione giuridicamente
errata dei criteri di ricostruzione del nesso causale, criteri
significativamente disattesi persino dal recente pronunciamento sul punto delle
Sezioni Unite del supremo Collegio ( cfr. Cass. Sezioni Unite penali , sentenza nr. 30328 del 10/7 – 11/972002,
Pres. Marvulli, rel. Canzio,)
L’idea che fosse
necessaria la precisa dimostrazione scientifica del meccanismo causale di ogni
patologia in generale e per ciascun lavoratore (ovviamente impossibile da dare)
è stata ritenuta sufficiente dal Giudice di primo grado per escludere in assoluto la rilevanza
penale dei fatti sulla base di una asserita mancata dimostrazione del nesso
causale.
Sono stati, in tal
senso, enfatizzati dal Collegio i limiti degli studi epidemiologici, quasi che
solo una certezza delle ricerche in
quel settore della scienza (per la verità avente ben altri obiettivi rispetto a
quelli che caratterizzano la ricostruzione del nesso causale nel diritto
penale!) potesse fungere da parametro obiettivo per discriminare le patologie
riconducibili al cloruro di vinile.
In realtà non solo tale postulato si fonda
sull’erronea rappresentazione del valore da assegnare allo studio
epidemiologico all’interno del processo penale (in assenza del quale, pertanto,
dovrebbe – stando al criterio applicato dal Tribunale – negarsi ogni
possibilità di accertamento di responsabilità penali: una vera e propria delega
della giurisdizione all’epidemiologia, con buona pace dei sacri principi sul
ruolo della giurisdizione in uno stato democratico proclamati più volte dallo
stesso Tribunale!) ma anche risulta obiettivamente in contrasto con le finalità
dichiarate dagli epidemiologi stessi.
Più volte, nel corso
del dibattimento, si è avuto modo di far loro precisare che la mancanza di significatività della correlazione accertata tra l’esposizione ad
una sostanza ed una patologia non significa affatto che deve essere esclusa la
possibilità che la correlazione esista e che operi pienamente sul piano
causale. Significa, invece, limitarsi ad affermare che la scienza, in quel
caso, non è in grado di affermare che essa opera con regolarità nella totalità
dei casi, come invece si potrebbe affermare nel caso in cui lo studio
epidemiologico avesse raggiunto la dimostrazione di altri, e più elevati,
livelli di correlabilità .
In ogni caso – come
insegna il Supremo Collegio – la valutazione del Giudice in ordine al nesso
causale non può ridursi ad un mero calcolo di probabilità (anche perché nessuno
ci può dare il limite di probabilità oltre al quale l’evento viene considerato
effetto cagionato dal quel tipo di fattore causale) ma deve essere effettuata
sulla scorta di un prudente apprezzamento di tutti i fattori tecnici del
singolo caso, fattori la cui presenza viene abitualmente rilevata
dall’utilizzazione di quella “criteriologia medico-legale” sistemata dal
Cazzaniga ancora negli anni ’50 e, ancora una volta, del tutto ignorata dal
Collegio, che pure avrebbe ignorato il contributo specifico di due consulenti
medico-legali indotti dalla parte civile (il prof. Rodriguez ed il dr.
Bartolucci), i quali avevano analiticamente illustrato al Collegio i singoli
casi di operai affetti da patologie che
avrebbero dovuto essere ricondotte con certezza scientifica all’esposizione a
CVM, sulla scorta dei più
consolidati criteri di valutazione medico-legale.
Il tema sarebbe
stato ignorato, secondo l’appellante, proprio a causa della scelta “ideologica”
compiuta dal Collegio in materia, tutta condizionata dall’ovvia impossibilità
di fornire una legge scientifica di copertura per ogni singolo evento.
Si dovrebbe operare
invece, sostiene l’appellante, una valutazione sempre ed insuperabilmente
probabilistica, in cui la certezza processuale si raggiunge (come sempre in
materia di apprezzamento della prova, del resto) sulla base di un convincimento
logico del Giudice che pone alla base del suo giudizio una valutazione
altamente probabilistica e criticamente vagliata del meccanismo causale quale
ricostruito, nella sua complessità, alla luce di tutti i fattori conosciuti.
Alla luce di detti
principi, allora, ben altra valutazione avrebbe dovuto essere compiuta dal
Collegio in ordine alle singole patologie attribuibili all’esposizione a CVM
non solo, genericamente, nei periodi
successivi al 1973 ma anche, più specificamente, in relazione ai periodi di
gestione ENICHEM spa di cui, pertanto,
possono essere chiamati a rispondere gli imputati nei confronti dei quali questa parte civile
coltiva l’azione civile nel giudizio d’appello.
1.c3) Erronea applicazione
del regime delle concause di cui al’art. 41 cp ed omessa e/o erronea
valutazione del ruolo concausale del CVM nell’insorgenza di patologie, con
particolare riferimento al tumore al fegato ed al polmone.
Si sostiene che
Tribunale non affronta nè risolve in termini giuridicamente corretti il problema del ruolo concausale del CVM
nell’insorgenza di alcune patologie (in particolare il tumore al fegato ed il
tumore al polmone) che, invece, l’accusa aveva puntualmente posto nel corso del
dibattimento di primo grado
Si critica
l’affermazione del Tribunale secondo il quale
ciò che non è causa non è idoneo ad assumere il ruolo di concausa di un
evento, sostenendosi invece, con sostanziale riproposizione delle
argomentazioni pure svolte dal P.M. e sopra ricordate, e con richiamo delle
singole specifiche vicende dei lavoratori interessati, che in tutti i casi
descritti sarebbe stata possibile un’affermazione di responsabilità degli
imputati se solo il Tribunale avesse utilizzato i proposti diversi (e corretti)
criteri di valutazione e di giudizio.
2) In relazione
all’erronea esclusione della configurabilità giuridica, in astratto, di alcuni
dei delitti contestati agli imputati (449 con riferimento all’art. 422 cp) e
della sussistenza, in concreto degli estremi obiettivi di altri delitti (437
cp).
2.a) Sull’esclusione
della responsabilità in ordine al reato
di cui all’art. 437 cp. per condotte successive al 1973.
2 a1) Asserita
insussistenza del reato ex art. 437 c.p.- in generale.
2a2) In ordine
all’asserita insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano oggettivo. La
ratio dell’art. 437 c.p.
2a3) Asserita
insussistenza del reato ex art. 437 c.p. sul piano soggettivo.
Sostiene
l’appellante che la sentenza appellata commette due gravi errori di diritto dal
momento che esclude la stessa configurabilità in astratto del delitto di
disastro colposo di cui agli artt. 422 – 449 cp. e, in concreto, esclude la
sussistenza del delitto di cui all’art. 437 cp. per condotte successive
all’anno 1973.
Quanto a quest’ultima
fattispecie, premesso che, come affermato dal P.M., viene considerata come la
fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole
imputazioni per i reati indicati dal decreto che dispone il giudizio, ci si
lamenta che il Giudice di I° grado - del tutto superficialmente, ma soprattutto
in netto contrasto con i molteplici e concordanti riscontri istruttori,
documentali e testimoniali, resi in dibattimento – liquida come insussistente
la relativa imputazione, dedicando peraltro a questa norma poche, carenti,
contraddittorie e generiche osservazioni sugli aspetti oggettivo e soggettivo
del reato in questione, argomentando in modo assolutamente insufficiente,
illogico e contraddittorio.
Sostiene al
contrario l’appellante, così come sostenuto anche nel proprio appello dal P.M.
ed in forza di sostanziali analoghe argomentazioni sia sulle preliminari
nozioni in ordine agli elementi costitutivi
oggettivi e soggettivi del reato di cui all’art. 437 c.p., sia
nell’analisi dettagliata delle singole condotte rilevanti ai sensi del delitto
in esame, che se si pone mente al fatto che nel presente procedimento tutte le
condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p.
sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e
specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica
e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di
chiusura, la responsabilità avrebbe dovuto essere dichiarata in relazione a tutte
le condotte omissive attribuite agli
imputati, atteso il riscontro
probatorio che le stesse hanno ottenuto nel corso del dibattimento di primo
grado.
2b) In ordine alla
ritenuta impossibilità giuridica di configurare il delitto di disastro colposo
di cui agli artt. 449 – 422 cp. Erronea applicazione della legge penale e
difetto di motivazione.
Si sofferma l’appellante su tale ulteriore profilo di
doglianza (non avanzato dal P.M.) sostenendo che la motivazione in proposito
fornita dal Tribunale appare troppo
sintetica. Si rinnova, quindi, la richiesta relativa all’applicazione della
fattispecie risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 449 e 422 c.p.,
delitto colposo la cui esistenza all’interno dell’ordinamento vigente
dev’essere affermata in forza delle argomentazioni già svolte in primo grado e
che si riprendono nell’atto di appello.
Si sostiene al riguardo che la configurabilità di tale
fattispecie emergerebbe sia da una interpretazione letterale, atteso il
riferimento testuale contenuto nell’art. 449 c.p. ai “disastri” di cui al capo
primo, onde resterebbe infirmata l’interpretazione del Tribunale che ricollega
il riferimento al solo incendio e disastri previsti successivamente all’art.
423 c.p., sia dalla volontà del legislatore che, quasi interpretazione
autentica, laddove successivamente ha voluto escludere una particolare
previsione lo ha fatto in modo esplicito come per la ipotesi di cui al secondo
comma dell’art. 423bis c.p., sia da una interpretazione sistematica che farebbe
venir meno anche le argomentazioni del Tribunale in ordine ad assunta
inconciliabilità tra tale riferibilità del rinvio di cui all’art. 449 cp anche
all’art. 422 cp, e l’elemento soggettivo (dolo specifico) del reato di strage.
In proposito si richiama dottrina che sostiene che il rinvio operato dall’art.
449 cp deve intendersi esclusivamente per gli elementi materiali delle varie
fattispecie, con totale estromissione di ogni riferimento all’elemento
soggettivo, dovendo fare riferimento all’art. 42, comma 2, c.p. che consente in
via generale la punibilità a titolo di colpa di condotte già punite a titolo di
dolo senza alcuna limitazione rispetto al dolo generico piuttosto che a quello
specifico, e rinvenendosi nell’ordinamento altre ipotesi di reati colposi che già
sono previsti anche nella forma dolosa con dolo specifico, quali la
contravvenzione di cui all’art. 712 cp rispetto al delitto di cui all’art. 648
cp.
Ed anche successivamente all’art. 423 (Incendio) si
riscontrano “disastri” puniti
ordinariamente a titolo di dolo specifico, i quali, e ciò seguendo
proprio la tesi restrittiva del rinvio selettivo, dovrebbero comunque rientrare
nel sopradescritto meccanismo generatore (cfr., ad esempio, artt. 424, 427,
429, 431 c.p.).
Secondo l’appellante allora è coerente concludere per la
ragionevolezza e la coerenza di un’interpretazione che, in aderenza alla
legalità stretta del dato testuale, ipotizzi la chiara configurabilità di un
“disastro” ex artt. 422 e 449 c.p., disastro che certo strage non è, proprio
perché la definizione legislativa di strage è riservata al delitto doloso e,
per così dire “puro”, di cui all’art. 422 c.p.. Si tratterebbe di diversa
ipotesi che “strage” in senso tecnico non è, e che viene punita a titolo di
colpa per espresso rinvio legislativo.
Analogamente troverebbe smentita sul piano sistematico anche
l’obiezione relativa alle distorsioni che si verificherebbero sul piano
sanzionatorio laddove si ammettesse la configurabilità di un delitto colposo ex
artt. 449 e 422 c.p. Sostiene infatti l’appellante che le asserite incongruità
nel regime sanzionatorio sono frutto non già dell’originale disegno
codicistico, quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta
apportate.
Al riguardo si consideri, ad esempio, il sopravvenuto (e non ancora ricomposto)
discrimine tra le fattispecie “interne” alla disposizione dell’art. 422, commi
1 e 2, dopo la soppressione della pena di morte (ex d.l. lgt. del 10 agosto
1944) e la sostituzione alla stessa dell’ergastolo.
A seguito di tale modifica si è operata una parificazione
del trattamento sanzionatorio di fatti diversi: invero, se dal reato derivi la
morte di una o, invece, di più persone diverse risulta essere circostanza del
tutto indifferente ai fini della pena, essendo in ogni caso applicabile
soltanto la pena di un unico ergastolo.
L’incongruenza diventa poi ancora più evidente ove si
considerino gli effetti della predetta modifica in relazione al trattamento
sanzionatorio dell’omicidio volontario plurimo aggravato.
Mentre la sanzione prevista nel caso in cui molteplici
eventi di morte conseguano alla situazione di pericolo di cui all’art. 422 c.p.
è l’ergastolo, il trattamento punitivo previsto, invece, per l’omicidio
aggravato plurimo (art. 577, comma 1, n.2) risulta consistere in una serie di
ergastoli, con conseguenze giuridiche
tutt’altro che indifferenti per il reo.
Pertanto, se incongruenze sanzionatorie sono allora
ipotizzabili anche con riferimento all’ipotesi dolosa della strage (frutto di
una riforma non sufficientemente attenta a tutte le sue implicazioni), non si
potrà certo far leva su tale circostanza per contestare la configurabilità
della fattispecie colposa di cui al delitto ex artt. 422 e 449 c.p.,
trattandosi – in ipotesi - di incongruenza che non consegue all’originaria
concezione del Codice Penale, ma soltanto ad alcune sue modifiche.
Ma al riguardo richiama l’appellante anche un’ulteriore
sviluppo interpretativo, che sarebbe idoneo in quanto tale a risolvere ogni
argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
In particolare ci si riferisce alla tesi, in dottrina, in
ordine alla possibile qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex
artt. 449 – 422 c.p. come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a
concludere per un concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione
colposa di una “strage” sviluppatasi in più eventi.
Lamenta ancora sul punto l’appellante che nella sentenza
impugnata non trovano espressa menzione
due ulteriori considerazioni generali, avanzate da questa difesa per
illustrare e “contestualizzare” la discussione circa l’esistenza del delitto ex
artt. 449 – 422 c.p.
La prima attiene all’attuale configurazione del bene
“incolumità pubblica” di cui all’art. 422 c.p, evidenziandosi da parte
dell’appellante che il caso di cui si discute in questa sede ben si concilia
con lo sviluppo non solo interpretativo
ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha conosciuto nel corso del
tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia idonea ad abbracciare
interessi rilevanti e strettamente connessi quali la salubrità ambientale e la
salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso di specie, “atti tali da
porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi suddetti si accumulino nel corso
del tempo in un progressivo acutizzarsi dei profili offensivi ed in un
conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di pericolo ed al
corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o più persone,
più eventi di morte).
Dunque, secondo l’appellante, nella fattispecie ex artt. 422
e 449 c.p. trovano adeguata collocazione molteplici elementi emersi
nell’analisi fattuale: la tutela dell’ambiente, le ripercussioni delle
alterazioni dello stesso e dei pericoli indotti sull’incolumità di una cerchia
potenzialmente indeterminata di persone, le morti di più persone, la violazione
colposa di discipline poste a tutela dei medesimi interessi, la pervasività e
la diffusività del pericolo e/o del danno.
La seconda importante considerazione “sistematica” favorevole
alla configurabilità del delitto ex artt. 449 – 422 c.p., troverebbe poi
fondamento nella consolidata definizione giurisprudenziale del “disastro”, la
cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile con le caratteristiche della
nuova fattispecie colposa generata dalla combinazione delle suddette norme
(cfr. la sentenza del 16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di
Cassazione, a giudizio della quale la nozione di disastro, in relazione ai
delitti contro l’incolumità pubblica, implica un evento grave e complesso, che
colpisca le persone e le cose, e sia altresì suscettibile non solo di mettere
in pericolo e realizzare il danno di un certo numero di persone e di una certa
quantità di cose, ma anche di diffondere un esteso senso di commozione e di
allarme; ma cfr. anche: Cass. pen., sez. I, sentenza del 10/12/1964, n.1291;
Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 28/02/1970, n.2630; Cass. pen., Sez. IV,
sentenza del 17 marzo 1981; Cass. pen., Sez. IV, sentenza del 23/07/81, n.7387;
Cass. pen., Sez. V, sentenza del 17/08/1990, n.11486; Cass. pen., Sez. IV,
sentenza del 19/05/2000, n.5820).
Concludendo sul punto
sostiene l’appellante che l’esclusione della configurazione del delitto colposo
di cui al combinato disposto degli artt. 449 – 422 cp è, pertanto, erronea,
insufficientemente motivata in relazione alle argomentazioni già prospettate
dall’accusa nel corso del dibattimento di primo grado oltre che nel corso della
stessa udienza preliminare.
3) Impugnazione
dell’ordinanza dibattimentale del 7/4/1998.
Osserva infine
l’appellante come la stessa valutazione
negativa del Tribunale in ordine alla struttura del reato che si è esaminato
avesse caratterizzato anche l’ordinanza del 7/4/1998 con la quale in Collegio,
pronunciando sulle eccezioni difensive, aveva tracciato il solco dei c.d.
“periodi di pertinenza”.
Tale indicazione,
secondo l’appellante, è da criticare nella parte in cui dimostra di non aver
inteso il valore dell’imputazione del delitto di cui agli artt. 449 – 422 cp.
così come ricostruito nel presente motivo d’appello. Si lamenta infatti che
l’ordinanza impugnata, al pari della sentenza, considera atomisticamente le
morti dei singoli lavoratori , quasi
che le stesse fossero slegate da quel contesto generale di disastro
all’interno del quale, invece, le aveva correttamente poste l’imputazione
formulata dal P.M.
Contesto generale ed
unitario, fortemente strutturato intorno a tutti i reati contro l’incolumità
pubblica contestati (e, dunque, oltre
al delitto di cui agli artt. 449-422 cp anche il delitto di disastro
innominato, quello di cui all’art. 437
cp nonché quelli di avvelenamento e di adulterazione di cui si dirà in
seguito) ma che vedeva proprio nel delitto di cui agli artt. 449-422 cp il
contenitore naturale di condotte tutte singolarmente pericolose per la pubblica
incolumità, stratificate nel tempo, dalle quali (o dal concorso delle quali) si
erano poi verificati quegli eventi-morte che, nella struttura del reato,
costituiscono condizioni di punibilità (o, al massimo, circostanze aggravanti).
Dunque anche sul
punto si chiede la riforma dell’impugnata sentenza, tanto nella decisione
assolutoria tanto nell’ordinanza che ne costituiva il fondamento logico
giuridico.
Conclusivamente
lamenta la suddetta parte civile il carattere parziale e limitato della
decisione di primo grado, quale risulta da una motivazione solo apparentemente
ricca e completa ma rivelatasi, in realtà, incredibilmente carente sotto
numerosi punti di vista. Prove decisive ignorate, assoluzioni con la formula più radicale (“perchè il fatto non
sussiste”) del tutto rimaste prive della benchè minima spiegazione, diritti
dell’accusa privata in più occasioni violati, norme penali erroneamente
applicate, travisamento del significato di numerose consulenze tecniche. Una
sentenza ingiusta, dunque, prima ancora che sbagliata, frutto di un grave
“pre-giudizio” nei confronti dell’accusa, e tutta l’impostazione che è stata
data al percorso argomentativo seguito dalla motivazione manifesta una scelta
aperta del Collegio a favore di valori
di garanzia incondizionata verso i diritti dell’imputato. Scelta
sacrosanta e condivisibile pienamente, ma, osserva l’appellante, tale rispetto avrebbe dovuto, tuttavia, essere
dimostrato anche nei confronti delle parti offese più deboli.
Quanto alle
restanti parti civili appellanti, per lo più ripropongono, alla lettera, i
motivi di doglianza, tesi ed argomentazioni del P.M., ripresi, come visto anche
dall’Avvocato dello Stato, sui temi in oggetto (sussistenza dei reati, in
special modo di quello ex art. 437 cp, causalità, natura cancerogena del cvm e
conoscenze in merito alla stessa, colpa, ecc.), con limitate specificazioni in
ordine alle vicende personali di alcune delle parti offese appellanti,
concludendo quindi tutti per la riforma della sentenza con affermazione, ai
fini civilistici, della responsabilità degli imputati in ordine agli addebiti
di cui al primo capo d’imputazione.
Circa il secondo capo d’imputazione, le
argomentazioni del Tribunale a sostegno del deciso, si sviluppano
sostanzialmente in tre parti,
cui si contrappongono le specifiche censure degli appellanti.
IL Tribunale dopo avere premesso che, anche per
questo secondo capo di imputazione, il
PM ha ritenuto necessario, in relazione alla molteplicità e complessità dei fatti ed alla estensione dei danni, utilizzare per
correttamente inquadrare le fattispecie concrete , lo schema dei delitti
contro l’incolumità pubblica ,in
particolare quello del disastro
innominato -per i danni all’ambiente e
all’ecosistema nel suo complesso- e
quello dell’avvelenamento e della adulterazione delle acque o di sostanze
alimentari – per quanto riguarda il biota vivente sul sedimento contaminato dei
canali dell’area industriale e le falde acquifere sottostanti le aree di
discarica interne ed esterne al
Petrolchimico- e ricordato che in data 13 –12 2000 è stata variata l’imputazione,
rileva che la accusa ha proposto una lettura dei fatti basata su
soluzioni in diritto controverse,e che all’esito del processo non sono state
ritenute fondate in fatto le tesi della accusa, ,né condivisibili in diritto le
ipotesi interpretative sottostanti.
Viene quindi
puntualizzata l’ipotesi
accusatoria con cui viene
contestato ad un primo gruppo di imputati
di avere realizzato e gestito discariche abusive di rifiuti tossico nocivi– gli allegati B e
C ne contengono l’elenco di 26 siti di smaltimento-
all’interno e all’esterno del Petrolchimico dal 1970 al 1988.
Ad una seconda serie di imputati, parzialmente
coincidente con la prima – ritenuti consapevoli degli illeciti dei propri antecessori e dello stato di degrado ambientale preesistente -viene invece
contestato: di avere abbandonato rifiuti tossico nocivi in violazione dell’art
9 D.P.R n 915/82;di avere stoccato senza autorizzazione rifiuti tossico nocivi nelle discariche di cui sopra senza la
autorizzazione richiesta ai
sensi dell’art 16 D.P.R. 915/82; di avere effettuato scarichi nelle acque di
fanghi di derivazione da catalizzatori esausti ,cosi come di altri
sottoprodotti di risulta dei processi
effettuati presso gli impianti produttivi – relativi alla produzione del cloro
e dei suoi derivati – in particolare gli scarichi SM2 e SM15 con il superamento
dei limiti , per quel che riguarda clorurati e nitrati, di cui alle tabelle
allegate al D.P.R n .962 /73 –di avere consentito la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti il suolo di residui tossico nocivi
e di acque di rifiuto non trattate – si tratterrebbe delle sostanze
indicate negli elenchi I e II allegati
al D .Lvo n132/1992 riguardante la
protezione delle acque sotterranee ,il cui inquinamento deriverebbe dalla
trasmigrazione passiva della pregressa
contaminazione; di avere omesso
l’adozione delle misure necessarie
al fine evitare il
deterioramento della situazione
sanitaria igienico ambientale ,dei siti contaminati, delle falde acquifere sottostanti e delle acque
finitime; di avere omesso di informare l’autorità pubblica, preposta al controllo, delle attività di discarica e smaltimento
di rifiuti tossico nocivi; di avere omesso le necessarie opere di
bonifica dei siti contaminati, iniziando un parziale interevento limitato a due
zone, solo con la richiesta di autorizzazione presentata alla Provincia di
Venezia nell’agosto del 1995.
A tutti gli
imputati viene quindi contestato di
avere, attraverso le condotte di cui ai capi a )e b) sopradescritte, causato eventi di danno qualificati come
disastro c. d. innominato – previsto
punito dall’art 434 c.p - richiamato nella imputazione- e dall’art 449
c.p- non espressamente richiamato ma da
intendersi sottinteso . data la contestazione
a titolo di colpa.
L’evento di danno consisterebbe nella contaminazione
dei diversi comparti ambientali e nella alterazione dell’ecosistema.
Vengono in
considerazione innanzitutto a tal fine
la contaminazione delle acque di falda
sottostanti la zona di Porto Marghera
, dei sedimenti dei canali e
delle acque prospicienti Porto
Marghera dovuta alla elevata concentrazione
di diossine e di altre famiglie di composti tossici, secondo quanto accertato
dalla consulenza espletata dal C. T del
P.M. depositata il 3-9-1996.
Viene poi in considerazione la compromissione del
suolo e del sottosuolo come conseguenza
della illegittima gestione delle discariche . e come conseguenza di tutte
le condotte di cui sopra viene quindi
addebitato a tutti gli imputati l’avvelenamento delle acque di falda ,
utilizzate anche per uso domestico e agricolo tramite i pozzi , l’avvelenamento
(452 e 439 c p) e l’adulterazione (452
e 440 c.p) delle risorse alimentari costituite dalla ittiofauna e dai molluschi
, contaminazione avvenuta a
seguito dell’inquinamento del biota
, a sua volta inquinato dai sedimenti contaminati dagli scarichi. e
dalle percolazioni delle discariche.
Il pericolo
derivante dalla condotte contestate sarebbe attuale e vi sarebbe di conseguenza la permanenza
in atto, benché invero il capo di
imputazione ,cosi come modificato all’udienza del 13 –12 2000 limiti i fatti all’autunno del 1995.
Il Tribunale richiama quindi le ordinanze con
cui sono state rigettate alcune
eccezioni della difesa relative alla incoerenza
o /e vaghezza della imputazione
che si sono basate sui principi
generali, relativi alla rilevanza
causale di qualsiasi condotta , che costituisca un antecedente necessario,
anche nella sola forma dell’aggravamento, dell’evento, senza che rilevi la
sua maggiore o minore importanza, la distanza temporale rispetto al momento in cui si verificato
l’evento, evidenziando però che con quelle ordinanze è anche stato ribadito che
in relazione alla funzione del diritto
penale, che è quella di accertare responsabilità individuali, la rilevanza
causale dell’apporto del singolo imputato deve essere rigorosamente provata.
Altro problema che viene esaminato è quello
costituito dal richiamo allo schema concettuale della cooperazione nel delitto colposo.
L’ipotesi
dell’accusa non si presenta come un concorso di cause tra loro
indipendenti ma richiama condotte
caratterizzate dalla prevedibilità del comportamento altrui e dalla consapevolezza di ciascuno di aderire con la propria condotta alla condotta altrui, per cui sarebbe una
reciproca consapevolezza di condotte inosservanti da cui deriva un unico evento disastroso.
In ogni caso lo schema sostenuto dalla accusa ,della
cooperazione colposa, piuttosto che quello del concorso di cause , schema ritenuto astrattamente possibile dal Tribunale, non consente
comunque di eludere il problema causale in quanto ,anche nello schema della cooperazione colposa,
condotta penalmente rilevante è quella
che , insieme alle altre ,costituisce conditio sine qua non dell’evento o,
quantomeno, può dirsi efficiente in relazione alla condotta altrui, causalmente
rilevante nella produzione dell’evento ,anche nella forma di aggravamento dell’evento preesistente.
Non potrebbe configurarsi poi la cooperazione per il solo fatto di essere consapevoli dello
stato di inquinamento pregresso se
manca un apporto quantomeno
nella forma dell’aggravamento.
Non è pertanto condivisibile la tesi dell’accusa ,
secondo cui tutte le condotte sarebbero unificate in un addebito di cooperazione colposa, in cui ,ciascun
cooperante assume corresponsabilità per l’insieme delle conseguenza prodotte
dal catabolismo del plesso industriale.
La cooperazione si ritiene configurabile solo tra
coloro che agiscono in epoca coeva ,non tra persone che agiscono in epoche
diverse, in contesti organizzativi mutati e indistinti contesti societari.
Diverso è poi il problema di una
successione nella posizione di garanzia, ma comunque sia, non potrà mai, secondo i principi generali, essere
eluso il problema delle rilevanza causale della condotta del singolo imputato,
tramite lo schema della fattispecie concorsuale nella forma colposa. Ciascun
imputato potrà essere chiamato a rispondere solo di fatti-anteriori,
concomitanti o successivi causati da
altri,solo se vi un rapporto con la sua sfera di attività , se vi è una
relazione con la garanzia dovuta, se
sussiste la prova di un nesso di causa tra la sua propria condotta -non quella
dell’azienda- e l’evento.
La imputazione in tema di disastro innominato,
ancor prima di essere infondata in fatto lo è in diritto perchè comporta
accuse indifferenziate non compatibili con il principio della personalità della
responsabilità penale.
Centrale nell’ipotesi accusatoria è la figura del
reato di disastro innominato - disastro ecologico permanente - che si
concretizza nella mancata bonifica di siti contaminati da altri in antica data.
Secondo il Tribunale invece si può parlare di reato permanente solo quando l’offesa al bene
giuridico si protrae fino all’attualità per effetto della persitente
condotta del soggetto.
Secondo l’accusa è causale anche la condotta inattiva
di chi subentra nella titolarità dei siti
inquinati, condotta che si concretizza in una serie di omissioni,intese
come violazioni dell’obbligo di attivarsi per la bonifica di quanto contaminato
da terzi antecessori in antica data.
Ed in questa prospettiva l’accusa trascura di
verificare l’epoca della contaminazione
e l’apporto che ciascuno degli imputati
vi avrebbe avuto in termini quanto meno
di aggravamento.
Il Tribunale ritiene invece che perché una condotta
omissiva sia penalmente rilevante debba
individuarsi in capo al soggetto quell’ obbligo ,il cui adempimento è stato omesso , obbligo che non sussiste, nella fattispecie , nei confronti di chi
succede nella disponibilità di un sito
contaminato da terzi.
Non esisteva infatti nel nostro ordinamento , prima
del D Lvo n22 /1997, un obbligo generale di bonifica di siti contaminati da terzi
in antica data a carico del successore nel potere di impresa o nella
titolarità del diritto o nel potere di fatto su un sito già
precedentemente inquinato.
Rileva anche il Tribunale come nel testo della
imputazione vi siano una pluralità di
riferimenti normativi relativi a violazioni costituenti titolo
contravvenzionale , che assumono rilevanza con
riferimento alle principali imputazioni , come titolo di colpa specifica .
Ed ancora
viene rilevato come, secondo la interpretazione autentica da parte dello
stesso organo dell’accusa, il reato di disastro innominato sia unico ,
riguardando sia il primo come il secondo capo di accusa, in quanto l’attività
di industria ha esplicato i suoi effetti negativi,sia all’interno come all’esterno della fabbrica, con la
conseguente continuazione tra tutti delitti contestati nel primo
e nel secondo capo d’accusa e la
continuazio0ne interna tra i reati ipotizzati in ciascun capo di accusa.
Ma il
Tribunale non ritiene essere compatibile la continuazione con l’elemento
soggettivo della colpa.
Della ritenuta
compatibilità della fattispecie di disastro innominato colposo con il principio
costituzionale di stretta legalità.
Viene quindi osservato come le fattispecie richiamate dagli art 449 e 450 c.p contengano
entrambe il riferimento al termine disastro -termine generico- soprattutto
nella ipotesi di cui all’art 449 e 434
c.p., in cui viene usato il predetto termine ,senza alcuna ulteriore
specificazione sul fatto costituente la
fonte del pericolo.
E sulla indeterminatezza della fattispecie la difesa ha fondato la eccezione di
costituzionalità che è stata ritenuta
manifestamente infondata dal Tribunale
con le argomentazioni che sinteticamente si ricordano.
Evidenzia il
giudice di primo grado che nell’ipotesi di cui all’art 449 c.p. il disastro,
anche quello innominato, come evento di danno grave complesso ed esteso ai
singoli comparti ambientali e all’ecosistema nel suo insieme ,deve sussistere e
come in entrambe le fattispecie per definizione deve sussistere una situazione di messa in pericolo della pubblica incolumità; che nei reati di
danno è però necessario anche che sia accertata una serie cospicua di eventi
di danno alle cose, mentre invece nei reati di pericolo basta la probabilità del verificarsi
dell’evento di danno alle cose; che la sussistenza del reato
comunque non può prescindere dall’accertamento della intrinseca idoneità
del danno ,cagionato alle cose, a porre
in pericolo, in modo serio ,reale la incolumità delle persone.
Capitolo terzo
Dalla
destinazione a discarica delle ventisei aree nominate in imputazione , alla
contaminazione da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo rilevante in termini di disastro colposo
Dalla
contaminazione del suolo e sottosuolo a quella delle falde acquifere
e delle acque dei pozzi che ad esse
attingono rilevante in termini di loro avvelenamento o adulterazione
3.1 premesse
Preliminarmente nella sentenza vengono richiamati gli
addebiti rivolti specificatamente al primo gruppo di imputati e quindi viene premesso che ,nel trattare gli effetti del catabolismo degli
impianti sul suolo, sottosuolo e quindi sulla falde acquifere, l’accusa ha
considerato in modo distinto le
discariche interne da quelle esterne all’area di insediamento del
Petrolchimico e che secondo lo stessa
schema accusatorio verranno dal Tribunale valutate le risultanze probatorie
Dagli esiti delle prove assunte risulta quanto alle discariche interne : che le
acque di falda- oggetto dell’indagine processuale sono le acque della prima
e della seconda falda- attinte dal percolato di discarica verticale sono in
suscettibili di qualsiasi utilizzo per la loro modestissima portata. che
l’inquinamento delle acque di falda, sottostanti il plesso industriale , non ha
potuto attingere, seguendo processi di
trasferimento orizzontale , acque e
sedimenti dei canali lagunari confinanti con l’area industriale, perché il
flusso del primo acquifero verso la laguna è privo di significato- tali falde
sono pressoché stagnanti- né i pozzi verso l’entroterra, perché il terreno
scende in direzione opposta verso la
laguna .
In sintesi la alta concentrazione di inquinanti che
caratterizzano le discariche interne sono contenute nelle zone sottostanti e non si sono verificati significativi spostamenti
Per le falde acquifere sottostanti le discariche esterne l’inquinamento orizzontale è
escluso per mancanza di dati .
Solo in tre casi –tre discariche-la prima falda
acquifera risulta contaminata , non vi
è però prova del trasferimento orizzontale
della contaminazione dall’ambito
sottostante le aree di discarica a
quello da cui attingono i pozzi.
Ne conseguente la
infondatezza delle accuse che derivano dall’ipotesi di avvelenamento
delle falde acquifere del suolo e sottosuolo
Dopo avere evidenziato con le predette argomentazioni che non vi è prova di una
situazione di pericolo per la incolumità pubblica, relativamente alla
situazione delle discariche viene osservato che non vi è alcuna prova in ordine
alla realizzazione –gestione-utilizzo delle discariche senza titolo o in
violazione delle norme di protezione
ambientale vigenti all’epoca del loro
esercizio .
Viene poi evidenziato che , per il periodo antecedente
l’82, l’accusa non indica quale norma
generica o meglio regola o cautela avrebbe dovuto essere adottata e non risulta
esserlo stata, né fornisce alcuna prova
di un aggravamento dello stato di contaminazione preesistente.
Capitolo 3.2
Dalla contaminazione
da sostanze tossiche del suolo e sottosuolo nell’ambito dell’area di
insediamento del plesso industriale,
in relazione allo stato delle c. d discariche interne (rilevante in termini di
disastro innominato colposo) alla contaminazione delle falde acquifere e delle acque dei pozzi che ad esse
attingono (rilevante in termini di avvelenamento o adulterazione).
Della efficienza di
un processo di trasferimento orizzontale
della contaminazione dalla falde sottostanti l’area di insediamento del
plesso industriale verso i pozzi siti a monte e verso i canali
lagunari finitimi
Viene fatta innanzitutto una descrizione della zona in cui insiste il
plesso industriale in questione ed
evidenziato come sia incontroverso che ,all’interno dell’area di insediamento
del plesso industriale, esistano antiche discariche di rifiuti
Richiamate le
risultanze precedenti per quanto
riguarda il rispetto delle normative in vigore viene quindi ulteriormente evidenziato come la gestione della massima
parte dei siti di discarica nominati
in imputazione sia andata
materialmente esaurendosi prima della
entrata in vigore della disciplina transitoria
di cui al DPR n.915/82.
Su tale circostanza sono state raccolte le
deposizioni testimoniali di Spoladori –Pavanato Gavagnin e Chiozzotto.
E prima dell’entrata in vigore del DPR 915/82 la attività di gestione dei rifiuti trovava la sua disciplina nell’art 216 T. U
.L. S e nelle vigenti previsioni di
piano Norme Tecniche di
attuazione del Piano Regolatore Generale di Venezia del 1956 che fornivano all’art 15 la seguente indicazione “ nella zona industriale troveranno posto
prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo , polvere
o esalazioni dannose alla vita umana ,che scaricano sostanze velenose
,che producono vibrazioni e rumori .
Varianti al piano regolatore sono state adottate dal Comune di Venezia solo nel marzo del
1990.
Riprendendo la descrizione del luogo in cui è
stato realizzato il Petrolchimico viene
ricordato che l’area di sedime, in cui è insediato il complesso industriale , è
stata in gran parte realizzata mediante ’imbonimento delle zone di barena,
attuato mediante la utilizzazione di materiale dragato e rifiuti e residui di
lavorazioni industriali fino agli anni 70 e fino al raggiungimento di spessori
medi di riporto di 2,5-3 metri sopra il
livello del mare
E tale origine
del Petrolchimico risulta ampiamente documentata in particolare dalla cosiddetta convenzione Levi intervenuta con la Regia
amministrazione che prevedeva . appunto l’utilizzo dei rifiuti
industriale per imbonire le zone
arenose .
Più della meta della superficie oggetto della
convenzione risulta essere oggi occupata dall’area di insediamento del Petrolchimico.
ED in tale ambito –molti anni dopo - sono stati
scavati il canale industriale sud , il canale industriale ovest ed il canale
Malamocco-Marghera e dove le sponde non
sono protette o dove la protezione è
permeabile o danneggiata i materiali
vengono sistematicamente erosi
,entrando in soluzione nelle acque lagunari o disperdendosi sul fondo dei
canali stessi.
Dopo aver ricordato lo schema giuridico utilizzato
dall’accusa incentrato sulla figura del
disastro ecologico – art 434 c.p - e
della cooperazione colposa, tramite
omissione, assumendo la rilevanza di
una permanenza in atto delle condotte di reato (come omessa bonifica della
contaminazione preesistente) e la permanenza dei suoi effetti , osserva il
collegio come l’ipotesi sopradelineata
finisca per trascurare la prospettiva della rilevanza causale delle
condotte dei singoli imputati, cui viene riferito l’evento contaminazione – e
quindi si allontani da una schema
concettuale accettabile , quale un evento di danno alla cose causato per accumulo di differenti apporti nel tempo,
Non potendosi accettare la configurazione di cui
sopra sarebbe stato necessario
accertare se i singoli imputati avessero potuto recare tramite
la loro condotta – di gestione della discarica attiva od omissiva – un
ulteriore apporto rilevante in termini
di aggravamento.
Non rileva
invece secondo l’ipotesi accusatoria accertare se ci sia stato o meno un
apporto causale della condotta di ciascuno ,trovando fondamento la
responsabilità di tutti gli imputati nella consapevolezza della esistenza
dell’inquinamento e nella violazione
dell’obbligo di bonifica.
Rimane cosi estraneo al programma della pubblica
accusa la verifica dell’apporto di ciascuno, durante la gestione della discarica , all’aggravamento dello stato di
contaminazione preesistente.
Le tesi dell’ accusa sono comunque non solo non
condivisibili in diritto ma anche infondate in fatto
Vengono quindi ripetute le ragioni per cui risulta
irrilevante l’inquinamento delle falde - sottostanti il sedime delle discariche sia interne come
esterne e cioè sostanzialmente la loro inutilizzabilità per qualsiasi uso antropico e riportate le considerazioni tecniche su cui si basano le conclusioni di cui sopra ,mediante una descrizione dettagliata delle
condizioni del suolo e del sottosuolo e della struttura stratigrafica- dati tecnici questi su cui concordano tutti gli esperti delle parti.Da
atto poi il tribunale di come si sia
accertato che la contaminazione , partendo dal piano di posa dei
rifiuti, attinge le falde acquifere
sottostanti lo strato di caranto ,
fino a raggiungere il secondo
acquifero,ad una profondità superiore ai venti metri .
Ed, essendo accertato
il passaggio dell’inquinamento del sedime al primo e secondo acquifero, tanto basterebbe secondo la accusa a provare l’avvelenamento delle acque – come
risorsa alimentare - essendo irrilevante ai fini del reato di cui all’art 439 c.p la non attualità della loro
destinazione alla alimentazione , bastando quella potenziale , che potrebbe
rendersi necessaria ad esempio in
particolari condizioni di siccità–
Tale tesi ,condivisibile secondo il Tribunale in
linea di principio , non lo è in concreto perché le acque della
prima e della seconda falda sono
assolutamente inutilizzabili per qualunque
uso industriale o antropico, attesa la loro bassa portata- praticamente
stagnanti e le loro originarie
caratteristiche.
Anche pensando insussistente lo stato di inquinamento
, le falde sottostanti l’area del
Petrolchimico sarebbero
inutilizzabili per qualsivoglia uso.
Le prove raccolte consentono conclusivamente di
ritenere con certezza che, nell’area di Porto Marghera, l’utilizzo
delle falde entro i primi 30 metri di profondità non è in alcun modo
ipotizzabile
Quanto alla tesi accusatoria del trasferimento
orizzontale - sia verso i pozzi a monte e verso i canali lagunari finitimi -
del percolato di discarica attraverso
l’acqua di falda inquinata, osserva il
Tribunale come l’inquinamento derivante
dal sottosuolo attraverso le falde non attinga le acque e i sedimenti dei canali lagunari in termini realmente
efficienti la loro contaminazione
,perché il flusso del primo acquifero( il solo che comunichi con i canali non essendoci possibilità di comunicazione
per il secondo acquifero perché piu profondo del fondo della laguna ) verso la laguna è insignificante ( si tratta di quattro litri/secondo lungo tutto
il perimetro dell’area di
insediamento del plesso
industriale 7-8 Km).
Al lento movimento delle falde- cui è attribuibile
una velocità di deflusso dell’ordine di grandezza del metro /anno - va poi
aggiunto per gli inquinanti il cosiddetto”coefficiente di ritardo”, dovuto
al rallentamento che la presenza di sostanza organica attua nei confronti dei contaminanti , che
tendono a fermarsi aderendo ai granuli di terreno, per cui la velocità di movimento dell’inquinante
è sempre inferiore a quella della falda anche di qualche decina
di volte.
Su tali dati concordano i tecnici di entrambe le
parti che indicano un valore approssimativo della portata della prima
falda lungo tutto l’area del
Petrolchimico dell’ordine di 4 litri/ secondo ed un tale
modesto apporto risulta
ininfluente in termini di rilevanza causale.
Alle conclusioni di irrilevanza della contaminazione
derivante dal percolato di discarica attraverso le falde acquifere, con riferimento alla inquinamento
dei sedimenti e delle acque, dei canali lagunari finitimi al plesso industriale , fa seguire il Tribunale una sintesi dei
risultati degli esami analitici eseguiti , che hanno dimostrato la presenza di un inquinamento in misura che va diminuendo, man mano che si passa
dalle acque di impregnazione negli
strati superficiali alle acque della
prima e della seconda falda ed inoltre
viene aggiunto che l’eventuale moto di trasferimento orizzontale della
contaminazione risulta ostacolato dall’ingressione dell ‘acqua marina , che determina una consistente diluizione
degli inquinanti
Altro dato certo risulta poi essere quello della insussistenza di un
trasferimento orizzontale della contaminazione dal sottosuolo, cioè dagli
acquiferi situati sotto l’area di insediamento
del plesso industriale , verso monte
essendo dato un gradiente che declina nettamente a scendere verso la
laguna e peraltro non sono stati trovati inquinanti di origine
industriale nei pozzi oggetto di campionamento.
Viene esaminata
anche la deposizione sul punto del teste Chiozzotto valorizzata dalla difesa
e contrastante con le diverse ma tra
loro concordi valutazioni dei tecnici di entrambe le parti , che viene
ritenuta dal Tribunale non rilevante perché non aggiunge né toglie nulla al quadro probatorio gia esaminato e
risulta inoltre contraddetta dalle
valutazione dei tecnici di entrambe le parti .
3.3 Dalla
contaminazione da sostanze tossiche del suolo e del sottosuolo in aree diverse
da quella di insediamento del plesso industriale in relazione alle cosiddette discariche esterne ( rilevante in
termini di disastro innominato colposo)
alla contaminazione delle falde acquifere e della acque dei pozzi che ad esse attingono,rilevante in termini
di avvelenamento ( o adulterazione )
Anche per le discariche esterne, la cui esistenza è
incontroversa, valgono innanzitutto le
considerazione gia fatte per quelle interne ,
sia per quanto riguarda tempi e
modi della loro gestione, sia per
quanto riguarda le loro caratteristiche
tecniche nonché l’inquinamento delle
falde sottostanti.
Osserva anche il
tribunale ,quanto ai dati probatori acquisiti che per 13 discariche
esterne mancano completamente i dati , e
che mancano per tutte, al di fuori di tre, i dati relativi allo stato delle falde, risultando inquinate
solo le acque di impregnazione , cioè quelle immediatamente sottostanti lo
strato di rifiuti e sovrastanti la
linea del caranto.
Nei tre casi in cui risulta inquinata l’acqua della
prima falda non vi è però alcuna prova di trasferimento orizzontale, così come
non risultano mai prove di contaminazione da processi di lavorazione
industriale nelle acque dei pozzi oggetto di campionamento né vi è prova che
l’inquinamento del suolo e sottosuolo sia riferibile a fatti di gestione di rifiuti in discarica , attuati
dagli imputati che avrebbero gestito le discariche in conformità delle regole
vigenti .
3.4
Della
mancanza di fondamento giuridico della accusa di concorso nel reato di disastro
avvelenamento o adulterazione mediante omessa bonifica o messa in sicurezza di
siti contaminati da terzi antecessori
in epoche pregresse
Della
carenza probatoria in punto di fatto degli addebiti di ritardo nella bonifica
mossi agli imputati di appartenenza Enichem
Della
carenza probatoria pertinente agli addebiti di colpa riferiti agli imputati di appartenenza
Montedison.
Conclusioni
pertinenti alle accuse fin qui considerate
Premesso che non risultano provate ,all’esito dell’istruttoria dibattimentale ,
condotte connotate da antigiuridicità
nella gestione dei rifiuti in discarica da parte degli imputati di appartenenza Enichem esercenti potere
d’impresa dopo il 1983, rileva il Collegio come nei reati casualmente orientati , quali il disastro innominato sia l’evento a svolgere la necessaria funzione tipizzatrice nel senso
che devono essere provate non solo le
condotte contrarie alle regole
generiche o specifiche , finalizzate ad impedire il verificarsi dell’evento
dannoso, ma anche il verificarsi
dell’evento , in quanto il
carattere colposo della condotta non
può prescindere dalla esistenza di un nesso di causalità definito.
L’accusa
invece assume unicamente come dato rilevante
la esistenza delle antiche discariche attive non oltre la fine degli anni 70 ,quando l’azione di
smaltimento dei rifiuti nelle forme
praticate dagli imputati era quella adeguata alle valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina vigenti
La costruzione accusatoria , da cui deriva la
responsabilità e prima la riferibilità giuridica a ciascun
imputato della contaminazione , si basa
sulla esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, come conseguenza
della posizione di garanzia rivestita dagli imputati , per il non
verificarsi dell’evento disastro o avvelenamento o adulterazione , e con una sostanziale equivalenza della
azione all’omissione sotto il profilo
causale.
È infatti in questo quadro che si svolgono le
contestazioni relative a tutte le
condotte omissive contestate , per cui
viene ritenuto sufficiente accertare
che non sia stato impedito l’inquinamento, omettendo nelle
fattispecie la bonifica degli antichi
siti di discarica, a cui per la posizione di garanzia gli imputati erano
tenuti.
Centrale nella tesi accusatoria è infatti la esistenza e quindi la esigibilità
dell’obbligo di bonifica delle discariche realizzate e gestite in passato da
altri secondo l’art 25 D.P.R.915/82 .
Ma invero tale tesi
dell’accusa è in contraddizione
con l’indirizzo giurisprudenziale
,confermato dalla sentenza delle
Sezioni .unite C. C 5-10-1994, che ha affermato come diversa sia la realizzazione e la gestione della
discarica ,condotte che possono
assumere entrambe la forma del reato permanente , dal mero mantenere nell’area
i rifiuti scaricati quando la discarica
sia stata chiusa , condotta questa non riconducibile alla gestione delle
discarica in senso proprio .
L’accusa a sostegno della propria tesi richiama altre sentenze della C .C del 4-11- 1994 e 29-4-1997 che però riguardano fattispecie diverse , in
cui si discute di condotte contestuali alla
gestione delle discariche.
Conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite è
invece anche la successiva sentenza
della C.C 2-7-1997 che afferma analogo principio , anche dopo l’entrata in vigore del D l vo 22/1997 ,che ha
abrogato l’art 25 del D. P R. 915/82
sostituendolo con l’art 51 comma
3
E sulla base della giurisprudenza citata il reato è
permanente , solo però per il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva
La norma incriminatrice ha riguardo solo alla
fattispecie commissiva , e l’equivalenza del non impedire al causare presuppone la esistenza
della giuridicità dell’obbligo di impedire, obbligo che non può derivare
dalla pura semplice disponibilità della discarica .
Ribadita la necessità di una norma agendi specifica ,
quale fonte dell’obbligo di impedire l’evento
osserva il Collegio che le norme –altre dall’art 25 D .P R N n.915 /82-
richiamate dall’accusa come fonte dell’obbligo giuridico di
attivarsi per la bonifica dei siti contaminati da altri antecessori in nessun
modo possono essere ritenute tali.
Alcune hanno contenuto analogo a quella del D.P.R., quale l’art 10 L. 5-3- 1963 n. 366, l’art 9 L 16-4 -1973 n.
171 l’art 3 D.P.R. 20-9-1973 n 962 gli
art 1 e 3 L .R. 23 –4 -1990 n.28
Richiamate tali norme ritiene l’accusa che pure il
semplice mantenere discariche
contribuisca alla dispersione di sostanze inquinanti mediante
trasmigrazione passiva.
Il mantener discariche – osserva invece il Collegio-
concreta quella condotta omissiva che la C .C esclude possa integrare il reato
di discarica abusiva , per la ribadita
inesistenza di un obbligo di
attivarsi per la bonifica di siti contaminati da terzi antecessori e per
la necessità di individuare una
norma su cui fondare o da cui derivare
l’esistenza di un obbligo di fare , con la conseguenza che il non fare viene ad
integrare una fattispecie criminosa.
Non
contengono obblighi di disinquinare neppure le altre norme generiche
citate dal P. M .quali l’art 1 L.16-4-1973 n171 , l’art 28 L 5-3 1963 n366 ,art
217 T. U. L .S del 1934.
Trattasi in tutti i casi di norme che non prevedono
un obbligo generale di attivarsi per la bonifica , bensì conferiscono poteri di
intervento alla P.A., che può imporre
determinati obblighi di ripristino in
presenza di particolari situazioni.
Tra le norme richiamate vi sarebbe anche l’art 14 2°
comma D .L. vo .n132/92
-disciplina transitoria della legge concernente la protezione delle
acque sotterranee- che riguarda i termini entro cui presentare la domanda
per una nuova autorizzazione ad effettuare operazioni di eliminazione o
di deposito di rifiuti, che comportino scarichi indiretti ,gia autorizzati
dal d p r n915/82.
Tale norma secondo l’accusa consentirebbe di ritenere
che, anche il solo deposito di rifiuti in discariche chiuse ,avrebbe bisogno di
autorizzazione ai sensi del d.p.r
915/82 ciò che non è riguardando la
disciplina del citato D.P.R solo le attività di gestione dei rifiuti e non
situazioni di discariche gia esaurite
Altra fonte dell’obbligo di bonifica sarebbe stata
individuata nella Delibera del comitato interministeriale del 27-7-1984 al punto 7, che invece risulta chiaramente avere contenuto
diverso riferendosi ad impianti preesistenti, trasferiti o modificati, ma
ancora attivi e gestiti al momento delle entrata in vigore della nuova
normativa e non discariche o impianti
cessati prima della sua entrata in vigore .
Viene quindi ribadito che l’omissione è in realtà
inconcepibile senza pensare alla norma impositiva dell’agire , non tutte le omissioni rilevano ma solo
quelle violative di un dovere giuridico di fare .
Conferma
ulteriore delle inesistenza di un obbligo di bonifica viene dall’art 17 D L. vo n22 /97 – decreto
Ronchi- che per la prima volta prevede l’obbligo di bonificare e ripristinare
le aree inquinate nel caso di superamento di determinati limiti di
accettabilità della contaminazione.
Il silenzio della disciplina previgente porta
invece ad escludere che sussistesse un
obbligo generale di bonifica.
Anche alla stregua della disciplina vigente sembra
comunque escluso un obbligo generale di bonifica del sito contaminato al di fuori della ipotesi di cooperazione
colposa
L’ipotesi
accusatoria rimane comunque anche in
fatto priva di fondamento risultando, dalle prove acquisite e dalla valutazione in concreto dei tempi e dei modi
di adempimento agli obblighi di disinquinamento, la legittimità della condotta degli imputati ,che avrebbero
rispettato le norme tenendo conto del momento
della loro entrata in vigore
,della estensione del sito inquinato della complessità degli interventi – vedi
confronto con altre analoghe esperienze e relazione Francani e Alberti in
data 20-4-2001.
In particolare non risulta giustificata la
contestazione specifica circa la intempestività degli interventi relativi alle discariche di cui
alle zone 31 e 32 in quanto nessuna prova adeguata è stata fornita da
chi ne aveva l’onere circa ritardi od
omissioni nella esecuzione di interventi di disinquinamento.
Prima della entrata in vigore della normativa di cui
al D. L vo n 22/1997 ,a livello locale,
era stato raggiunto un accordo di programma, per la chimica di Porto Marghera e successivamente un accordo integrativo ,per meglio definire le procedure di
approvazione dei progetti e degli interventi, che risulta essere stato osservato da Enichem.Il Tribunale ribadisce
quindi e sintetizza i principi
generali, già prima esposti. ribadendo
la necessità che venga individuata la norma giuridica, di cui si addebita la
omissione, ed inoltre , trattandosi di reati di evento, che tra la ipotizzate
omissione e l’evento dannoso,risulti
accertata la esistenza del nesso di
causalità materiale .
Ciò che non è stato fatto né per gli imputati della
Montedison che gestirono rifiuti in
discarica quando tale pratica era abituale e non regolata , né per gli imputati
Enichem che ,dopo l’entrata in vigore della disciplina autorizzatoria, non risulta abbiano commesso alcuna violazione delle normative in vigore
Dopo avere quindi riaffermato che, prima dell’82, non
esisteva una disciplina normativa relativamente allo smaltimento dei rifiuti,
evidenzia il Tribunale che una “norma agendi”, intesa come comportamento,
che avrebbe dovuto essere tenuto e che
non lo è stato ,non risulta neppure enunciata o addebitata nell’ipotesi
accusatoria, e che il Tribunale ha comunque verificato che, le modalità di
gestione dello smaltimento dei rifiuti da parte degli imputati ,sono state
conformi a quelle seguite da chi svolgeva analoghe attività , e che
nessuna cautela o modalità
diversa risulta adottata da un agente modello, a cui confrontare la
condotta dell’agente reale .
Sul punto la enunciazione della accusa non si
concretizza mai ,rimanendo ferma ad un livello di indeterminatezza ,che
interessa tanto l’epoca precedente quanto l’epoca successiva all’entrata in vigore
del D.P.R 1982/915,mentre una “ norma agendi” a cui confrontare la condotta
degli imputati, un parametro di diligenza esigibile dagli imputati usciti di
scena prima del D.P.R.915/82 avrebbe
dovuto essere comunque determinata.
Prima dell’entrata in vigore della suddetta normativa ,nessuna delle norme indicate
dall’accusa e relative alla salvaguardia di Venezia conteneva una
disciplina relativa al catabolismo nel suolo , in particolare anche la norma di
cui all’art 9 d.p.r n 962/73 aveva un contenuto del tutto generico, che non consentiva nè al privato nè alla P. A di
individuare le regole o le prescrizioni da adottarsi.
È solo nel
periodo compreso tra il 1970 ed il 1982 che prendono forma le prime iniziative
di gestione dei rifiuti secondo le tecniche allora conosciute e la Montedison, vigendo valutazioni tecniche
e di disciplina che rendevano problematica la scelta, si affidò all’unica
impresa che produceva impianti di incenerimento in Europa, commissionandole il
primo impianto di incenerimento di sottoprodotti clorurati organici nel 1972.
Il funzionamento dell’inceneritore è stato poi
oggetto di valutazione tecnica,nel contraddittorio delle parti,a causa del rilevato pericolo di provocare lo
sviluppo di diossine .
Ma sul punto rileva il Tribunale come l’accusa non sia riuscita a dimostrare
che gli imputati potevano, in base alle conoscenze tecniche dell’epoca ,
riconoscere le condizioni iniziali rilevanti, proprie della formazione di
diossine.
In ogni caso sul punto risulta dalla deposizione dei
testi che le temperature erano elevate e quindi il rischio di formazione delle
diossine ridotto e che le analisi fatte dall’università non avevano rilevato tracce di diossine.
Come poi si vedrà , la questione relativa allo
smaltimento delle peci clorurate ha assunto nel processo un particolare valore
, atteso che, secondo l’ipotesi accusatoria formulata, in base alla consulenza
Ferrari , tali rifiuti sarebbero stati
smaltiti tramite autobotti e bettoline fuori dal plesso del Petrolchimico, nel
canale Nord e nel canale Bretella
L’ipotesi è rimasta però priva di riscontri ed al
contrario proprio l’esistenza
dell’inceneritore proverebbe il contrario, considerato anche che, prima
di usare l’inceneritore, Montedison usava stoccare i rifiuti in fusti,nelle
immediate vicinanze dei reparti
interessati, per poi interrarli in discarica.
Le deposizioni testimoniali consentono di
ritenere provato che tutti i rifiuti erano stati depositati nelle discariche prima del 1982 e che successivamente lo smaltimento dei rifiuti era avvenuto solo
nei luoghi autorizzati e con modalità conformi a quelle previste dalla
prescrizioni accessorie alle autorizzazioni e comunque, quando le deposizioni
testimoniali non sono sufficienti, non risulta
provato il contrario.
In
particolare risulta dai documenti
prodotti dallo stesso P. M che la discarica Dogaletto,era stata chiusa
nell’estate 1971 , mentre la discarica interna, sita in area 31-32 c .d
Katanga , considerata particolarmente rilevante per la sua estensione e per il suo prolungato uso, risulta da
precise deposizioni testimoniali , che era stata esaurita e chiusa prima del
1983 – vedi la deposizione del teste
Spoladori e dei testi Gavagnin e Mason - dalle quali risulta che la discarica
predetta era stata aperta nel 1976 ed
esaurita nel 1982.-
Non
consta quindi che siano state gestite dopo il 1983 discariche senza titolo o
violando le prescrizioni accessorie ;
una tale ipotesi non viene peraltro neppure esaminata
dalla accusa che basa le sue richieste
sulla equivalenza ,della mancata
bonifica delle discariche
definitivamente cessate in epoca pregressa all’assunzione del potere di
impresa da parte del singolo imputato,
alla gestione senza titolo.
Di fatto
risulta comunque che nel 1988 venne iniziata la bonifica della discarica Dogaletto e che successivamente venne dato allo stesso ingegner Gavagnin
l’incarico di mettere in sicurezza la discarica in sito Malaga e di studiare la
cauterizzazione necessaria per la bonifica della area 31-32 e dei sedimenti
de canale Lusore- Bretelle , antico corpo recettore degli scarichi di
provenienza del Petrolchimico.
Sintetizzando nell’ultima parte del capitolo le motivazioni prima
esposte osserva conclusivamente il
Tribunale come sia infondata l’ipotesi accusatoria per quanto riguarda la contaminazione del
suolo e del sottosuolo, rilevante in termini di disastro colposo e per quanto riguarda altresì l’accusa di
avvelenamento o adulterazione delle acque delle falde sottostanti ai siti di
discarica
( Le pagine della sentenza da numero 575 a 578 contengono una sintesi della motivazione
sopra esposta e contenuta nelle pagine
da 477 a 574 ).
Parte terza
Capo di imputazione n 2 Parte
ambientale
Capitolo 3.1
La deformazione della accusa operata dal Tribunale
Il disastro innominato e l’art 437 c.p.
3.1 Il P. M evidenzia nelle premesse dell’appello la deformazione
dell’accusa operata dal Tribunale. Secondo il P.M, il Tribunale, pur dando atto
in questa seconda parte della
motivazione della sentenza, della
modifica dell’imputazione intervenuta all’udienza del 13-12 2000, ha come nella
prima parte della decisione
deformato le accuse del PM ed
erroneamente ritenuto che l’accusa avesse formulato delle contestazioni generiche e generalizzate.
A) Esempi della deformazione.
Mentre risulta dal
capo di imputazione, che i fatti sono stati contestati in modo specifico,
indicando i luoghi in cui l’inquinamento delle acque e dei sedimenti viene ricondotto
alla attività del Petrolchimico e addebitandone la causa a ciascuno degli imputati, che avrebbe contribuito a darvi origine o ad incrementarlo, in modo
altrettanto preciso e, con riferimento
ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico all’interno
della azienda,il Tribunale ha invece parlato
di zona industriale nel suo complesso ,di decenni di catabolismo industriale ,di decenni di gestione del plesso
produttivo , usando termini che l’accusa mai aveva impiegato.
Al contrario di quanto affermato sono invece ben individuati nella imputazione i
luoghi inquinati : i siti delle discariche, le acque di falda,
i sedimenti e le acque dei canali e
specchi lagunari prospicienti Porto
Marghera, dal cui inquinamento sarebbe
derivato l’avvelenamento o
l’adulterazione della ittiofauna
e dei molluschi a causa della gestione degli impianti appartenenti al ciclo del cloro.
B) Non è
poi vero che sia stato contestato il
disastro innominato permanente. ma solo
la permanenza in atti degli effetti,mentre le condotte risultano nel capo
d’accusa chiaramente e temporalmente ben delimitate, e di tanto invero ne aveva
dato atto lo stesso Tribunale con l’ordinanza del 2-2-2001 di rigetto delle eccezioni di indeterminatezza delle imputazioni sollevate dalla difesa.
C) Prima di
passare ad una rassegna critica dei vari punti della sentenza premette quindi il P.M come siano
condivisibili i principi generali
enunciati dal Tribunale e sviluppati nella pagine 482 e 483- in materia di rapporto di
causalità,– art 40c.p. - secondo cui il rapporto di causa si identifica con
quello di un fattore e necessario,rispetto al verificarsi dell’evento per cui
, una volta accertatane l’esistenza ,rimane privo di rilievo, ai fini del giudizio penale, valutarne
l’intensità dell’apporto e – in materia
di concorso di cause – art 41 c. p-
secondo cui in presenza di piu
fattori causali ,addebitabili a più
persone, succedutesi nel tempo, è
irrilevante stabilire quale sia
più prossimo e quale piu remoto.
È infatti in base a questi principi che sono
state respinte tutte le eccezioni di
nullità sollevate dalle difese con riferimento a profili di in coerenza interna
o di vaghezza della imputazione.
Non sono invece
affatto condivisibili le successive
deformazioni delle tesi dell’accusa ,
operate dal Tribunale e che derivano dalla premessa ,secondo cui , avrebbero dovuto assumere rilevanza nelle indagini le condotte che avevano determinato condizioni di aggravamento dell’evento gia verificatosi;
aveva infatti sempre l’accusa parlato nel capo di imputazione di
contributi dei singoli imputati alla causazione e /o all’incremento dei
diversificati inquinamenti ,individuandone altresì la fonte negli impianti del ciclo del cloro
dettagliatamente indicati nel capo di imputazione.
E questi danni
sono diversi da quelli generici e
generali cui fa riferimento la difesa ed il Tribunale.
D) Non contesta
poi il P.M , ed ancora una volta
l’accusa viene deformata, che ciascuno debba rispondere per come ha adempito
alla garanzia da lui dovuta e nei
limiti dell’apporto recato, non potendo mai l’imputato rispondere di fatti che
non siano casualmente riconducibili
alla sua condotta, ma risultino causati da altri.
Mai il P.M. ha
preteso di addebitare a ciascun
imputato, condotte diverse da quelle sue proprie ,nè conseguenze che alle
predette condotte non siano riconducibili in base al nesso di causalità
Non risulta
inoltre che il tribunale abbia preso in considerazione il disastro
contestato ai sensi dell’art 437 c.p.
Viene quindi
avanzata la prima richiesta di riforma
totale della sentenza di primo grado.
Capitolo 3.2
Le norme esistenti prima del 1970
Il divieto di scarico dei rifiuti industriali
Presentazione della tesi fatta propria dal Tribunale
Osserva poi il PM come i primi giudici, abbiano escluso l’esistenza , in materia di
gestione dei rifiuti industriali, di norme agendi prima del D.P.R.915/82;
abbiano ritenuto la
conformità delle modalità di gestione
dei predetti rifiuti da parte degli
imputati a quelle utilizzate da chi svolgeva attività simili;
abbiano affermato
che la gestione dei rifiuti prima dell’82
trovava la sua disciplina
nell’art 216 TULS. e nell’art 15 del P. R .G del 1956 che destinavano la zona industriale agli impianti
inquinanti .
Contrariamente a quanto sopra affermato e che viene punto per punto contestato vi
erano invece delle norme di riferimento
in materia di rifiuti ed a queste
norme gli imputati avrebbero dovuto
attenersi .
Innanzitutto
va rilevato che agli imputati non viene
contestata solo la illegittima gestione
delle discariche ma anche la loro illegittima creazione e che comunque, anche prima dell’82, il deposito e
la realizzazione delle discariche era oggetto di limiti e divieti .
In primo luogo
vi era la legge regionale del Veneto
6-6-1980 n.85 che cosi statuiva “
divieto di abbandonare e depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree
pubbliche e private nonché scaricare o gettare
rifiuti nei corsi d’acqua,canali, laghi, lagune o in mare .
Su tale divieto
nessuna motivazione si rinviene nella sentenza del Tribunale
Altra norma
indicata nel capo di imputazione ,che vietava condotte idonee a produrre
inquinamento era l’art 10 legge 5-3-1963 n.366 che non consentiva lo
scarico di rifiuti o sostanze che potessero inquinare le acque della laguna
, nonché l’esercizio di industrie che
refluissero in laguna rifiuti atti
ad inquinare o intossicare le acque .
Vi era poi la L
n.366/ 41, che è stata abolita solo dal
Dl vo 5-2-1997 n.22 e che si occupava
invero dei rifiuti solidi urbani , in particolare rilevava l’art 17- che vietando in modo assoluto il gettito di rifiuti ed il loro
temporaneo deposito nelle pubbliche vie ,piazze ,terreni pubblici e privati- e
utilizzando il termine rifiuti in modo
del tutto generico , dimostrava cosi
che la volontà del legislatore
era quella di porre dei divieti per qualsiasi rifiuto ,senza distinzione in
ordine alla sua natura o provenienza .
Ed una diversa
interpretazione invero porterebbe
all’assurdo risultato di ritenere esistente dei divieti per i rifiuti ,
provenienti dalla abitazioni,e non invece
per i rifiuti provenienti dalle
industrie.
Limiti e regole relativamente al deposito
dei rifiuti sono poi contenute anche nel regolamento comunale di igiene del Comune di Mira pubblicato nel 1954–nel cui ambito risultano esserci cinque
discariche tra quelle di cui
all’imputazione – che vietava ,all’art 36, di accumulare sul suolo
qualunque materiale di rifiuto lurido o
nocivo ,all’art 50 ,di depositare prodotti chimici al di fuori dei luoghi indicati dall’autorità comunale ,all’art 199 imponeva di costruire i luoghi destinati a
discariche con materiale impermeabile
per evitare qualsiasi inquinamento del
sottosuolo, e nel regolamento comunale
di igiene del Comune di Venezia
– art 6 -art 74- art 78.
Tutte le
violazioni delle norme in esame comportavano la applicazione delle sanzioni e
delle pene previste dal T.U. leggi sanitarie
,dal regolamento stesso,nonché
di quelle previste dal CP.
Esisteva quindi una regolamentazione locale
che vietava l’esercizio di determinate attività ritenute pericolose od insalubri e comunque subordinava ad un
provvedimento della P.A. l’esecuzione dello smaltimento dei rifiuti industriali
Esistevano poi altre due norme –art 9 e art
36 R D n 1064 del 8-10-1931- che vietavano lo scarico di rifiuti industriali
nella acque pubbliche : norme specifiche
a tutela delle acque da pesca rispetto ai rifiuti industriali.
Esistevano conclusivamente delle norme che dovevano
essere rispettate e che non lo sono
invece state , e non essendo state in alcun modo le discariche autorizzate . ne
consegue che quelle realizzate
,violando le predette normative, devono ritenersi contra legem.
Quanto all’art
15 del N. T. A del P. R. G
del 56 richiamata dal Tribunale
rileva il P.M. che è norma di natura
esclusivamente urbanistica,che non riguarda la possibilità di creare delle zone
di rilascio, scarico ,gestione incontrollata dei rifiuti ed che è comunque superata dall’art 10 L1963/366,
norma di rango superiore alla previsione regolamentare e di chiaro contenuto
precettivo .
Inoltre, in atti normativi successivi al
1956, che prevedevano l’ampliamento della zona industriale di Porto Marghera,
si prevedeva che il completamento dei cicli produttivi dovesse essere attuato,
seguendo il criterio connesso alle esigenze
di sicurezza , igiene pubblica
ed incolumità degli abitanti (art 8 lett d) L397-02-03 63
Errata
risulta quindi la conclusione dei giudici laddove ritengono che prima
del 1982 non ci fosse alcuna normativa relativa alla gestione dei rifiuti delle
produzioni industriali .
Rifiuti tossico nocivi e scarichi idrici
3.3.1 Illecito scarico di rifiuti anche dopo
l’entrata in vigore del D.P.R 915/82
Ricorda
innanzitutto il P.M. come, secondo il tribunale, le discariche sarebbero state
realizzate per la maggior parte prima
dell’82 e, per quelle successive, le norme in vigore sarebbero state sempre
rispettate o comunque non risulta che siano state realizzate senza titolo
autorizzativo o con modalità incompatibili con le prescrizioni accessorie pertinenti alle autorizzazioni rese”
Ne conseguirebbe
che gli imputati sotto questo profilo non avrebbero commesso alcuna violazione
delle disposizioni in materia di gestione dei rifiuti .
Ritiene invece
l’accusa che non sia vero che le
discariche siano state realizzate per
la massima parte prima dell’entrata in vigore del D.P.R.915/82 ed evidenzia
come valgano a smentire la affermazione del Tribunale sul punto la deposizione
dell’ispettore Spoladori del 20-9-2000
e dello stesso Gavagnin all’udienza del
16-3 2001 ,nonché la elaborazione scritta dello Spoladori del 13-12 2000.
Né possono
essere ritenute decisive sul
punto le deposizioni del teste Gavagnin che ha solo riferito di una
razionalizzazione del sistema dei rifiuti dopo il 1983 , aggiungendo che ,di conseguenza ,solo la
serie di fenomeni macroscopici in precedenza verificatisi,non sarebbero piu
avvenuti; il teste predetto ha anche precisato che le sue convinzioni erano
basate non su una conoscenza diretta
dei fatti bensì sul fatto che da quell’anno
responsabile del servizio Pas era divenuto il perito Ceolin.
Né dirimente
poteva ritenersi la deposizione del
teste Pavanato, che aveva precisato di non essere in grado di
escludere che il fenomeno delle discariche abusive fosse cessato dopo il 1982.
Il Tribunale ha poi affermato ,senza indicare
le fonti di prova di queste affermazioni ,che dopo il 1982 le discariche erano autorizzate e gestite secondo le
prescrizioni contenute nelle relative autorizzazioni ma l’affermazione del Tribunale con cui si ritiene che la normativa di riferimento per i
conferimenti a discarica successivi al
1982 risulti osservata è del tutto generica.
Capitolo 3.4
L’obbligo di attivarsi in relazione ai siti inquinati
da terzi antecessori
1) la posizione del Tribunale sul punto
Esamina quindi il P .M la decisone del Tribunale, secondo cui non
rientrerebbe nel concetto di gestione della discarica penalmente rilevante il
solo mantenere nell’area rifiuti scaricati da altri quando ormai la discarica
era chiusa , decisione fondata sulla sentenza della C.C Sezioni Unite
del 5-10-1994
La questione riguarda la imputabilità dei
dirigenti ed amministratori indicati nel capo di imputazione per la gestione di discarica abusiva di
rifiuti e smaltimento non autorizzato,
in violazione rispettivamente degli art
25 e 26 cpv DPR n915/82 , poi sostituiti dall’art 51 D.Lgs n22/1997
,nell’ambito della contestazione del
reato di disastro innominato colposo.
Osserva quindi
il P .M come la questione sia stata effettivamente affrontata e decisa con la nota sentenza della Cassazione Sezioni Unite
, a cui ha aderito il Tribunale,
ma come successivamente sia intervenuta
giurisprudenza di merito e di legittimità difforme.
2) La
sentenza della Cass. SS. UU.
5-10-1994
Secondo la citata sentenza non si
configurerebbe alcun reato di
gestione di discarica abusiva o smaltimento non autorizzato di
rifiuti tossico nocivi nella condotta di chi
solo mantiene in un ‘area rifiuti
scaricati da altri , in assenza di qualsiasi attiva partecipazione, e
nonostante abbia consapevolezza della
loro esistenza.
Alla affermazione di tale principio la
Cassazione era pervenuta in base alle seguenti considerazioni:
in primo luogo un dato testuale , rappresentato dal fatto che il concetto di gestione di
discarica e smaltimento dei rifiuti non
consente di ricomprendervi anche
quello di solo mantenimento degli
stessi ; in secondo luogo la inesistenza nell’ordinamento di un preciso obbligo
positivo di porre fine alla
situazione antigiuridica in corso , non
essendo rinvenibile una norma che imponga al nuovo detentore la rimozione dei
rifiuti del terreno entrato nella sua disponibilità .
3) la nozione di gestione di discarica non
autorizzata alla luce del dato
testuale del DPR n915/82 e del D.LG.vo
n.22/1997: la gestione successiva alla chiusura.
Ritiene invece
il PM che la decisione della Cassazione del 1994 non sia condivisibile alla luce di un attento esame delle
normativa di settore sia statale come
comunitaria .
Innanzitutto va esaminato il DPR 915/82 ed in
particolare gli art 10 e16 che contengono anche delle prescrizioni che riguardano la fase di chiusura,
successiva all’esaurimento dell’impianto e relativa alla sua messa in
sicurezza.
E da tali disposizioni risulta in modo
inequivoco che, anche dopo la chiusura, è ravvisabile un esercizio ossia una
gestione della discarica di rifiuti tossico nocivi e che ,anche tale fase è ritenuta
importante ,in quanto il legislatore impone alla autorità di controllo di dare precise prescrizioni da osservare proprio in tale fase,mentre
alcune prescrizioni sono gia contenute
nel testo dell’art 16 quali : la
ricopertura della discarica ,il riutilizzo dell’area.
Ed il successivo
Dlgs n 22/1997 conferma tali
prescrizioni là dove ,nel fornire una definizione di “gestione dei rifiuti”, vi include espressamente il controllo delle
discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura , attribuendo
al gestore del sito precisi obblighi e responsabilità .
E non può
certo dubitarsi del fatto che tali obblighi ,nel caso di cessione della
proprietà e della gestione della discarica,si trasferiscano in capo al nuovo proprietario del sito .
La diversa interpretazione fornita dalla
Cassazione porterebbe alla assurda conseguenza che chi riceve una discarica autorizzata ,sarebbe
tenuto ad osservare determinate
prescrizioni ,che non sarebbe invece tenuto ad osservare chi subentra in una discarica abusivamente realizzata .
4)
La delibera interministeriale 27-7 1984 e l’obbligo giuridico di attivarsi per
evitare l’inquinamento da percolato :
il reato di gestione di discarica abusiva in forma omissiva.
In relazione
agli obblighi di gestione della discarica ,anche quando la discarica è stata
chiusa , osserva la accusa come rilevi anche quanto stabilito dalla Delibera
interministeriale del 27-7-1984- contenente disposizioni per la prima
applicazione del DPR n915/82- che al punto 4.2 cosi testualmente stabilisce, con riferimento allo stoccaggio
definitivo di discariche di prima e
seconda categoria “ i sistemi di
drenaggio e captazione del percolato, nonché
l’eventuale impianto di trattamento del medesimo dovranno essere mantenuti in esercizio anche
dopo la chiusura della discarica stessa
e a carico del gestore di quest’ultima ,per il periodo di tempo che sarà
stabilito dall’autorità competente “
Prescrivendo la
delibera degli obblighi a carico del gestore della discarica , per impedire lo
sversamento del percolato anche dopo la chiusura, si configurano i reati, a carico di colui che non li adempie, di cui agli art 25 e 26 D P. R
n.915/82 come fattispecie omissive improprie in forza della clausola di
equivalenza dell’art 40 capoverso c.p .
Risulta quindi chiaro il vizio logico contenuto nella sentenza della Corte di
Cassazione, in quanto quand’anche non
fosse possibile configurare un
obbligo di rimozione dei rifiuti a carico
del detentore di un discarica chiusa, ciò non significherebbe certo la
inesistenza a suo carico di un obbligo
di porre fine alla situazione giuridica in corso, impedendo il protrarsi o l’aumentare del degrado ambientale .
Esisteva pertanto, anche in
base alla disciplina normativa all’epoca vigente, un obbligo giuridico
di attivarsi affinché i rifiuti fossero posti e mantenuti nelle condizioni di
massima sicurezza, in particolare sotto il profili dell’inquinamento da
percolato, finchè non
perdevano la loro capacità lesiva dell’ambiente.
Secondo il
Tribunale invece un obbligo di bonifica, a carico di chi subentra nella
detenzione di una discarica chiusa, sarebbe stato introdotto solo dalla legge
Ronchi , mentre invero, a parte la
introduzione di un obbligo specifico di bonifica a carico di chi subentra
nell’area in cui altri hanno abusivamente smaltito rifiuti,attuata dalla
successiva normativa, già il DPR.915/82 e la citata Delibera Interministeriale
del 27-7-1984 stabilivano un obbligo di vigilanza e mantenimento in
sicurezza della discarica ,obbligo che
viene solo ribadito dall’art 28 D Lgs n 22/97 , che espressamente richiede che,
l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento, prescriva le modalità di messa in sicurezza
, chiusura e ripristino degli impianti esauriti.
4)
La
interpretazione della normativa statale alla luce della disciplina comunitaria
La suddetta interpretazione della normativa statale risulta in linea con la disciplina
comunitaria- Infatti una disposizione
base della normativa comunitaria in materia di rifiuti l’art 4 della Direttiva 75/442/CE stabilisce che gli stati membri devono adottare tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano
recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare
procedimenti che potrebbero creare rischi
per l’acqua ,l’aria ,il suolo ed in base a tale normativa la Corte di giustizia ha ritenuto sussistere
a carico del detentore di un’area utilizzata in passato come discarica abusiva
, l’obbligo di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione del
degrado ambientale
6) La giurisprudenza di legittimità e merito
successiva
Per tali motivi
la sentenza della CC.SU. del
5-10-94 non può essere ritenuta soddisfacente
ed in senso contrario si sono infatti
gia pronunciate altre sezioni della Corte - Sez III 11-4-1997 imputato
Vasco- C.C. Sez III 4-11- 1994 imputato Zagni
-C .C 17-12- 1996 n 8468 – C.C Sez III 11-4-1997 - nonché giudici di merito .
L’accertamento della responsabilità andrà
quindi verificato in concreto attraverso l’accertamento della consapevolezza
della esistenza della situazione antigiuridica ,della conoscenza del protrarsi
nel tempo dell’offesa al bene giuridico protetto e della sua esposizione a
pericolo di ulteriore degrado , nonché della volontarietà della persistente
condotta del soggetto.
E nel caso di
specie non può dubitarsi del fatto che
i dirigenti e gli amministratori,succedutesi dopo la cessazione dei
conferimenti, pur sapendo che esistevano numerose discariche abusive di rifiuti
tossici, ed avendo di conseguenza consapevolezza del rischio di contaminazione
del suolo,sottosuolo e delle falde
idriche e della laguna non abbiano posto termine né limite alcuno
alla situazione giuridica in corso ed ai suoi
effetti .
Le prove in atti
relativamente alle predette circostanze sono numerose e sono state presentate
al tribunale dall’Ispettore del corpo forestale Spoladori ,dal maresciallo
della Guardia di Finanza Porcu e da altri testimoni, nonche dai consulenti
tecnici dell’accusa .
Significativa, anche
se non come prova , della conoscenza da parte degli imputati del grave degrado ambientale di Porto Marghera è
anche la intera vicenda definita American Appraisal nell’ambito
della quale è emerso che tutti erano a
conoscenza del grave degrado ambientale .
1) sulla utilizzazione delle falde
Dopo avere ricordato
quanto affermato dal Tribunale sul punto e cioè la inutilizzabilità delle acque
di falda-attinte per moto verticale dal percolato di discarica - per qualsiasi uso alimentare o antropico ,osserva
la pubblica accusa come risulti invece provato da numerosi documenti-
vedi indagine idrogeologica del
territorio provinciale del 1998- che in
tutta l’area lagunare esistono pozzi che attingono alle prime falde del sistema
idrogeologico veneziano, più profonde
di 10 metri, per un utilizzo dell’acqua a diversi fini.
Ne consegue che
pur considerando la modesta quota di risorse attribuibili ai pozzi
superficiali, contrariamente a
quanto affermato dal Tribunale,anche
attualmente, il complesso delle falde minori, oltre i 10 metri di profondità ,
era utilizzato proprio per usi alimentari
e continua ad essere utilizzato per usi antropici.
2) circa il trasferimento degli inquinanti e le caratteristiche idrogeologiche del
sottosuolo del petrolchimico
Dopo avere ricordato che,secondo il Tribunale
,le acque di falda risulterebbero pressoché
stagnanti e la permeabilità complessiva del sottosuolo bassissima ,
dell’ordine di 10-4 cm/S ,fino ad una profondità variabile tra i 2 ed i 6 metri
, per la presenza di materiale di riporto e di
rifiuti fangosi , ed a causa del banco di sabbia prevalentemente fine e limoso , tra gli 8 e i 15 metri , rileva
il P .M come il tribunale abbia utilizzato un valore errato perché ha confuso l’unità di misura , utilizzando l’unita
cm/s anziché m /s .
In ogni caso i
valori di questo ordine di grandezza rientrano tra quelli di grado medio con
drenaggio buono.
Osserva ancora il P:M come da questa erronea
valutazione del tribunale ne conseguono
altre e come in ogni caso la
complessità delle indagini,in relazione alla variabilità del terreno, renda
comunque difficile un accertamento preciso dei valori di permeabilità .
Le affermazioni del Tribunale comunque si
pongono in contrasto con quanto dallo stesso successivamente ritenuto –vedi
pagina 522 –525- laddove si da atto del fatto che la contaminazione riesce ad
attingere le falde acquifere immediatamente sottostanti lo strato di caranto, sino
a raggiungere il secondo acquifero ad
una profondità superiore ai 20 metri.
Contraddittoria
è anche la affermazione del Tribunale
laddove, prima riconosce in astratto la idoneità delle acque di falda ad essere
oggetto di tutela penale ai sensi degli art 439-440 c. p. in quanto la
destinazione alla alimentazione non implica certo la potabilità delle acque di
falda e poi lo esclude in concreto, affermando che la ragione della
esclusione consiste nella circostanza che si tratta di acque di falda inutilizzate
per il consumo umano . Non è poi vero
che la portata delle acque di falda sia insignificante in quanto se si parla
dell’acquifero superficiale solo dal Petrolchimico escono 4 l/s (per quanto
inquinati)che vuol dire 345600 litri / giorno , e 126 milioni di litri/anno.
E ci sono poi le centinaia di pozzi ,fino a
10 metri ,citati dalla provincia, certamente
di interesse pratico anche se modesto .
Ed ancora male interpreta il Tribunale le
conclusioni cui perviene il consulente tecnico
della difesa, relativamente alla bassa portata ed alla cattiva qualità
originaria delle acque ,che le
renderebbe inutilizzabili a prescindere
dall’inquinamento, e cioè anche se l’inquinamento non sussistesse, in quanto
estende la predetta valutazione del consulente Dal Prà, riferita solo alla falda superficiale, al complesso di
falda superficiale, prima falda e seconda falda .
Ed infatti, a conferma dell’errore in cui è
incorso il tribunale, si evidenzia
come la salinità della seconda
falda non risulta sussistere .
In ogni
caso deve osservarsi come le acque
salmastre possano essere utilizzate per uso agricolo sopportando alcune
coltivazioni elevate quantità di sali ,
per cui anche le acque salmastre –senza contare la dissalazione –costituiscono
una risorsa per l’uomo a meno che non
siano inquinate .
Anche la affermazione ,secondo cui la portata
massima estraibile è di un decimo di litro al secondo e quella secondo cui
l’utilizzo delle acque sotterranee finirebbe per richiamare acque salate , si
riferisce solo alla prima falda ed è informazione di carattere marginale ,
ristretta all’area indagata, che
difficilmente può essere estrapolata all’intero stabilimento considerata la notevole complessità e
diversità dei depositi presenti
-vedi sul punto la relazione Aquater-Basi-96 pagina 25 -
Ed egualmente la affermazione, secondo cui
l’utilizzo per i primi 30 metri delle falde, non sarebbe ipotizzabile, perché
in tempi brevissimi si prosciugherebbero a causa del loro ridotto spessore , è
affermazione apodittica e indimostrata.
Si deve quindi
concludere che le dimensioni adottate dalla difesa per proporre i propri
modelli sono minimali e che il Collegio
è stato indotto in errore .
Erronea e travisante è stata poi anche la
valutazione del Collegio circa
l’andamento dei flussi sotterranei.
Il Tribunale ha
infatti ritenuto che l’impatto degli inquinanti, veicolati dalle acque di
falda sottostanti le aree di discarica
interna , sulle acque e sui sedimenti dei canali finitimi all’area di insediamento
del plesso industriale ,secondo un processo di trasferimento orizzontale ,
avrebbe un andamento degradante verso sud est, salvo il rilievo che le acque di
impregnazione , e cioè la falda
superficiale , potrebbe degradare anche
verso Nord.
Ed invece risulta incontestato, dalla ricerca
Aquater Basi 96 e 2000, che le falde hanno un andamento centrifugo, in
particolare nella zona di ponente dell’area di insediamento del
Petrolchimico,corrispondente alle aree
in cui si trovano le discariche isola 31 e 32 .
Anche la affermazione secondo cui, il flusso
del primo acquifero verso la laguna è insignificante perché nella peggiore delle ipotesi si tratta di 4 L/S lungo
tutto il perimetro dell’area di insediamento del plesso industriale ,non è condivisibile in quanto in ogni caso 4l/s fanno 120.000
metri cubi /anno.
E comunque la
ridotta mobilità delle acque al contatto
tra falde e acqua di mare, che è del tutto ovvia per ragioni fisiche ed
idrodinamiche , specie con i gradienti in gioco, è comunque dell’ordine di qualche metro / kilometro.
Il
trasferimento orizzontale seppure lento comunque avviene e come dimostrato dai
flussi registrati da Aquater Base 96 e 2000.
Occorre poi
ribadire che i 4 L/S non escono dalla
prima falda ma da quella superficiale e
che i anche in questo caso il Tribunale è incorso in equivoci ,utilizzando
spesso il termine generico di falda del Petrolchimico e non è
comprensibile la ragione per cui il
Tribunale abbia considerato ancora più basso il flusso delle acque sotterranee ed affermato che le stime degli esperti
indicano un valore approssimativo della portata della prima falda , lungo tutta
l’area del Petrolchimico dell’ordine di 4/litri al secondo .
I dati elaborati dalla struttura pubblica
,sulla base di elementi conosciuti in letteratura e contenuti nel Piano
direttore 2000 , avrebbero comunque dovuto essere confrontati e verificati con
i dati strumentalmente attestati dai puntuali rilievi Aquater Basi che sono
certamente più completi e aggiornati .
Deve comunque essere ribadito secondo
l’accusa che i 4l/s non escono
dalla prima falda bensì
da quella superficiale e che il consulente della accusa Nosengo ha
utilizzato gli stessi dati del
consulente Francani ,giudicandoli come valori minimi di un range in realtà più ampio .
Indimostrata è infine la affermazione secondo
cui , oltre alla bassa permeabilità del sottosuolo,alla stagnazione delle falde
sottostanti le discariche interne, alla
portata insignificante della falda stessa
concorrerebbe ad escludere l‘apporto inquinante della acque di falda
(per quanto riguarda sedimenti e acque dei canali lagunari a tale area finitimi) la enorme diluizione che comunque le stesse subiscono ad opera
di altri apporti .
La affermazione relativa alla diluizione si
basa sua un errata interpretazione del
lavoro del prof Perin che indica un valore di apporto dalla gronda lagunare di 600 m c/s come corrispondente
all’apporto massimo ,mentre nella relazione Francani cui si riferisce il
Tribunale questo valore viene considerato un valore medio, con la conseguenza
che il ragionamento relativo alla enorme diluizione risulta errato.
Il Tribunale ha
infine omesso di considerare che in ogni caso la pretesa -ma inesistente
diluizione- potrebbe riguardare solo le
acque superficiali e non certo quelle
della falda piu profonda .
Conclusivamente risulta accertato che le falde hanno
capacità di movimento ;
che la falda superficiale raggiunge i canali
perimetrali con la velocità almeno di 4l/s e
che dove manca il caranto inquina ,con trasferimento verticale , la prima ed in misura piu
ridotta anche la seconda falda ;
che la prima
falda a sua volta , dotata di gradiente generato dagli afflussi
provenienti dalla sue zone di alimentazione
poste a monte, si muove dove può e cioè verso i canali perimetrali abbastanza profondi da raggiungerla e, se vi sono ostacoli e
permane un gradiente in direzione diversa da quella generale NW-SE ,la prima
falda si muove in altra direzione( la
citata direzione Nord ) secondo il ben noto,
in idraulica, fenomeno del rigurgito , che è il moto retrogrado di un
flusso ostacolato.
La sentenza
conterrebbe dunque errori e contraddizioni e trascurerebbe le valutazioni
di American Appraisal , dei dati Aquater base 95-96-2000 ,né tiene in alcun
conto le valutazioni e note critiche del prof
Nosengo, che ha ritenuto le
indagini svolte insufficienti a valutare correttamente sia la permeabilità del terreno come la validità dei modelli di
simulazione.
3.9.1 Trasferimento orizzontale di inquinamento verso
la laguna e contaminazione della falda
sottostante il Petrolchimico e dei suoli.
Osserva il P.M come, secondo il Tribunale,
risulti incontroverso che da tutta l’area del Petrolchimico derivi un apporto
per moto di trasferimento orizzontale dalla prima falda verso i canali della
zona industriale di quattro litri al
secondo .
Quantitativo solo apparentemente piccolo
perché corrisponde a 345600 litri al
giorno ed in termini di apporto annuale
a 126 milioni di litri all’anno .
Le misure di concentrazione delle diossine nelle
acque sottostanti il petrolchimico , effettuate a cura dell’Enichem in relazione al disposto del DM 471/99 sulle
bonifiche.
Le analisi sulle
acque sottostanti il Petrolchimico sono state fatte solo per 6 campioni
anche sulle diossine e ,su 3 campioni, sono state rilevate
concentrazioni superiori ai limiti di
cui alla tabella del DM 471/99, di cui
per un campione in modo molto elevato .
In un campione è stata rilevata anche la
presenza della diossina 2,3,7,8 –TCDD ad elevato livello.
E se da un controllo su solo 6 campioni è
risultato un superamento elevato in due casi, non può considerarsi che il
superamento sia un fatto solo sporadico e raro,secondo calcoli statistici il
superamento dei livelli potrebbe essersi verificato in un percentuale compresa
tra il 20% e l’80 % e quella del
livelli piu elevati potrebbe essere stimata come compresa tra circa il 9 %e il
67 %.
L’intervallo dei valori misurati è tra 2.31 p
g /L(I-TE) e 634 p g/L(I-TE) e la media è circa 112 p g/ L(I-TE) ( anche non
considerando il dato piu elevato la media risulta di circa 8 PG/I (I/TE) con un
valore sempre molto elevato.
L’appello contiene quindi una descrizione
per ciascun campione di acqua dei singoli valori delle diossine misurate .
L’impatto del trasporto verso la laguna di 4 litri al
secondo delle acque sottostanti il petrolchimico
Anche il valore
minimo misurato nelle acque di falda pari a 2,31 p g (I-TE/litro)è
superiore al valore limite proposto dalla Commissione consultiva tossicologica nazionale
(CCTN) per gli scarichi di PCCD e PDDF nei corpi idrici pari a 0,5 p
g(I-TE/litro).
Con riferimento
alla contaminazione media dell’acqua di falda ,di circa 112 p g/I (I-TE) ed un
rilascio di 4 litri /secondo verso i canali ovvero 126 milioni di litri/anno,
il quantitativo di diossine trasportato verso i canali risulterebbe dell’ordine
di circa 14 miliardi di p g (I-TE/anno) pari
a circa 14 mg I-TE /anno).
Questo apporto inquinante diventa
significativo con riferimento alla gia esistente contaminazione dei sedimenti
della laguna di Venezia.
Anche un solo
milligrammo ( corrispondente a un miliardo di picogrammi) può contaminare ogni
anno, ad un livello pari a10 volte quello di fondo, un quantitativo di
sedimenti pari a100 tonnellate .
Ed un
milligrammo rappresenta un valore che è 14 volte inferiore a quello che sarebbe immesso in laguna nell’arco di un
anno con il trasporto di 4 litri / secondo di acque contaminate al valore medio
misurato a cura dell’ENICHEM .
A pagina 526 delle sentenza si dice che le
falde di cui si discute non possono fornire portate compatibili con qualsiasi
l’uso e ciò è certamente vero,soprattutto per l’inquinamento delle acque
inaccettabile secondo il DM 471/99.
La portata è invece un fattore molto meno rilevante in quanto possono esistere
usi che richiedono un quantitativo limitato
di acqua al giorno.
Premesso che i dati
di contaminazione del suolo da diossine sono presentati in termini di ITE,
senza differenziare i vari congeneri ,risulta che i livelli di diossine e
composti simili rilevati sui diversi
strati di suolo nell’indagine promossa
da Enichem, in relazione a quanto previsto dal DM 471/99 su un totale di
30 siti campionati superino in otto siti il livelli previsti dal D. M.
citato (limite per le aree industriali
pari a 100 n g I-TE/kg) ;
che in 6 campioni la contaminazione supera 1000 n g I-TE/kg con valori massimi
di circa 3300,3748 e 3507 n g I-TE/kg ,piu di 30 volte superiori ai limiti .
Trattasi di
percentuali di superamento dei limiti non irrilevanti che dimostrano come esistano strati non superficiali dell’area
del Petrolchimico contaminati a livello superiore della cosiddetta Zona B di
Seveso .
Trattasi di valori
di inquinamento del suolo che trovano corrispondenza in quelli dell’acqua, in
quanto, tenuto conto della scarsa idrosolubilità delle diossine e della loro
elevata affinità con il carbonio organico contenuto nel suolo , i livelli nell’acqua risultano inferiori piu di 10.000 volte rispetto a quelli del
suolo .
Ed i livelli
accertati nell’ acqua e nel suolo sono coerenti con questa ipotesi.
Segue nell’appello l’elenco degli 8 campioni
in cui sono stati rilevati i valori superiori ai limiti di cui al D. M 471/99.
In conclusione :
per quanto riguarda le acque sottostanti il Petrolchimico i dati indicano per i
6 campioni livelli da 2.31 p g I- TE litro a 634 p .g I- TE litro con un
valore medio di circa 112 p g I-TE /litro , 3 campioni su 6 superano il limite del DM 471 /99 e tutti i campioni hanno concentrazioni
non compatibili con il criterio
proposto dalla Commissione Consultiva
Tossicologica nazionale per gli scarichi idrici .
Calcoli
elementari indicano che 4 litri al secondo corrispondono a 345.600 litri al giorno e circa 126
milioni di litri /anno.
Un tale
trasferimento d’acqua inquinata comporta la contaminazione di 100 tonnellate di
sedimento ad un livello pari a10 volte quello di fondo.
Le concentrazioni rilevate nelle acque sono
quelle che erano prevedibili in base al rapporto con il grado di contaminazione
del suolo e sottosuolo.
I suoli
inquinati rilasciano inquinanti nelle acque ed anche se il rilascio d’acqua è
quantitativamente limitato risulta di
notevole impatto ambientale in relazione alla tossicità delle sostanze in
esame.
La affermazione
del tribunale sul punto non può di conseguenza essere condivisa, perché se è
vero che il flusso è limitato è anche vero che il carico inquinante è
rilevante e che comunque il flusso d’acqua in un anno è considerevole..
II parte -sentenza
Capitolo quarto
La compromissione del sedimento dei canali dell’area
industriale ( rilevante in termini di disastro colposo e come antecedente
dell’avvelenamento del biota su di esso
vivente
4.1 Premesse
Secondo il P.M
l’evento disastro consisterebbe nella
alterazione dell’ecosistema
dell’area industriale e nella
contaminazione dei comparti ambientali che lo costituiscono attinti dal
catabolismo del Petrolchimico
Secondo
l’ipotesi accusatoria il sedimento dei canali dell’area industriale sarebbe stato attinto dal catabolismo del
Petrolchimico- con effetti rilevanti in
termini di disastro colposo - e dal sedimento la contaminazione si sarebbe
estesa al biota ( su di esso vivente)
con effetti rilevanti in termini di avvelenamento
L’inquinamento sarebbe causato da
microcontaminanti – organici ed inorganici- in particolare diossine che ,
per la costante presenza di
“octaclorodibenzofurani,”troverebbero la loro matrice nelle filiera del cloro
ed i conseguenza nella produzione del Petrolchimico
La cosiddetta impronta delle diossine denota
la matrice della contaminazione, ed è
improbabile che la matrice possa essere individuata in altro tipo di
produzione, in quanto le diossine derivanti da altri processi produttivi, diversi dal Petrolchimico,
sarebbero diversamente connotate.
La circostanza è confermata dalla
corrispondenza delle impronte caratteristiche del sedimento dei canali
inquinati con quelle dei pozzetti interni al plesso Petrolchimico .
L’accertamento avente per oggetto la presenza
nel sedimento dei canali delle diossine , dei policlorobifenili ( PCB), degli
idrocarburi policiclici aromatici (IPA) degli idrocarburi clorurati,ammine
aromatiche, nitrofenoli e metalli pesanti,dimostrerebbe la sussistenza
dell’evento di danno ambientale disastroso
Per dimostrare il
grado “disastroso” dell’inquinamento vengono fatti confronti tra il
sedimento dei canali dell’area
industriale ed il sedimento dei canali dell’isola di S.Erasmo
Per molti
campioni risultano superati, ora per un parametro ora per più parametri , i
limiti della classe B) e talvolta quelli della classe C) del Protocollo
d’Intesa 1993 del Ministero
dell’Ambiente
In particolare risulterebbero
molto inquinati i sedimenti del canale Lusore Brentelle- antico corpo ricettore
degli scarichi di provenienza del Petrolchimico- il bacino di evoluzione del
Canale Industriale Sud , per la concentrazione di IPA, la darsena
della Rana per la concentrazione di IPA di esaclorobenzene e di PCB.
Cause di
contaminazione del sedimento sarebbero in sintesi :
1) gli
scarichi incontrollati nel canale
Lusore Brentelle , antico corpo ricettore di quelli attivi fino alla metà degli
anni settanta., salvo per quel che riguarda
taluni scarichi superstiti;
2) lo
smaltimento delle peci clorurate
trasportate con autobotti e bettoline
in tutte le acque dei canali
industriali della prima e della seconda
zona industriale;
3) gli apporti
inquinanti recati fino all’attualità dall”SM15 ( scarico principale di provenienza del Petrolchimico) ritenuto
responsabile della contaminazione dei cd “Bassi Fondali” antistanti l’area di
insediamento del plesso industriale
-dove comunque anche secondo l’
accusa i valori di PCDD/F si riducono di tre ordini di grandezza rispetto a quelli della prima zona industriale.
Le prime due
cause sarebbero pertinenti a fatti meno recenti, la terza a fatti più recenti
anzi al presente , in particolare
l’accusa osserva come nelle acque in uscita dallo scarico SM15 si rinvengano
quelle sostanze che ,in concentrazioni significative, si trovano nei sedimenti
,all’esterno del Petrolchimico , in primo luogo le diossine.
In tesi di
accusa sarebbero attuali apporti rilevanti di inquinanti
In particolare la immissione di diossine nelle acque dei canali finitimi al plesso
industriale si sarebbe protratta almeno fino al1998.
Lo proverebbe il
fatto che un campione prelevato dal Magistrato delle acque nel 1998 avrebbe
rilevato un valore di concentrazione – 150 picogrammi /litro- 300 volte
superiore al valore limite per gli scarichi industriali, proposto dalla
Commissione consultiva tossicologica nazionale (per diossine e furani) pari a
0,5 picogrammi /litro.
Gli scarichi del
Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione - art 9 quarto e settimo comma L n.319/76,
come modificato dalla L n .650/79- stante la confluenza di acque di
processo e di altre correnti nel
principale scarico del plesso industriale prima
del recapito nel corpo ricettore.
Osserva
ancora l’accusa come decine di migliaia di bollettini di
analisi interne – dimostrerebbero il superamento dei limiti di legge anche in epoca recente .
L’imputazione addebita agli imputati lo scarico di fanghi,
di catalizzatori esausti e di altri sottoprodotti di risulta attraverso gli
scarichi SM2e SM15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai
limiti di accettabilità previsti dal D.P.R n. 962/1973, normativa speciale per
la con terminazione lagunare e tale
condotta si porrebbe così in nesso causale con il disastro e l’avvelenamento del biota
Un ulteriore
addebito di colpa , pertinente la disciplina dei rifiuti ma rilevante
anche per quanto riguarda la gestione
degli scarichi nelle acque , è
quello conseguente alla presenza
di C .V. M nelle acque di processo e nei reflui di provenienza dal Petrolchimico ,che . comporta la qualifica di
tutti i rifiuti recapitati nel corpo ricettore
nel corso del tempo, anche quelli convogliati attraverso gli scarichi SM15 e SM2, come rifiuti tossico nocivi
Tanto consegue al
fatto che gli imputati non avrebbero dimostrato che ,nelle acque di processo
provenienti dagli impianti CV22/23 e CV 23/24 le concentrazione del CVM fosse
compatibile con le concentrazioni limite relative alla diossina sostanza
nominate nella tabella 1.1 allegata alla delibera del Comitato
Interministeriale 27-7-1984.
Tutti i reflui
avrebbero dovuto essere smaltiti come rifiuti tossico nocivi ,in forme adeguate
a quelle indicate dal d.p.r 915/1982(
termodistruzione) e non nelle forme adeguate alla disciplina relativa agli
scarichi nelle acque
Le condotte
sopradette integrerebbero i reati di disastro innominato per i danni
interessanti l’ecosistema nel suo complesso,nonché quelli di adulterazione e avvelenamento, estendendosi la
contaminazione attraverso l’inquinamento del biota alle risorse alimentari
costituite da pesci e molluschi, suscettibili
di essere immessi nel mercato attraverso la pesca abusiva praticata nei luoghi . Il pericolo per l’incolumità pubblica sarebbe attuale e il reato di disastro
innominato sarebbe permanente in atto
4.2 Illustrazione delle tesi di accusa sulla compromissione del sedimento dei
canali dell’area industriale veneziana
a causa dei microcontaminanti
inorganici ed organici rilevante in termini di disastro innominato colposo
Illustrazione delle tesi di accusa attinenti alla
sussistenza di una relazione tra tale
evento di danno e gestione del catabolismo nelle acque del <petrolchimico
(riferibili agli imputati)
Sinossi:
a) i dati della
contaminazione
b) profilo storico
degli scarichi attraverso il riferimento alla autorizzazioni rese dal magistrato alle acque
c) dell’attuale rilevanza dell’apporto
costituito dal flusso dell’SM 15”
principale scarico di provenienza del petrolchimico intermini di contaminazione
da diossine
d) tipicità dell’impronta delle diossine di risulta
dalla produzione del cloro
e) studio dei profili di congenere delle diossine presenti nei campioni di sedimento prelevati dai
canali dell’area industriale
f) confronto tra tali impronte e quelle relative
all’esito di analisi di campioni di fanghi prelevati da pozzetti del sistema
fognario del Petrolchimico
Alcuni dati sono
incontroversi
La
contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale esiste ed è quella descritta nel “Piano Direttore 1989 della Regione Veneto” che descrive la
situazione qual’era negli anni della
transizione del petrolchimico da
Montedison a Enichem evidenziando anche
che la grave situazione che aveva portato
l’ecosistema lagunare vicino al collasso agli inizi degli anni 70,appariva in miglioramento ,grazie agli interventi di depurazione già avviati e al miglioramento e riconversione delle tecnologie
industriali , ma non facilmente
superabile per quanto riguardava la
componente inglobata nei sedimenti.
Lo stato di
compromissione del sedimento dei canali dell ’area industriale è attribuibile
al catabolismo industriale risalente nel tempo ( vedi consulenti tecnici
della accusa Bonamin e Rabitti e deposizione teste Pavanato e Ferrari ) tutte
convergenti nel riconoscere che la maggior parte delle sostanze inquinanti è stata immessa in laguna nel ventennio 50-70
Gli esperti
dell’accusa – Baldassari - Bonamin e Fanelli hanno accertato la presenza degli
inquinanti di derivazione da processi di lavorazione industriale oggetto di
interesse processuale ( PCDD, PCDF, IPA, esclorobenzene , metalli pesanti) e
hanno individuato, nel contesto dell’intera conterminazione lagunare,
sei distinte aree di rischio , seguendo l’andamento della concentrazione
degli inquinanti e rilevando ,come da tutti atteso ,per tutti gli inquinanti
concentrazioni più elevate nella zona industriale.
Nel canale
Lusore Brentelle hanno rilevato alte
concentrazioni di mercurio ed hanno
altresì rilevato, nei campioni di sedimento dei canali dell’area industriale,
diossine che recano l’impronta del cloro
Tanto premesso –
trattasi di circostanze sostanzialmente incontestate - osserva il Tribunale come sia essenziale nel processo accertare se tale situazione sia
riferibile a fatto degli imputati-se non altro in termini di aggravamento della
contaminazione preesistente , e come
altrettanto essenziale nel processo sia il verificare se tale situazione
possa dirsi obiettivamente riferibile al Petrolchimico degli anni interessanti
l’imputazione .
Procede quindi
il tribunale alla analisi del
consulente dell’accusa Racanelli
Premesso che
l’analisi è stata orientata su
policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani PCDD/PCDF, policlorobifenili,
PCB, idrocarburi policiclici aromatici IPA, idrocarburi clorurati, ammine
aromatiche nitrofenoli pesanti e metalli pesanti; che degli esiti è stata
fatta una valutazione secondo i parametri
del Protocollo d’Intesa del 1993; che
nessuna distinzione è stata fatta tra la Prima e la Seconda Zona industriale ;
che sono stati assunti i dati di
sedimenti superficiali campionati dal 1992 a tutto il 1999 con
conseguenti differenze
influenzate dalle variabili spaziali , temporali , analitiche –
dipendenti queste ultime dai risultati ottenuti da diversi laboratori , per cui sono state considerate
significative solo le differenze tra
dati che variano per più di un ordine di grandezza; che quale parametro di
confronto sono stati presi i campioni prelevati in prossimità dell’isola di S.
Erasmo; che nella zona industriale sono stati fatti campionamenti in sette
punti denominati rispettivamente da S1, a S 7 e tutti raffrontati ai parametri
di cui alla colonna A),B)e C) del Protocollo d’Intesa 1993 del Mistero dell’Ambiente; sulla base
delle indagini tecniche eseguite
seguendo i criteri
sopraindicati si sono avuti i
seguenti risultati: la presenza di Mercurio in misura superiore ai parametri sopraindicati
nel punto S 7- sedimento del Canale Lusore – Bretelle- antico corpo recettore
degli scarichi di provenienza del vecchio petrolchimico- la presenza di
esaclorobenzene HCB – sotto prodotto delle produzioni di interesse processuale
, composti clorurati – e presente in dosi massicce nelle peci clorurate.
In base a tali dati
ritiene l’accusa che la contaminazione del sedimento dei canali della zona
industriale sia causato da pratiche di
smaltimento dei rifiuti mediante getto diretto nei canali mezzo di autobotti e bettoline di provenienza del Petrolchimico
Quanto sostenuto dall’accusa non risulta in alcun
modo provato per quanto riguarda il periodo di gestione del Petrolchimico da
parte degli imputati: –1970 –2000.
Le analisi
evidenziano poi in particolare percentuali
che superano le soglie del citato protocollo d’intesa nei policlorobifenili –P C B- , nei
Policlorodibenzodiossine
policlorodibenzofurani PCDD/PCDF,
negli Idrocarburi policiclici aromatici tossici IPA , negli IPA tossici
nel piombo, nel rame , nell’arsenico - l’arsenico supera in quattro
punti il livello dei protocollo – ed
il c .t evidenzia che l’arsenico è contenuto nelle
ceneri di pirite- fanghi rossi- usati in antica data per l’imbonimento
dell’area di sedime della zona industriale.
Conclusivamente
ora per un parametro ore per l’ altro ,talvolta per più parametri i campioni di sedimento , prelevati dai canali
della zona industriale , superano i limiti di cui alla classe B del Protocollo
d’intesa.
Per i campioni
di sedimento superficiale prelevati dai punti sotto indicati risultano superati
i limiti di cui alla classe C dello stesso protocollo
Il sedimento del
canale Lusore Brentelle presenta un
grado di inquinamento più elevato che non è classificabile in base al
protocollo e dovrebbe essere gestito come “rifiuto tossico nocivo “
Segue quindi
l’esame della analisi del consulente
dell’accusa Ferrari
Il c t.
accerta innanzitutto che gli scarichi erano autorizzati dal
Magistrato alle Acque ;
che la produzione dei clorurati avviene nel
vecchio Petrolchimico .e che gli scarichi versavano direttamente nel canale
Lusore Brentelle senza alcun tipo di
trattamento;
che verso la
metà degli anni 70 la produzione dei
clorurati si spostava nell’area del nuovo Petrolchimico e che a questa stessa epoca risalgono i primi impianti di trattamento e
termocombustione dei reflui clorurati
denominati CS30 e CS28.
Il consulente ha poi indicato, elencandoli,
gli impianti che scaricavano
direttamente nel canale Lusore
–Bretelle :
A impianto
cloro- soda avviato nel 1951 e chiuso nel 1972
B impianto di
produzione del CVM e cioè il CV1- chiuso intorno al 1970- il CV10 chiuso nell’81
C altri impianti,
fino alla realizzazione dell’impianto chimico fisico biologico SG31 avvenuta
nel 1978;
D le produzioni di tetracloroetano e trielina
,cloruro di benzile e benzale
scaricavano le acque reflue con
recapito nel canale Lusore B fino all’avvio dell’impianto di strippaggio dei
clorurati CS30
E in realtà
incontroverso che il canale Lusore Brentelle
sia stato gravemente compromesso dal catabolismo del Petrolchimico e ciò nel tempo, per cui si sarebbe dovuto
verificare se si trattava di tempi
storici che trascendevano o meno l’imputazione
L’accusa non si
è invece posto il problema di
accertare se si tratta di tempi storici
che superino quelli dell’imputazione ,né di verificare , se vi sia una
relazione tra la condotte degli imputati ed
una qualche forma di aggravamento della contaminazione preesistente.
Sul
piano normativo viene evidenziato che
la legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia – l.366/73 l .171/1973
DPR 962/73 – entra in vigore tardivamente essendo stati i termini per la installazione di impianti di
depurazione dei reflui in laguna prorogati
fino a tutto l’1-3-1980 e che
prima di questa data non possono considerarsi operativi i parametri di accettabilità degli scarichi di cui alle
tabelle allegate al D. P R. 962
/73 e che neppure altrove opera la
legge Merli
Consta che al 1-3-1980 gli scarichi di
provenienza del Petrolchimico . erano muniti di impianti di trattamento delle
acque di scarico
Secondo l’ipotesi accusatoria .l’inquinamento
dei canali e della laguna nella parte antistante la zona industriale – causato
dalla presenza di diossine e
idrocarburi clorurati di risulta della produzioni del P. sarebbero stati
causati per il passato da:
a )
scarichi nelle acque di reflui senza
trattamento
b) evacuazione
diretta in laguna di rifiuti clorurati a mezzo di bettoline e autobotti
Per l’epoca più
recente invece dallo scarico S.M.15
Con riferimento
a tale scarico e premesso che i sistemi
di trattamento sono rimasti sostanzialmente gli stessi ,salvo alcune migliorie
nel 1995/ 98 a seguito di interventi della magistratura , viene evidenziato
che nello scarico S12 che poi
confluisce in quello predetta erano stati fatti dei campionamenti ed era stato
trovato un valore di concentrazione
pari a 150 picogrammi litro superiore
di 300 volta al limite degli scarichi industriali proposto dalla Commissione Consultiva
Tossicologica Nazionale per diossine e furani che lo pone eguale a 05
picogrammi per litro che la diossina, rinvenuta nei bassi fondali, ha la stessa
impronta di quella dei reflui di produzione dei DCE e CVM e degli altri
idrocarburi clorurati provenienti dallo scarico SM15
Gli esperti dell’accusa pervengono a ritenere
che la fonte di contaminazione dei canali dell’area industriale debba essere
individuata nella produzione del Petrolchimico e nei relativi scarichi perché
le diossine rinvenute nei sedimenti dei
canali avrebbero la stessa impronta di quelle presenti nei reflui di derivazione delle produzioni di DCE e PVC .
Viene quindi
spiegato il procedimento attraverso il quale diventa possibile individuare la
cosiddetta impronta delle diossine collegarle ad un determinato processo
chimico.
Sinteticamente
viene spiegato come la famiglia delle
diossine e dei furani è composta da 210 congeneri e che usualmente vengono esaminati solo 17
congeneri , quelli con tossicità più
elevata che viene correlata mediante il fattore di conversione (TEQ
tossicità equivalente ) a quella più
pericolosa 2,3,7,8-TCDD
/tetraclorodibenzodiosssina- classificata come cancerogena .
I 17 congeneri vengono poi ridotti a 10
omologhi attraverso il grado di
clorurazione tetra –penta esa epta e octa diossine e furani ed in relazione al diverso processo
produttivo che genera le PCDD/F varia anche la proporzione tra i predetti
gruppi di congeneri ,ciò che consente
di identificare u profilo o impronta del PCDD/F ed associarlo da un determinato processo chimico
Il collegamento
e l’impronta avvertono però i periti
non è comunque paragonabile alla impronta digitale essendo certo meno precisa,
peraltro le variazioni che caratterizzano i processi produttivi dello stesso
tipo di quello considerato inducono
importanti variazioni nel disegno di
congenere e portano alla configurazione di profili relativamente diversi, che
comunque mantengono la loro peculiarità o tratto caratteristico.
Sinteticamente i
confronti effettuati dagli esperti consentono di accertare che nella impronta dei fanghi
prelevati nei pozzetti interni
del Petrolchimico vi è prevalenza di OCDF- octaclorofurano e la stessa
prevalenza viene notata nei sedimenti
superficiali di tutta la zona
industriale
Questo , unitamente ai dati di letteratura in
materia di prevalenza di OCDF nei reflui di provenienza dalla filiera del cloro
,consente all’accusa di ritenere che il
Petrolchimico sia la causa
dell’inquinamento di tutta l’area
industriale , non essendo peraltro possibile individuare nell’area interessata altri processi
produttivi,responsabili della presenza del tipo di diossine PCDD/F rinvenute
nei sedimenti dei canali ,atteso che le
diossine di risulta degli altri processi produttivi non sono in nessun modo
connotate dalla presenza del OCDF .
Ricorda a questo
punto il Tribunale come uno studio del C .N. R perviene a diverse conclusioni, escludendo che le impronte dei sedimenti prelevati nei
punti di campionamento siano sovrapponibili a quelle tipiche della produzione
del CVM.
Ritiene comunque l’accusa che i profili e le impronte delle diossine di
risulta delle lavorazioni del Petrolchimico
possono essere associate ad una impronta media comunque peculiare , che
esclude la possibilità di individuare un’altra matrice della
contaminazione ,caratterizzata dalla prevalenza di octoclorofurano seguito da eptaclorofurano o anche da octaclorodiossina
I profili
e le impronte delle diossine di risulta delle lavorazioni del
Petrolchimico non possono essere associate ad una impronta tipica però possono
essere associate ad una impronta media
comunque caratteristica peculiare
,tutti i sedimenti dei canali industriali denunciano la stessa matrice della contaminazione in quanto tutti i campioni dei sedimenti
sono riferibile allo stesso insieme.
Non si fa carico invece l’accusa di datare l’epoca della contaminazione
pur essendo tecnicamente possibile
Osserva a questo punto il tribunale
come l’accusa trascuri due importanti
evidenze che provengono dalla stessa analisi dei suoi consulenti :
1)l’andamento delle concentrazioni delle
sostanze inquinanti evidenzia una forte diminuzione procedendo
da nord verso sud , man mano che ci si
allontana dalla prima zona per
avvicinarsi alla seconda zona industriale;
2) nello spazio
antistante lo scarico SM15 –lo scarico principale di provenienza del plesso
industriale ,dalla meta degli anni 70 ad oggi- i valori di concentrazione degli
inquinanti risultano più bassi di
quelli rilevati nel sedimento di altri canali industriali .
Prima di affrontare problematiche più complesse il
Tribunale ritiene di esaminare quella
secondo cui la contaminazione è proseguita almeno fino al 1998, con l’immissione di diossine attraverso lo scarico
SM15 del Petrolchimico, ipotesi che ritiene non plausibile.
4.3 Definitiva confutazione della tesi di accusa sulla
rilevanza attuale dell’apporto costituito dal flusso del SM15 (scarico nelle
acque di provenienza dal Petrolchimico dell’oggi)
Alla base
dell’ipotesi accusatoria sopra esposta
ci sarebbero i risultati di un analisi di un prelievo fatto allo scarico S12-
affluente nello scarico SM15- in cui è
stato rilevato un valore di concentrazione
pari a150 picogrammi /l, risultato 300 volte superiore al limite
proposto per gli scarichi industriali
dalla CCTN( Commissione consultiva Tossicologica Nazionale per le diossine e
furani eguale a 0,5 picogrammi /l)
Tali esiti
non sarebbero rilevanti secondo le condivisibili critiche del c. t della
difesa Foraboschi che ha evidenziato: gli errori delle valutazioni fatte dalla
accusa .
Innanzitutto si
evidenzia che si tratta di un unico prelievo e non di campionamenti, fatto in
un momento in cui la corrente andava alimentando l’impianto biologico e non
all’atto di essere scaricata direttamente nel corpo idrico ricettore ; che il valore indicato è erroneo perché quando
venne indicato il predetto valore limite 0,5 picogrammi/ litro nell’87, la
misura di tossicità equivalente (TEQ) era calcolata secondo i criteri EPA /87, adottando i quali la concentrazione
dello scarico S12 risulta di 14 p picogrammi /l, e non di 151 p. g /l come indicato dalla accusa adottando i criteri successivi EPA/89; che
mancano altri rilevamenti tali da rendere il dato significativo, mentre la stessa Commissione ritiene
necessario disporre di un numero di rilevamenti statisticamente significativo;che
non esistevano all’epoca, secondo la normativa italiana limiti per le concentrazioni di PCDD/F nelle
acque di scarico e tanto meno nelle
correnti interne inviate a trattamento cosi come lo era la corrente S12 al
momento del campionamento; che il limite di cui sopra era stato indicato dalla
Commissione , con riferimento ad un caso particolare molto diverso: ricaduta di
polveri esistenti nei prodotti di
combustione derivanti da un impianto dall’ inceneritore della città di
Firenze ( per cui la situazione
esaminata dalla commissione non era confrontabile con quella in esame; che
comunque l’apporto inquinante era limitato –l’ accusa non si era fatta carico
di indicare le conseguenza derivanti dalla
immissione delle diossine nella misura rilevata attraverso lo scarico Sm15 – il consulente
della difesa aveva invece dimostrato che il flusso di massa dello scarico S12
dati per buoni i risultati delle analisi risultava pari a 6 microgrammi all’ora espressi in
TEQ 1987.
In via esemplificativa
venivano riportati alcuni esempi per dimostrare che l’apporto dello scarico
SM15 non aveva potuto essere rilevante in termini di disastro
Rilevava ancora il Tribunale che la
portata delle acque , proveniente dagli impianti di produzione del
Petrolchimico, trattate dai suoi
sistemi di depurazione e confluenti nello scarico finale SM15 è pari a circa
0,3 metri cubi /s e che non è fondata la affermazione del c t. Ferrari secondo cui invece lo scarico SM15 sversa circa 12 metri cubi al secondo di acque
Risulta invero
anche dalla relazione del Magistrato
alle acque che il flusso dello scarico SM15
era di 11 milioni di metri cubi ogni anno volume che corrisponde ad una portata media di 0,3 metri cubi /s.
Risulta ancora che lo scarico era stato
regolarmente autorizzato e che erano stati imposti con le prescrizioni
accessorie controlli analitici e
che quello evidenziato risulta essere
l’unico controllo positivo noto in materia di formazione di diossine.
Ad integrare
la infondatezza dell’accusa sul punto vengono richiamate considerazioni
che saranno sviluppate poi e che riguardano la tesi dell’accusa- ritenute tutte infondate- secondo cui gli scarichi erano stati
effettuati in violazione del divieto di diluizione ;
il superamento
dei parametri di accettabilità di cui al DPR n.962/1973 aveva determinato
condizioni peggiorative dello scarico delle acque ;
la presenza di
CVM nella acque di processo dei reparti CV22/23 e CV24/25 conferiva all’intero
flusso in uscita dagli scarichi SM2 e SM15 il carattere di rifiuti tossico
nocivi con la conseguenza che tutti i reflui di provenienza del
Petrolchimico dovevano essere
gestiti come rifiuti tossico nocivi
e non alla stregua delle valutazioni
tecniche e di disciplina pertinenti agli scarichi nelle acque.
Nessun addebito
può essere fatto con riferimento ad
epoca più recente- dal 1990 al 2000- risultando provato che lo scarico inquinante del Petrolchimico risulta attestato su valori medi inferiori
al carico ammesso dai parametri tabellari
di riferimento
Viene quindi ribadito prima di procedere
analiticamente alla valutazione di tutti i passaggi che secondo l’ipotesi accusatoria i sedimenti
dei canali di tutta l’area industriale sono contaminati da
microinquinanti inorganici ed organici,in particolare da diossine,che per la
costante presenza della specie di octaclorobenzofurani denunciano la loro provenienza dalla filiera
del cloro e perciò del Petrolchimico :
e che quindi nella tesi accusatoria assume rilevanza centrale il tema relativo alla impronta delle
diossine .
Innanzitutto
rileva la difesa come i prelievi di campioni siano stati fatti da pozzetti pertinenti a rami di impianti chiusi da
tempo e nei quali venivano convogliate
acque meteoriche ed acque di lavaggio
,non acque di processo.
Dall’80 le acque
meteoriche vengono raccolte in vasche
ed inviate all’impianto di strippaggio CS30 dei clorurati i cui fanghi vengono smaltiti nei forni
dell’impianto CS28.
Ciò pone innanzitutto un problema di
rappresentatività dei campioni di fango
prelevati nei pozzetti.
Comunque dalle
analisi dei prelievi di fango effettuati dai consulenti della difesa negli
stessi pozzetti in cui erano stati fatti i prelievi da parte dei tecnici del P.
M ., orientate alla ricerca dei composti organo alogenati e dei PCDD/F risulta
– secondo i grafici riportati alle pagine da 626-a 629 che
,contrariamente a quanto ritenuto dalla accusa, le impronte delle diossine
rilevate nei pozzetti non hanno caratteristiche proprie , essendo costituite da mescolanze
eterogenee , comunque non rappresentative che vi sono differenze al confronto
delle impronte caratteristiche del Canale Lusore- Brentelle - antico corpo
recettore degli scarichi del Petrolchimico
e quelle del canale industriale Nord.
Non solo le impronte delle diossine rilevate nei pozzetti non
hanno caratteristiche proprie ma anche non vi è corrispondenza con la distribuzione
delle PCDD/F presenti nelle acque reflue dei processi produttivi .
Risulta
invece e ne danno atto gli stessi
esperti delle difese che le impronte delle diossine di cui ad un campione il
n. 4 – di cui peraltro l’accusa
non aveva fornito i risultati- corrispondono esattamente a quelle dei sedimenti
del canale Lusore- Brentelle
I composti che
sono stati trovati nel canale Lusore - Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti esaminati
Le impronte del
canale Lusore –Brentelle sono diverse
da quelle degli altri canali - canale
Industriale Nord, canale Brentella, canale Salso , canale San Giuliano
L’impronta del pozzetto n 4 –fango di
fognatura del CV10-11- è del tutto identica all’impronta del canale Lusore
–Bretelle.
Le impronte dei
campioni prelevati dagli altri pozzetti
del sistema fognario TS1 e CS3 non sono sovrapponibili a nessuna altra
impronta
Tali rilievi
tecnici pongono il serio problema di verificare la corrispondenza delle impronte
rilevate dove transitavano acque reflue convogliate nei pozzetti del vecchio
Petrolchimico. con le impronte dei canali diversi dal Lusore Brentelle
4.5
Ancora sulla questione delle impronte delle diossine confutazione della
ipotesi che individua nel Petrolchimico
la matrice della contaminazione
del sedimento dei canali della area industriale, indistintamente
considerata
Osserva il Tribunale come la difesa
abbia sostenuto che la identità delle impronte rilevate nel sedimento del canale Lusore Brentelle
con quelle tipica della produzione del CVM e quelle rilevate nelle
analisi dei campioni di fanghi prelevati dagli scarichi SM15 , SM 12 ,S M 22-
vecchi e nuovi scarichi del Petrolchimico - consente di ritenere che le caratteristiche delle emissioni inquinati
del Petrolchimico rimangano almeno
tendenzialmente uniformi nel tempo in
contrasto con l’ipotesi formulata
dall’accusa secondo cui invece le
differenze riscontrate tra tali impronte – in particolare tra quelle dei canali
della prima e della seconda zona industriale- derivano da variazioni indotte
nel tempo delle caratteristiche dei processi produttivi del medesimo
tipo di quello considerato (petrolchimico filiera del cloro).
Procede quindi il
Tribunale ad elencare le ragioni della tesi difensiva elaborata sulla base
della consulenza del c. t . Vighi, che
giustifica le conclusioni di cui sopra
Il consulente delle
difese attraverso il confronto tra le impronte
dei sedimenti inquinanti nelle diverse aree della con terminazione lagunare
ed in particolare nel campo della prima e seconda zona industriale – evidenzia la differente matrice della
contaminazione ;
muovendo dall’ambito della prima zona verso
la seconda zona industriale evidenzia altresì che , per tutti gli inquinanti di interesse processuale, i livelli di
concentrazione tendono nettamente a diminuire .
Sulla base delle accertate differenze è possibile affermare che le due aree
,quella della prima zona industriale e quelle relative alla seconda zona industriale sono soggette a fonti
diverse di contaminazione da PCDD/F
La prima zona industriale ha risentito di
emissioni che presentano caratteristiche diverse da quelle degli scarichi del Petrolchimico , le quali
sicuramente caratterizzano l’impronta dei sedimenti del canale Lusore
Brentelle
Ciò confuta la tesi accusatoria della
identità della causa della
contaminazione di tutti i sedimenti dei
canali della area industriale
indistintamente considerata , da identificarsi nel catabolismo delle
acque di provenienza del Petrolchimico .
La evidenza di tali differenza viene giustificata dalla accusa con variazioni indotte nel tempo nel ciclo
produttivo
E vero che le impronte variano e non sono riconducibili ad una unica
impronta bensì ad una impronta media ma ciò perché varia nel tempo il processo produttivo
Nella sua analisi il consulente della difesa
utilizza un data-base di 1300 campioni
di sedimenti e come il consulente
dell’accusa segue il metodo di analisi
delle componenti principali, applicandolo ai dati dell’intero data base
Descrive le analisi dei componenti principali
, con un metodo di analisi
statistica che consente di trasferire
in un sistema a due o tre dimensioni quindi graficamente rappresentabile
la maggiore o minore analogia
Inoltre elimina
alcuni dati che avrebbero potuto falsare
gli esiti, escludendo tutti quei campioni che sono caratterizzati da
valori inferiori al limite della
rilevabilità analitica per almeno 6 congeneri
Da tali analisi risulta che i campioni
del Canale Nord e del canale Brentella
– canali della prima zona industriale-sono riconducibili al medesimo insieme ,
mentre quelli del canale Lusore Brentelle non sono riportabili al medesimo insieme.
Questa differenza
consente di affermare che le due aree sono soggette a fonti di inquinamento da PCDD/F diverse
Il contesto della prima zona industriale ha
risentito nel tempo di emissioni che hanno caratteristiche diverse
da quelle degli scarichi del
Petrolchimico ,che caratterizzano invece l’impronta dei sedimenti del canale Lusore Brentelle
Di conseguenza
risulta infondata la tesi accusatoria secondo cui invece il Petrolchimico sarebbe responsabile dell’inquinamento di
tutta la zona industriale indistintamente.
L’ipotesi della accusa secondo cui le
differenze delle impronte di congenere dipenderebbero da varianti nel ciclo
produttivo è rimasta a livello di sola ipotesi
E stata
invece dalla difesa dimostrata
la sua inconsistenza in quanto lo studio di campioni superficiali e profondi evidenziano una sostanziale
uniformità della impronta PCDD/F
da cui è lecito dedurre che le
variazioni indotte nel ciclo produttivo non hanno modificato le caratteristiche
delle emissioni
In
conclusione dall’esame delle impronte risulta che : le impronte rinvenute nel
canale Lusore Brentelle corrispondono
alle impronte riportate in letteratura
come caratteristiche della produzione del C V. M .; che
sono diverse da quelle rinvenute nei canali della prima zona industriale
–canale Brentelle, canale industriale nord; che l’impronta del canale Lusore
Brentelle è rimasta costante nel tempo pertanto mutazioni del
ciclo produttivo non hanno influito sulla impronta ;
che
la spiegazione dei c t dell’accusa , secondo cui la differenza
dipenderebbe da variazioni nella produzione non si giustifica ; che le impronte
dei sedimenti del Lusore Brentelle corrispondono a quelle caratteristiche della
produzione del CVM nonché a quelle
riscontrate nei fanghi prelevati dagli
scarichi SM15,SI2 ed SM22; che queste
impronte sono diverse da quelle
caratteristiche della prima zona industriale
che a loro volta dimostrano invece analogie con quelle tipiche di altre
produzioni industriali
4.6 Segue confutazione della ipotesi
che individua nel Petrolchimico la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale indistintamente
considerata
Vanno
innanzitutto evidenziate alcune circostanze che sono incontestate o comunque
adeguatamente provate.
E incontestato che il gradiente di
contaminazione diminuisce passando dalla prima alla seconda zona industriale
e cioè da nord a sud ,
avvicinandosi ai canali prospicienti l’area di insediamento del Petrolchimico;
che a sud nella zona dei cosiddetti bassi fondali, area che intesi di accusa
continuerebbe ad essere inquinata dagli apporti dello scarico SM15 il livelli di concentrazione di PCDD/F sono
notevolmente ridotti; che ‘unica eccezione è rappresentata dal canale Lusore .Brentelle , che risulta molto inquinato verosimilmente perché antico corpo recettore degli scarichi
del Petrolchimico in epoca in cui non vi era alcuna regolamentazione .
Ed il gradiente
di inquinamento dalla prima alla seconda zona industria contraddice l’ipotesi
accusatoria secondo cui la contaminazione avrebbe la sua origine nel Petrolchimico
Secondo gli esperti delle difese invece la contaminazione da diossine e furani
avrebbe inizio nella prima metà del secolo e si sarebbe intensificata fino a
raggiungere i valori massimi per le
diossine e i furani negli anni 50 e
negli anni 60, e per gli IPA negli anni
60
Gli esperti
–Bellucci e Colombo- hanno poi individuato le cause della contaminazione della
prima zona industriale ,identificando
la sorgente dell’impronta di PCDD/F presente nella prima zona
industriale , ed accertandone la diversità da
quella presente nell’antico corpo recettore del Petrolchimico;hanno poi giustificato la contaminazione del
canale sud-seconda zona industriale- e
spiegato la influenza negativa
dell’antico sito di discarica
dell’isola delle Tresse vicino allo scarico SM15.
Prima di
esaminare il lavoro degli esperti il Tribunale riprende però alcune delle
valutazione gia fatte in ordine alla normative vigenti in epoca precedente
l’entrata in vigore di norme di protezione ambientale , relativa alla
insalubrità delle lavorazioni, norme che hanno disciplinato per decenni l’esistenza e l’andamento delle produzioni inquinanti
Innanzitutto viene ricordato l’art 216 TULS
che ,prevedendo l’isolamento delle fabbriche e manifatture che
producevano gas vapori o altre
esalazioni insalubri, indicava chiaramente che la norma veniva intesa con finalità di tutela solo
sanitaria e non di tutela ambientale
È tale disposizione per quanto riguarda il
contesto territoriale di causa venne attualizzata dall’art 15 e 16 delle Norme
tecniche di attuazione del PRG di Venezia del 1956.
In particolare la PA aveva previsto per
attività che oggi definiremmo di impatto ambientale la destinazione delle aree
prospicienti la zona industriale di
Porto Marghera , che attualmente occupa un fronte di 6 km per una profondità di
circa 4 Km.
Da un punto di vista storico doveva poi essere tenuto presente –ciò che l’accusa
aveva invece ignorato -che la prima zona industriale era stata realizzata mediante l’imbonimento di vaste aree di
barena ,con materiale di risulta degli
scavi dei canali portuali ,e la seconda zona industriale invece mediante
l’imbonimento, avvenuto quasi esclusivamente con rifiuti di provenienza dalle
lavorazioni della prima zona industriale – rifiuti che alla stregua delle
valutazioni normative vigenti dal 1984 sono definiti tossico-nocivi.
Di questi rifiuti usati per l’imbonimento una grande quantità di colore rosso ,i cosiddetti fanghi rossi derivano da processi di “decuprazione
delle ceneri di pirite” e da processi di lavorazione della bauxite ,entrambi
estranei al catabolismo del Petrolchimico
Naturalmente insieme vi erano rifiuti di
molte altre produzioni- produzioni del ciclo dell’acido solforico, materiali di
risulta della produzione metallurgica, scarti di fonderia , ceneri di
carbone di centrali termoelettriche ,
fosfogessi di scarto di produzione dell’acido
solforico.
Al catabolismo delle predette produzioni si
aggiunse poi quello derivante dalle produzioni del cloro da parte del Petrolchimico ,. i cui insediamenti
produttivi vennero collocati nella seconda zona industriale e per cui gli
scarichi a avvenivano nel canale Lusore - Brentelle
Il
sottosuolo della seconda zona industriale per alcune centinaia di ettari( ad
est dell’ alveo del canale Bondante ) è costituito da rifiuti di antica
derivazione dalla produzioni della prima zona industriale.
Nello zoccolo
di questa enorme massa di rifiuti sono stai
scavati interamente il canale Industriale sud, ,il canale Industriale ovest e
in parte il canale Malamocco Marghera.
Nella seconda
zona industriale ,in area adiacente ai bassi fondali vicino allo scarico SM15-
scarico principale del Petrolchimico , dopo la cessazione, a metà degli settanta, di quelli che
recapitavano nel canale Lusore Brentelle
trova collocazione l’isola delle
Tresse,sito storico di discarica di rifiuti della prima zona
industriale.
Tutte le
predette acquisizioni solo assolutamente certe e documentate e non possono
essere messe in discussione sul piano probatorio.
E attraverso
lo studio e la analisi dei sedimenti
dei canali Industriale nord e Brentella
è possibili associare al catabolismo proprio delle tipologie
produttive della prima zona industriale
l’inquinamento dei sedimenti in
tale ambito.
Lo studio verifica inoltre le conseguenze
della trasmigrazione della
contaminazione dalla prima alla seconda zona industriale.
È stato accertato dai consulenti della difesa attraverso l’esame di dati di
letteratura innanzitutto che dal 1932
era presente nella prima zona industriale la lavorazione del magnesio- e a tale
tipologia produttiva , secondo quanto riportato in US .EPA.2000, la tabella allegata alla predetta relazione associa
come contaminante proprio le diossine ;
che la decuprazione delle ceneri di pirite
,attuata dal 1932 a tutti gli anni 60, è in grado di produrre rilevanti quantità di diossine,
caratterizzate da un impronta simile a
quella diffusa nell’ambito della prima zona industriale.; che le ceneri di pirite rientrano nel catalogo dei
materiali di risulta,provenienti dalla prima zona industriale, e utilizzati per
imbonire la seconda zona industriale
Il tracciante principale di tale rifiuto
,utilizzato in grandi quantità per
imbonire la seconda zona industriale , è costituito dai cosiddetti fanghi
rossi.
Data la rilevanza di questa tipologia di
rifiuti sono state fatte specifiche
analisi, previa loro raccolta e classificazione, prelevando sei campioni
di fanghi rossi, i primi cinque ( da ES1 a ES5) sulla sponda del canale sud e
l’ultimo ES6 sulla sponda del canale industriale ovest
Tutti i campioni sono stati prelevati nella
seconda zona industriale e dove i
fanghi rossi si trovano in zona a diretto contatto con le acque dei
canali ,le cui sponde subiscono continua erosione .
Le analisi effettuato hanno consentito di
accertare la presenza in uno solo dei campioni, di ceneri di pirite e in
tutti gli altri la presenza di fanghi
rossi bauxitici,entrambi rifiuti estranei al catabolismo del Petrolchimico
;inoltre in tutti questi campioni
l’impronta di congenere .che distingue un tipo di diossina dall’altra
è la stessa del canale Nord e
del canale Bretella.
Le analisi dirette alla ricerca delle
diossine hanno portato ad accertare anche
concentrazioni di arsenico –che caratterizza la pirite –ed alluminio
–che caratterizza la bauxite-
E ciò consente di associare i campioni alle
tipologie produttive che li hanno originati.
Inoltre per
tutti i campioni prelevati al di fuori
di uno l’impronta della diossina è eguale a quella del Canale Industriale nord
ed al canale Brentella e si tratta di impronta eguale a tutte quelle rinvenute negli altri canali
al di fuori del canale Lusore .
Brentelle
E l’impronta che consente di associare la
presenza di PCDD/F rinvenuto nei canali
ai fanghi rossi provenienti dalla lavorazione della pirite e della
bauxite ,entrambi presenti nell’ambito della seconda zona industriale e
soggetti a fenomeni di intensa trasmigrazione passiva
Da documentazione non contestabile risulta
inoltre che i fanghi rossi bauxitici erano prodotti in misura molto
rilevante e che venivano usati non solo
per imbonire ma che venivano anche spappolati
direttamente nei sedimenti dei canali
e che tra le aree imbonite e contaminate risulta essere indicato il
canale Industriale sud (della seconda zona industriale)
Gli esperti delle difesa hanno anche
evidenziato sulla base delle
informazioni assunte che la bauxite veniva
lavorata dalla Save utilizzando il processo Bayer, cominciare dagli anni 30,
che non produce diossine e dalla società Italiana Alluminia con il processo Haglund che come verificato
sperimentalmente produce invece diossine
Osserva a questo punto il tribunale che le
sponde dei canali della seconda zona industriale e l’area di insediamento del Petrolchimico in tutta la sua lunghezza sono
caratterizzati dalla presenza di una notevole quantità di fanghi rossi –che
nulla hanno a che vedere con la produzione del Petrolchimico -tanto risulta
obiettivamente rilevabile anche percorrendo il canale Sud fino a giungere alle sponde del canale
Industriale ovest.
E risulta anche
la attuale trasmigrazione passiva di tali inquinanti dalle sponde dei
canali industriali alle acque e ai
sedimenti, cosi come analoga trasmigrazione avviene dalla isola delle Tresse
dove sono stati smaltiti oltre un milione di metri cubi di fanghi rossi verso i cd bassi fondali prospicienti lo
scarico SM15.
Risulta anche dalla deposizione del teste
Chiozzotto- teste dell’accusa -che nell’isola delle Tresse sono stati
convogliati enormi quantitativi di rifiuti
ed il fenomeno di erosione della isola delle Tresse risulta avere causato un arretramento delle sue sponde di oltre 50 metri, proprio
davanti al punto di recapito dello scarico
SM15, e che il progetto di messa in sicurezza del sito prevede il contenimento della percolazione delle
sostanze inquinanti .
Viene
poi rilevato che nel canale
Malamocco –Marghera frontistante lo scarico SM15, per tutti quasi i parametri
analizzati i sedimenti presentano
livelli di concentrazione piu bassi di quelli osservati in altre zone
dell’area industriale e che i livelli di concentrazione delle sostanze inquinanti si riducono
notevolmente nel passaggio dalla prima
alla seconda zona industriale e in prossimità dello scarico SM 15 raggiungono valori non eccedenti quelli
attesi ,comunque non sproporzionati ,rispetto
a quelli che caratterizzano situazioni paragonabile , connotate da un
impatto ambientale moderato certo non disastroso.
Dei valori di contaminazione raggiunti in prossimità dello scarico S. M15 ne da
atto invero lo stesso consulente
dell’accusa.
L’accusa di fronte a questi accertamenti
assume che la presenza di diossina nei fanghi rossi lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale dipende
da pratiche di commistione di
tale residuo con peci clorurate
provenienti dal Petrolchimico ,che rimarrebbe cosi l’unica matrice di contaminazione dei
sedimenti della zona industriale per
quanto riguarda le diossine
Ma si tratta di una asserzione non
provata né sorretta da indizi.
A sostegno della sua tesi l’accusa replica
che nel tempo in ambiti distanti dal Petrolchimico. sono state attuate pratiche
di evacuazione diretta in laguna di
residui clorurati di provenienza da tale plesso a mezzo di bettoline e
autobotti.
Anche questa affermazione rimane non provata.
Contrariamente a tale ipotesi accusatoria
risulta invece che dagli inizi degli anni 70 le cosiddette peci clorurate furono inviate per
trattamenti presso l’impianto di incenerimento
CS28, costruito nel 72 e che
in epoche precedenti erano smaltiti in discarica .
La tesi accusatoria è smentita anche dal
fatto che nei canali della prima zona industriale non si riscontra associazione di diossina con
clorurati, come avrebbe dovuto riscontrarsi se fosse vero quanto affermato
dalla accusa , mentre è stretta la relazione tra diossine e metalli pesanti –arsenico ed alluminio tipici delle
lavorazioni della prima zona industriale.
Nel canale Lusore .Brentelle . è invece
presente in elevata concentrazione la contaminazione di solventi clorurati
E viene anche
ribadito che non è vero che la
lavorazione della bauxite non produca diossine, valendo questa
affermazione , solo per il processo
Bayer, ma non per il processo Haglund ,come dimostrato dalla difese e
non contestato dalla accusa.
Le conclusioni che il tribunale ritiene di
dovere trarre in base all’evidenza
probatoria sopra esaminata sono quindi le seguenti:l’inquinamento ha diverse
matrici:
a) scarichi nella
acque aventi recapito ei canali della prima zona industriale provenienti dagli insediamenti produttivi
cola insediati dagli anni 20 e in grado di rilasciare gli stessi inquinanti che
secondo l’accusa proverrebbero unicamente dal Petrolchimico e ciò contro l’evidenza del forte gradiente
di contaminazione nella prima zona industriale
e contro l’evidenza delle differenti
impronte delle diossine nell’uno e nell’altro ambito
b) rifiuti tossici-
nocivi di risulta delle medesime produzioni-fanghi rossi bauxitici e ceneri di pirite che sono stati certamente
utilizzati per l’imbonimento delle aree della seconda zona industriale e nel corpo dei quali sono stati
scavati i canali della seconda zona industriale e che sono stati altresì
oggetto di erosione da parte delle acque a seguito degli scavi dei canali e a
seguito delle maree , del moto ondoso e
del transito delle navi
c) il catabolismo
nelle acque del Petrolchimico come fattore inquinante delle sue immediate
adiacenze ;
il canale Lusore
Brentelle antico corpo ricettore
degli scarichi del vecchio
Petrolchimico e di alcuni scarichi
superstiti, muniti tutti all’entrata in vigore della prima
normativa in materia d p r 962/1973 –l’ 1-3-1980 di impianti di abbattimento del loro carico inquinante è stato certamente inquinato dal
Petrolchimico.
Segue la verifica della compatibilità delle
acquisizioni probatorie sopraindicate con l’andamento dell’inquinamento
nell’ambito della zona industriale e
della esistenza di eventi
disastrosi in senso proprio.
4 .7 Sulla base di quali premesse ed entro quali limiti è possibile constatare la
presenza di eventi di danno per l’ecosistema
L’accusa ha
assunto, per sostenere l’evento di danno rilevante in termini disastrosi per
l’ecosistema, le tabelle allegate al
protocollo d’intesa per la laguna di Venezia
del 1993.
Queste tabelle però non definiscono
parametri di qualità ambientale ma sono finalizzate solo a stabilire criteri di mobilizzazione dei
sedimenti , individuando i parametri secondo cui valutare le caratteristiche
che devono avere i materiali
sedimentari per essere immessi o
reimmessi in laguna , trattasi sostanzialmente di criteri di mobilizzazione dei sedimenti .
I valori
indicati rispettivamente nelle tabelle
A,B,C del predetto Protocollo d’Intesa
non significano pertanto pericolo reale
perchè non esprimono condizioni di
rottura di sicurezza per l’ecosistema e
non definiscono parametri di qualità ambientale
Né si ritiene congruo assumere, come dato
probante la rottura delle condizioni di sicurezza dell’ecosistema ,il confronto
tra le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti dell’area
industriale e quelle rilevate nel
sedimento dell’isola di S Erasmo , considerato anche che spesso l’accusa assume ,a termine di confronto, il
valore massimo di inquinamento rilevato
nei canali della zona industriale . cioè il campione rilavatosi in assoluto “il
più inquinato”
Sono pertanto condivisibili le critiche
della difesa relative alla impostazione
seguita dagli esperti della accusa .
Condivisibile è invece il diverso criterio
di verifica dalle stesse proposto che
si basa sul confronto tra le concentrazioni
rilevata nell’area industriale e
criteri di qualità ambientale.
Il
consulente delle difesa premette innanzitutto che secondo il Comitato
scientifico tossicologico ed ecotosssicologico della commissione europea 1994
un obiettivo di qualità ambientale, per una determinata sostanza dovrebbe
esprimere un livello od una concentrazione
tale da non determinare alcun effetto indesiderato nell’ambiente e tale
da garantire la protezione delle comunità biologiche e degli ecosistemi
naturali
Esempio di un
obiettivo di qualità per un ambiente
acquatico: dovrebbe permettere che
tutti gli stadi del ciclo vitale di
tutti gli organismi acquatici possano compiersi con successo e senza
alterazioni; non dovrebbe produrre condizioni tali da determinare
l’allontanamento degli organismi
dall’habitat o da parte di esso
in cui sarebbero presenti in condizione naturali – assenza di impatto
antropico- non dovrebbe produrre
bioaccumulo di sostanze a .livelli
pericolosi per il biota ( incluso l’uomo) attraverso la catena alimentare o per altre vie ,non dovrebbe produrre condizioni capaci di alterare la
struttura e la funzione dell’ecosistema
acquatico.
Per quantificare questo obiettivo il massimo
risultato conseguibile sperimentalmente
è il cosiddetto livello di non
effetto osservato ( NOAEL) , cioè un livello che, nelle condizioni sperimentali note, non ha permesso di
osservare alcuno degli effetti avversi.
Il metodo più usato è quello che
si basa sulla estrapolazione dei dati
sperimentali, mediante la applicazione di fattori di sicurezza , che
saranno tanto più elevati quanto più carente è l’informazione o quanto maggiore
è il livello di incertezza dei dati sperimentali.
Nel caso dei
criteri di qualità per i sedimenti
l’informazione è molto scarsa e sono pertanto necessarie ulteriori estrapolazioni.
A questo scopo normalmente viene utilizzato
il metodo degli equilibri partitivi che
si basa sul principio del calcolo
della ripartizione delle
sostanze tossiche tra acqua e sedimento
Si immagina che l’effetto tossico sugli
organismi del sedimento sia provocato dalla parte di sostanza in soluzione
nell’acqua interstiziale e si fa
riferimento ai valori di tossicità noti per gli organismi acquatici.
Data la incertezza che il metodo degli
equilibri partitivi comporta vengono
applicati ulteriori fattori di sicurezza
Il criterio di qualità ambientale ha finalità
essenzialmente preventive ed è espressione del principio di precauzione.
I criteri di
qualità devono considerarsi quindi come uno strumento preventivo ,ampiamente
protettivo, per cui il superamento di
questi criteri non deve però essere visto come raggiungimento di livelli
ambientali tali da determinare un rischio reale ,ma soltanto come l’erosione di margini di garanzia , che in
generale possono avere l’ampiezza di
alcuni ordini di grandezza rispetto al livello degli effetti osservati.
Ed è evidente che nell’ambito di tale scelta
vi possano essere differenze come conseguenza
della esistenza di margini di discrezionalità
Quello che varia nei diversi criteri o livelli protettivi è il maggiore o minore grado di sicurezza, il
loro superamento non comporta il superamento di una soglia di pericolo reale
Il c t degli
imputati Vighi utilizza un data base
per valutare lo stato di contaminazione dei sedimenti da metalli e microinquinanti organici che ha riguardo a 1300 campioni di sedimenti, che sono stati prelevati in diversi
settori dei canali industriali e della laguna, e confrontati con i valori
limiti indicati secondo i diversi
criteri di qualità ambientale .
I campioni sono stati prelevati a profondità di oltre due metri che si riferiscono a contaminazione
pregressa di molti decenni or sono ed a
profondità più ridotte di 10-15 cm che possono essere considerati
rappresentativi di una contaminazione
più recente, relativa agli ultimi 20 anni
In molti casi la
profondità del prelievo non è indicata
e comunque la datazione delle contaminazioni non è rilevante nelle
prospettive accusatoria che riferisce
al fatto dell’imputato –quello successo per ultimo nella posizione di garanzia - l’intero ordine delle conseguenze
la cui causa ritiene di individuare nel
catabolismo del Petrolchimico
Nessun rilievo
viene dato nella prospettiva
dell’accusa al problema causale delle condotte dei singoli imputati
Vengono quindi nella
sentenza a questo punto esposti in modo analitico gli esiti del primo confronto, innanzitutto per quanto
riguarda i metalli ,
attraverso dati e grafici dalla cui lettura derivano in sintesi le seguenti conclusioni : i livelli
complessivi di contaminazione dei sedimenti mostrano un netta differenza tra i
canali della prima zona industriale, nei quali i valori medi superano spesso i
criteri di qualità ,e i canali della
seconda zona, nei quali i valori medi risultano essere compatibili con i limiti
di accettabilità considerati; il superamento dei limiti nell’ambito della seconda zona industriale è
relativo solo ad alcuni sporadici valori massimi; i valori relativi ai campioni
superficiali sia nella seconda zona come nella prima sono compatibili con i criteri di qualità di cui si detto ,e, le situazioni di maggiore contaminazione
sono imputabili ad emissioni pregresse presumibilmente anteriori all’ultimo
ventennio.
per il PCDD/F:
valgono le precedenti osservazioni con la
precisazione che, nei campioni superficiali
della prima zona, diminuiscono i valori massimi ma aumentano quelli medi;
tuttavia, nella
seconda zona industriale e nel resto
della laguna, i valori sia medi sia
massimi sono costantemente al disotto del limite indicato dal NOAA.
per
gli IPA:
il gradiente di
diminuzione è meno evidente ed è significativo il valore relativamente alto,
anche nei sedimenti superficiali relativi alla zona urbana ,dati che dimostrano
come questo tipo di inquinamento può derivare anche da fattori diversi da
quelli industriali
in ogni caso i
valori specialmente nei sedimenti superficiali sono sempre entro i limiti di accettabilità.
per gli
HCB:
in questo caso i valori misurati, sebbene sia
ancora evidente il gradiente , superano anche nella seconda zona industriale i
livelli di riferimento.
Deve però
a questo punto accertarsi se il
superamento dei limiti di cui sopra significhi
pericolo reale per l’ecosistema lagunare
A tale scopo è stata calcolata la
concentrazione prevista di non effetto (PNEC) utilizzando la metodologia
ufficiale proposta dalla Commissione europea basata sul principio degli equilibri partitivi e su dati tossicologici sperimentali.
Viene cosi
stabilito il limite, al disotto del quale non si verificano effetti tossici
,con una riduzione però sostanziale dei
margini di sicurezza.
Con riferimento al valore PNEC risulta che
sia i valori medi come quelli massimi dei canali della seconda zona
industriale sono inferiori al valore
soglia , e pertanto non esiste pericolo reale di effetti tossici per gli
organismi,nonostante la riduzione dei margini di sicurezza
Il confronto tra il valore PNEC ed il
criterio di qualità dimostra l’ampiezza dei margini di sicurezza che sono stati applicati anche nei confronti
effettuati per le altre sostanze.
Al metodo sopraesposto seguito dai tecnici della
difesa sono state fatte dalla accusa le
seguenti critiche : il confronto con i criteri di qualità sarebbe di affidabilità incerta; l’uso
frequente di medie e mediane ridurrebbe i significati della contaminazione; viene trascurato il fatto che, nei
sedimenti dei canali, vive una comunità di organismi detritivori, per cui dovrebbe tenersi conto anche delle
condizioni favorenti la
biodisponibilità dell ‘inquinante incorporato nel materiale sedimentario.
Alle critiche
predette va risposto –secondo il Tribunale- che, per quanto riguarda i sedimenti,
non si dispone di altri dati basati su criteri sperimentali , e tanto vale sia
per i metalli come per i micro
contaminanti organici; che i pochi paesi ed organismi che hanno esaminato il
problema hanno declinato il principio
di precauzione , introducendo normative
finalizzate alla tutela
dell’ecosistema acquatico, che non vi
è motivo per ritenere inaffidabile;
che i protocolli usati dal consulente tecnico
delle difese sono quelli elaborati dagli organismi internazionali; che
si sono occupati della materia;
che, come
tutti i criteri di qualità,
rappresentano delle estrapolazioni e sono stime teoriche che vengono corrette da adeguati fattori di sicurezza ,che sono tanto più
ampi quanto minore e l’effettiva base sperimentale.
E gli esiti complessivi
della valutazioni fatte dal Vighi, condivisibili per le argomentazioni
sopraesposte dimostrano che le concentrazioni di inquinanti rilevate nei sedimenti sono compatibili nei
valori medi ( spesso anche in quelli di picco) con i parametri assunti.
Casi di superamento si riferiscono solo ad
aree distanti dal Petrolchimico, nell’ambito della prima zona industriale .
Per quanto riguarda poi la critica relativa alla non adeguata valutazione della
biodisponibilità degli inquinanti si rileva come non sia facile la
valutazione e come in ogni caso con riferimento ai metalli , secondo il principio di precauzione , i
metalli si assumono totalmente
biodisponibili.
Per quanto
riguarda i microinquinanti organici viene fatto presente che le
sostanze in esame PCDD/F, PCB; IPA;HCB sono composti ad elevata persistenza ,
per cui l’intervento di organismi detritivori non può rendere più o meno
disponibile la sostanza.
Per quanto
riguarda la critica fatta all’uso delle medie e mediane viene fatto presente che
contrariamente ad un valore massimo e proprio quelli medio o mediano che rappresenta adeguatamente la reale situazione e che in particolare risulta più corretta la rappresentazione quando si fa riferimento alla media
geometrica anziché a quella matematica.
Media
geometrica e mediana fanno parte dei
parametri che gli statistici chiamano robusti cioè sufficientemente solidi da
non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati
considerata.
Rileva infine il
Tribunale come le conclusioni del
consulente tecnico dr Vighi ,
che sono per le argomentazioni sopraesposte
condivisibili, vengano a coincidere con quelle del Piano Direttore del
1989 , che ha accertato una situazione
al limiti del collasso fini agli anni 70, ed il miglioramento , certo
l’assenza di un aggravamento, dopo
l’inizio degli interventi di depurazione
e di riconversione delle tecnologie industriale , ma non facilmente
superabile per quanto riguarda la componente inglobata nei sedimenti.
Ma le
concentrazioni di inquinanti nei
sedimenti dell’area industriale non
significano comunque rottura delle condizioni di sicurezza per l’incolumità
pubblica.
Da ultimo viene ancora osservato come , con
riferimento al valore del fall-out atmosferico ,per quanto riguarda la
contaminazione dei sedimenti dei canali
,le emissioni di PCDD /f di attuale derivazione dagli impianti di incenerimento
del petrolchimico siano compatibili con i limiti di legge.
Non può
sostenersi un progressivo inquinamento nel tempo delle concentrazioni di
PCDD/F nei sedimenti perché i dati confrontati si
riferiscono stazioni di prelievo
totalmente diverse.
Rimane infine non confutata la affermazione e secondo cui ,per valutare la
progressione nel tempo della contaminazione , l’unico metodo sperimentato consiste nell’esame delle carote di sedimento per cui sia
possibile una sia pure approssimativa datazione .
Rimane altresì
non confutata la valutazione , secondo cui le informazioni derivate da questo
tipo di analisi , significano una progressiva diminuzione delle
concentrazioni dei principali
inquinanti, almeno negli ultimi
decenni.
Premesse: infondatezza
della tesi di accusa secondo cui gli scarichi del Petrolchimico sarebbero stati
effettuati in violazione del divieto di
diluizione.
Primo addebito: gli scarichi del
Petrolchimico. sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di diluizione.
Premesso che
l’ipotesi accusatoria collega l’evento disastro- consistito nella contaminazione del sedimento dei canali- e
l’avvelenamento e adulterazione del biota – vivente nel sedimento dei canali al
supposto malgoverno degli scarichi di provenienza del plesso industriale nelle
acque - concretizzatosi nello smaltimento di reflui convogliabili in condotta ,
catalizzatori esausti e altri
sottoprodotti di risulta attraverso gli scarichi SM2 e SM15 ( con concentrazione
di nitrati e clorurati superiori ai limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate al D.P.R n
962 /1973)- osserva il Tribunale come, in ipotesi accusatoria, tre siano
gli specifici addebiti di colpa:
1) :gli scarichi
del Petrolchimico sarebbero stati
effettuati in violazione del divieto di diluizione;
2) sarebbero stati violati i parametri di
accettabilità stabiliti dal DPR 962/1973
3) i reflui di provenienza del
Petrolchimico avrebbero dovuto essere
smaltiti come rifiuto tossico nocivo ,in
forme adeguate a quelle nominate dal d. p .r n.915/1982 , e non nelle forme adeguate alla disciplina pertinente gli scarichi della acque
Tutti gli
addebiti sono infondati.
Nel corso degli
ultimi venti anni interessanti il periodo di imputazione, si trovano ad essere
in vigore le tabelle allegate al d .p .r n.962/73 ;
il termine previsto per la costruzione degli
impianti di depurazione risulta essere stato prorogato fino a tutto l’1-3- 1980
la prima disciplina normativa degli scarichi
nella acque opera quindi dal marzo 1980;
molto prima di tale data i gestori del
Petrolchimico sono intervenuti sul
catabolismo delle acque :
Nello
specifico è innanzitutto infondato che gli scarichi del petrolchimico siano
stati effettuati in violazione del noto divieto di diluizione
E per spigare i motivi di tale valutazione
viene premesso l’elenco degli scarichi e delle correnti del Petrolchimico ,
aventi recapito in laguna- con la indicazione dei vari canali interessati- e
che sono tenuti al rispetto dei parametri di cui alle indicate tabelle:
SM15
SM 2
SM 7
SM 8
SM 9
SM 22 corrente e non
scarico diretto per cui valgono
comunque gli stessi limiti di accettabilità
S 11 e S 12 correnti
che convogliano reflui clorurati e
reflui mercuriosi , a cui si applica la disciplina prevista dal DLVo n133/1992
Viene quindi osservato che tutti gli scarichi veri
e propri- per i quali e richiesto il rispetto
dei parametri di accettabilità – risultano regolarmente autorizzati e
che tutte le confluenze di correnti interne sono note al magistrato alle acque
Premesso che è incontestato che nei predetti
scarichi confluissero la acque di processo trattate del Petrolchimico . ,oltre
ad acque meteoriche , di
raffreddamento, civili chiarificate,
rileva il Collegio come
l’accertamento dei requisiti di legge debba essere fatto in
corrispondenza del punto di immissione
delle acque nel ricettore – salvo deroghe - mentre quanto attiene alle correnti
interne è irrilevante , e ,salvo deroghe, le correnti interne non richiedono
autorizzazione .
Ne consegue che la tesi accusatoria ,secondo cui il
principale scarico del Petrolchimico ,. SM15- in cui confluivano e confluiscono
, oltre le acque di processo , le acque di altre correnti- avrebbe funzionato
quale grande diluitore , in violazione
del divieto di cui all’art 9 comma
quarto e settimo L319/1976 come modificato con legge 650/1979- è infondata
perché in nessun modo la diluizione era
vietata.
A chiarimenti di
quanto affermato ricorda il tribunale come, in un insediamento produttivo,
possono esserci più scarichi parziali- provenienti diverse lavorazioni o da un
determinato ciclo tecnologico - oltre
allo scarico totale -che è quello rappresentato dalla miscela dei diversi
effluenti parziali- e come sia la legge Merli a precisare in quali
termini possa essere lecita la
diluizione
Due sono le enorme che si occupano della
questione :l’art 9 4° comma che precisa “ i limiti di accettabilità non
potranno in alcun modo essere
conseguiti mediante diluizione
con acque prelevate esclusivamente allo scopo”
L’art 9 7° comma
che precisa “ non è comunque consentito
diluire con acque di raffreddamento, di
lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze
di cui al n10 delle tabelle A) e C) prima del trattamento degli scarichi
parziali stessi per adeguarli ai limiti
previsti dalla presente legge “
Dalla lettura di queste norme risulta chiaro
che è vietata sempre la diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo
, ,mentre la diluizione con acque di lavaggio o di raffreddamento è vietata solo quando ha per oggetto taluni
scarichi parziali ,. contenenti sostanze ritenute particolarmente inquinanti e
cioè quelle indicate alle tabelle A e C della legge Merli
La normativa citata ,cosi come quella attualmente in vigore- D.lvo n152/1999 - prevedeva anche la possibilità
che gli scarichi particolarmente inquinanti
venissero sottoposti a specifiche prescrizioni, che ,nella fattispecie,
non risultano essere state imposte ,nè pertanto violate
Tanto premesse va ritenuto che in assenza di
specifiche prescrizioni , sia possibile
la confluenza di acque di raffreddamento , di lavaggio nello scarico terminale,
tenuto quest’ultimo al rispetto dei
limiti di accettabilità.
E la P.A. risulta avere dato prescrizioni –
nel senso dell’obbligo di rispetto dei limiti di cui alle tabelle del d .p .r
n.962 prima della miscelazione- solo per la corrente SM22 , mentre per tutte le
altre non risulta presa alcuna disposizione
.
La separazione delle
acque di raffreddamento da quelle di processo è stata disposta per gli scarichi in laguna solo con D. M 30-7-1999 che innova il quadro
di riferimento normativo pertinente agli scarichi di cui si discute
Conclusivamente secondo le valutazioni
normative ,tecniche e di disciplina
correnti all’epoca dei fatti dal 1980 al 1999 , l’addebito di colpa risulta pienamente
infondato, perché la miscelazione delle correnti era consentita, le pubbliche
amministrazioni ne erano informate, tanto che hanno, in alcuni casi ,dato
specifiche prescrizioni che risultano essere
state rispettate.
4.9 Della infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza delle tesi d’accusa secondo cui il superamento dei parametri di
accettabilità di cui al D.P.R n962/1973 determinò condizioni peggiorative dello scarico delle acque
Anche questa tesi non è fondata
Hanno accertato
i consulenti della accusa e il dato è incontestato, basandosi sull’esame dei
bollettini di analisi interna che ci sono stati più superamenti istantanei e puntuali dei limiti stabiliti dalle tabelle allegate al D.P.R.
n962 /73
Il consulente delle difese ha però ritenuto utile anche riferire i superamenti , oltre che ai
bollettini, e alle date di
verificazione ,alla entità delle misure effettuate .
Ed è stato innanzitutto evidenziato che per tutti gli scarichi vi è stato un
progressivo miglioramento della situazione, nel senso che la percentuale dei
superamenti è andata drasticamente
diminuendo dal 4,4% del 1990 all’1% del
1994.
La difesa ha poi orientato l’analisi nel
senso della verifica dell’effettivo carico inquinante ed ha quindi proposto di
verificare se il superamento puntuale dei limiti di accettabilità
determina –nell’unità di tempo considerata – l’immissione nel corpo ricettore
di un carico inquinante superiore o inferiore rispetto a quello ammesso dalla
norma.
Determinata quindi per ciascuno dei
parametri- in relazione ai quali sono stati accertati superamenti puntuali istantanei - la concentrazione
media annua , la difesa verifica per gli anni 1994-1997-1998-1999 e 2000 che
mai risulta superato il valore medio di concentrazione nell’anno.
Gli scarichi di provenienza Petrolchimico ,
nel loro reale andamento, si attestano su valori medi evidentemente inferiori
rispetto ai parametri di riferimento, producendo un impatto ambientale
corrispondente a quello di una scarico regolare .
La
validità ed il significato dell’accertamento fatto dalla difesa deriva dalla
imputazione che non è quella contravvenzionale bensì quella del delitto di disastro e avvelenamento –
comunque eventi di danno
Sul punto la accusa sostiene che parlare di
medie non avrebbe nessun significato nè
sul piano scientifico né sul piano normativo.
La norma si
preoccupa infatti solo di stabilire la
concentrazione limite senza considerare il diverso problema della quantità globale di inquinante ,
immesso in un certo intervallo di tempo nel corpo ricettore, non prendendo in
considerazione il criterio di concentrazione
massima ammissibile di inquinanti
che il corpo ricettore può tollerare .
Nell’economia dell’accertamento che ne occupa non avrebbero pertanto cittadinanza i
concetti di quantità giuridicamente
consentita o di portata autorizzata
Ritiene invece il Tribunale ,con riferimento
alla necessità di accertare l’evento di danno rilevante in termini di disastro
o avvelenamento , giuridicamente necessario accertare la entità del carico
reale effettivo in termini di
impatto ambientale , verificando
se degli apporti inquinanti dello
scarico, nella unità di tempo, superino
la disciplina normativa concernente il catabolismo nella acque
E la difesa
dimostra che uno scarico che si attesti su valori medi inferiori a quelli
limite nel suo andamento nel tempo,determina
un impatto ambientale corrispondente a quello di uno scarico regolare
Diverso è
l’accertamento avente per oggetto i singoli superamenti ,da quello relativo
all’impatto ambientale e la sommatoria dei singoli superamenti non costituisce
una lettura di sintesi del catabolismo
nelle acque .
Evidenzia
ancora , il Tribunale, a sostegno della fondatezza della tesi difensiva,
che la tecnica usata dal nostro legislatore ha una funzione semplificativa degli accertamenti, e che in
altri paesi vengono adottate tecniche diverse, che tengono invece conto delle caratteristiche del corpo idrico
ricettore e si basano sul metodo che verifica la concentrazione massima ammissibile di inquinanti che il ricettore può tollerare
.
Il metodo
seguito dalla legge Merli di stabilire tabellarmente concentrazioni limite di inquinante , senza considerare la
quantità globale di inquinante –prodotto della concentrazione per la portata dello scarico immesso in un
determinato arco di tempo nel corpo ricettore
- costituisce un limite e non un valore della legge.
Normative più recenti e conformi alle
direttive comunitarie assumono come
parametri di riferimento non solo le concentrazioni ma anche le quantità di
inquinante effuse
Ed anche
la normativa applicabile-legge Merli- non ignora invero
le categorie di portata autorizzata e/o quantità giuridicamente consentita , tanto che l’art 21 prevede un reato contravvenzionale , quando la domanda di autorizzazione non
risulta corredata dalla puntuale precisazione
delle caratteristiche quantitative e qualitative del carico inquinante .
4.10 Segue infondatezza degli addebiti di colpa
Infondatezza della tesi di accusa
secondo cui la presenza di C. V .M
nelle acque di processo dei reparti CV 22/23 e CV 24/25 conferirebbe all’intero
flusso in uscita dagli scarichi SM.2 e SM.15 il carattere di rifiuto
tossico nocivo
Secondo il c t
dell’avvocatura – Cocheo - gli scarichi nelle acque di provenienza del Petrolchimico sarebbero soggetti alla disciplina normativa pertinente ai rifiuti
tossico- nocivi e non a quella concernente
la tutela delle acque applicandosi nella fattispecie il regime di
eccezione previsto dal comma 6 dell’art 2 D:P:R 915/82.
Intesi di accusa
l’unico trattamento consentito
dell’intera masse di reflui consisterebbe nella termo distruzione o
nel conferimento in discarica ,adeguatamente alle valutazioni normative
,tecniche e di disciplina di cui al D.P.R n 915/82
Secondo
l’interpretazione dell’accusa ,la legge n.319 /76, alla stessa stregua del d. p
.r n.962/73 avrebbe carattere di sussidiarietà
rispetto al D.P.R n 915/82, e rilevante in tal senso sarebbe il disposto del penultimo comma dell’art 2 D. P .R
n 915/82 che cosi recita” resta salva
la normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n319 e successive modificazioni e
relative prescrizioni tecniche per quanto riguarda la disciplina dello
smaltimento nelle acque,nel suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di
cui all’art 2 lettera e punti 2 e 3 della citata legge, purchè non tossici e nocivi ai sensi del presente decreto
Rileva il Tribunale come la norma parli
invero di liquami e fanghi e non di
scarichi.
La differenza
sostiene l’accusa è però solo
apparente perchè il disposto del primo
punto dell’allegato 5 della delibera 4-2-1977 del Comitato dei ministri per la tutela delle acque
dall’inquinamento stabilisce una
equivalenza normativa tra il termine liquame
ed il termine scarico.
Sarebbe di conseguenza secondo la accusa la
reale tipologia del refluo a definire se ad uno scarico sia applicabile la disciplina di cui alla legge
319/1976 o quella di cui al D.P.R 915/1982
In tesi di accusa la normativa tecnica di attuazione del D.P.R n.915/82 e pertanto
la deliberazione 27-7-84 del Comitato interministeriale- norma madre
l’art 4 D.P.R n.915/82- definirebbe in modo preciso quali scarichi possono
essere regolati dalla legge n319/76 e quali invece siano sottoposti al più
rigoroso regime di cui al D.P.R.n.915/82.
Sono regolati dal D. P . R n 319/76 tutti gli
scarichi che non derivano dalle attività produttive che figurano nell’elenco 1.3 della deliberazione sopra
citata, purchè il soggetto obbligato dimostri che i rifiuti non sono
classificabile come tossico nocivi,
Conclusivamente spetterebbe al produttore provare che nei reflui della lavorazione non siano contenute una o più sostanze indicate nella tabella
1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, e/o una o
più della altre sostanze, appartenenti
ai 28 gruppi di cui all’allegato al D.P.R. n915/82- 20 nel gruppo sono indicate le sostanze chimiche di laboratorio non
identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente non sono conosciuti- ,in
concentrazione superiore ai valori di C. L ,ricavati dalla applicazione dei
criteri generali desunti dalla tabella 1.2
L’onere di dimostrare quanto sopra incomberebbe al produttore e quindi agli imputati prima
della attivazione dello scarico
Tra le sostanze
per le quali non sarebbe possibili escludere a priori la presenza di
concentrazioni superiori al limite del consentito dalla tabella 1.2 citata verrebbe in rilievo il C. V .M
Non avendo gli imputati dimostrato che la
concentrazione delle sostanze predette
era entro il limite delle concentrazioni limite ,tutti i reflui convogliati in
condotta provenienti dal
Petrolchimico avrebbero dovuto essere smaltiti in forme
adeguate tramite la termodistruzione
E se i
reflui 22 milioni di metri cubi/ annui
provenienti dagli impianti CV22
e CV23 sono definiti come rifiuti liquidi tossico nocivi , con la conseguenza
che avrebbero dovuto essere inceneriti ,
tale carattere tossico -nocivo
sarebbe stato conferito
all’intero flusso dello scarico SM15- 370 milioni di metri cubi/anno
Ed un così
rilevante scarico di rifiuti tossico nocivi qualificherebbe la colpa dei
delitti di pericolo contestati : disastro e avvelenamento del biota.
Sempre in tesi
di accusa, da premesse legalmente presunte come vere, deriverebbero delle
conclusioni che neppure sarebbe necessario sperimentare in fatto e ciò
perché gli imputati avrebbero dovuto
rendere la prova del contrario
Ritenendo invece il tribunale ,non
condividendo l’ipotesi accusatoria , che fosse necessario accertare in concreto la natura tossico nociva delle
sostanze inquinanti alla stregua delle
norme di legge in vigore rivolgeva al
consulente della accusa la domanda se
,al di la di ogni presunzione legale, egli fosse al corrente di un qualche
indice della presenza delle sostanze nominate nella D. I.1984 in particolare del C. V. M nelle acque di processo dei reparti CV e/o nei reflui convogliati
dagli scarichi S.M.2e S.M15. ed in caso affermativo della concentrazione
rilevata , e riceveva una risposta negativa.
Alla domanda ulteriore,avente per oggetto
quale prova avrebbe dovuto essere data
dal titolare dello scarico per
essere legittimato ad applicare la normativa sugli scarichi anziché quella sui rifiuti, riceveva
la risposta che per escludere che un refluo sia tossico
nocivo occorrerebbe fare una analisi completa dello stesso ,determinando
le diverse sostanze presenti sino a
chiudere l’analisi alla milionesima parte in massa (1mg/kg)
Ciò comporterebbe delle analisi praticamente impossibili che non sono mai state richieste dalla autorità amministrativa
competente al rilascio della autorizzazioni .
Ritiene comunque il Tribunale che, la pretesa
della accusa di ritenere il produttore
onerato dalla prova della presenza delle sostanze di cui alla tabella indicata
in concentrazioni inferiori a quelle
limite , sia errata con riferimento ai principi generali che riguardano l’onere
della prova nel processo penale , in cui il principio della presunzione di
non colpevolezza fino a prova
contraria comporta che la prova deve essere data da colui
che la nega elevando l’accusa
L’onere della
prova spetta pertanto alla accusa in
quanto anche dalla delibera del C. I del 1984. non emergono regole di
significato tanto pregnante da smentire questo principio
In materia e cioè sul tema della definizione
dei campi di intervento delle due fondamentali discipline normative di
protezione ambientale- quella relativa ai rifiuti quella relativa tutela delle acque - le Sezioni Unite hanno
stabilito alcuni fondamentali principi.
A ) Il D.P.R 915/82 regola l’intera materia
dei rifiuti , in essa si inserisce come
cerchio concentrico la normativa relativa
agli scarichi , disciplinati dalla L n 319/76 e per Venezia dalla legge
speciale 962/73
B) Se la
sostanze è solida rileva la disciplina
di smaltimento di cui al D.P.R 915/82
C) Per le
sostanze liquide o a prevalente
contenuto acquoso o convogliabili o convogliate in condotta rileva la L 319/76
D)Il quarto criterio deriva dalla
disposizione del sesto comma dell’art 2 D.P.R n 915 /82 che riserva alla
disciplina degli scarichi nelle acque anche
liquami e fanghi ,ivi compresi quelli derivati da cicli di
lavorazione e da processi di
depurazione
E..)Ulteriore
criterio è definito dalla inclusione
nel D. P. R n 915/82 di liquami e fanghi appartenenti alla classe
tossico –nociva
F)Ultimo
criterio discretivo deriva dal fatto
che il D.P.R. n.915/82 disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento (
conferimento ,raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio etc) dei rifiuti
prodotti da terzi,siano essi solidi liquidi ,fangosi o informa di liquame con esclusione di quelle fasi,concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili)
attinenti allo scarico e riconducibili
alla disciplina stabilita dalla legge n 319/76 o 962/73 con l’unica eccezione
dei fanghi o dei liquami di verificata appartenenza alla classe dei tossico
nocivi che sono regolati dal D. P .R n. 915/82.
Tanto premesso
ritiene il T tribunale di poter escludere la applicazione della normativa di
cui al D.P.R piu volte citato ai reflui di reparti CV per i seguenti motivi:
non si tratta di
sostanze solide rientranti per natura
nella disciplina di cui al D.P.R;
si tratta di
acque di processo ,sostanze liquide
convogliabili e convogliate in condotta ,direttamente immesse nel corpo
ricettore senza alcuna soluzione di continuità, previo trattamento e
abbattimento del carico inquinante; non si tratta di fanghi , che se tossico
nocivi sarebbero disciplinati dal D.P.R 915/82; non si tratta di acque di processo o di rifiuti liquidi
veicolati e/o scaricati in forma non
canalizzata, nel qual caso sarebbe certa la definizione di rifiuto del refluo.
Nel caso in
esame non consta che il collegamento tra fonte di riversamento e corpo
ricettore sia in alcun momento della sequenza interrotto .
Al di la delle
congettura sull’onere della prova si tratta di scarichi che non rientrano
nell’unica eccezione prevista dall’art 2 comma 6 del D.P:R 915/82.
Sollecitata poi alla verifica in fatto della presenza di C. V .M nelle acque di processo dei reparti di C. V in misura
superiore ai limiti fissati dalla
delibera del comitato interministeriale del 1984 , la accusa
non è riuscita nel suo intento .
L’accusa ha poi insistito sul monitoraggio in
continuo del C. V.M. nell’aria ,
presso le vasche di neutralizzazione
delle acque reflue (cd SG31), tale è in estrema sintesi il ragionamento dell’accusa : non è mai stata ricercata
la presenza di C. V M nell’acqua delle
vasche del reparto SG31 ma solo nell’aria sovrastante ,mediante la istallazione
di gascromatografo; se si intende monitorare la presenza del CVM nell’aria non vi è ragione per non monitorare la presenza del CVM anche
nell’acqua se il C VM è presente nell’aria deve essere presente anche
nell’acqua delle vasche.
Ed in tal senso il c. t dell’accusa ha
orientato le sue ricerche nell’illustrare
gli esiti delle quali lo stesso ha
fatto presente che non esiste un parametro di accettabilità nella legge, per
quanto riguarda il CVM , perché i
clorurati sono sussunti sotto una unica voce e che in particolare il CVM in acqua ha una vita effimera
brevissima, di nessuna durata ed è difficile reperirlo per mancanza di tempo.
Deve quindi essere ricercato nella
vasche durante il trattamento prima
delle operazioni di abbattimento del carico inquinante dei reflui e delle
operazioni che permettono al titolare dello scarico di perseguire l’obiettivo
della loro compatibilità con i
parametri tabellari di accettabilità
Applicando una legge termodinamica , legge
di Henry, il c t dell’accusa spiega
come sia possibile determinare la concentrazione media del C .V .M nelle acque di processo , partendo dalla
concentrazione presente nell’aria , in 149 milligrammi /litro, e quella
massima di picco in1328 milligrammi per
litro
Solo in 10
occasioni nell’arco di un decennio –dal 1984 al 1994- si rileva il
superamento del limite di 500
milligrammi /litro ( la CL di cui alle tabelle allegate alla delibera del C. I
di cui si è detto)
In tesi di accusa quindi questi 10 superi
basterebbero conferire all’acqua delle vasche di neutralizzazione e cosi
all’intero flusso dello scarico S.M15 e SM2 il carattere di rifiuto tossico
nocivo
Ne consegue che l’intero flusso del SM15
dovrebbe rientrare nella eccezione prevista dal comma 6 art 2 D.P.R 915/82
Non ritiene
invece il Tribunale che il superamento dei limiti di concentrazione in solo 10 casi giustifichi le conseguenze
che ne ha tratto l’accusa
Comunque la stima del C.T risulta errata in
eccesso in quanto, secondo una corretta applicazione della legge di
Henry – segue una dettagliata esposizione delle ragioni per cui ilo calcolo effettuato dal
consulente dell’accusa non sarebbe corretto bensì affetto da errori esiziali - la concentrazione del C. V. M in acqua risulta ,a parità di concentrazione nell’aria, 40.000 volte
inferiore rispetto a quella che risulta
in base alla relazione erroneamente utilizzata nella consulenza
tecnica della accusa .
Comunque, rileva il consulente .tecnico della difesa ,che, anche accettando
l’erronea concentrazione calcolata dal consulente tecnico della
accusa, mai si arriverebbe a
concentrazioni di C .V M tali da
superare la concentrazione limite di 500 mg/kg fissata dal DCI 27-7-1984 in
quanto il valore calcolato dall’accusa è circa 20 volte inferiore alla C .L
A questo punto il consulente tecnico dell’accusa introduce un fattore
correttivo, giudicato dalla controparte del tutto arbitrario , e che comunque, quand’anche lo si volesse
applicare, non comporterebbe il
superamento di limiti di concentrazione massima stabiliti dal DCI dell’84in
materia di rifiuti: si otterrebbe
infatti circa 0,03 mg/kg contro i 500 mg/kg della CL
Le valutazioni del consulente Cocheo non
sono pertanto attendibili
Il consulente
delle difesa ha invece verificato che
nel periodo dal 1990 al 1994 risultano:
102 casi di
presenza di C. V.M. nell’aria sovrastante le vasche in1360 giorni
una durata
totale di 338 ore di presenza di C. V .M nell’aria su un periodo di 32640 or pari quindi all’1 % del tempo
La presenza del
CVM nelle vasche risulta comunque essere fatto del tutto eccezionale e ciò
invero trova una ragionevole spiegazione oltre che nelle esame delle
tabelle fatta dal consulente .tecnico . della difesa anche in altre circostanze
In particolare
risulta che non vi era alcun collegamento permanente tra la fognatura dei
reparti di produzione CVM/PVC e le
vasche di neutralizzazione
Ed invero i dati
analitici confermano la assenza di CVM nell’ acqua delle vasche , e dimostrano la inutilità di un controllo di
questo parametro nelle acque di scarico ,considerata la bassa solubilità del
CVM ed infatti le vigenti normative non
pongono limiti di concentrazione in acqua perché la concreta assenza del CVM in
acqua e intrinsecamente assicurata
dalle sue proprietà fisiche , in particolare dalla sua bassissima solubilità.
Conclusivamente risulta che normalmente il
CVM nelle acque di processo , provenienti degli impianti di produzione del CVM, era assente ,quando era presente lo era in una
percentuale ampiamente al di sotto delle C L ,di cui alla delibera
attuativa della disciplina normativa
dei rifiuti
Circa la ragione della presenza del
gascromatografo in prossimità delle vasche va invece rilevato come esso
servisse alla misurazione di altri gas oltre il CVM.
Nelle vasche di neutralizzazione infatti
doveva essere abbattuto il carico inquinante dei reflui e ciò avveniva
mediante degli agitatori che favorivano
la evaporazione dei gas non solubili ,
come il CVM ; rilevava a questo punto evidenziare
che le vasche sono chiuse e munite di
una cappa di aspirazione che porta ad
un camino di altezza di 46 metri che è
stato autorizzato e della cui funzione
legata anche alla possibile
presenza del CVM è stato dato atto
Il consulente . tecnico della difesa ha anche evidenziato come le
correnti del reparto CV 24 andassero all’impianto biologico solo dopo lo
strippaggio , mentre le correnti dei reparti CV22 e CV 23 recapitavano nelle
vasche solo e solo in occasione di eventi eccezionali ,che portavano a
straordinari superamenti di livelli o disfunzioni altrettanto rare.
Comunque la tesi di accusa risulta essere
irrilevante ,posto che l’assenza certa ed
incontroversa tra le parti del CVM. nel biota nei sedimenti e/o nelle
acque del corpo ricettore- laguna – rende irrilevante l’ipotesi della presenza di CVM negli scarichi idrici a monte
Oggetto della
imputazione non è infatti ,né lo potrebbe essere, perché a contatto con l’acqua
evapora immediatamente , la presenza
o meno del CV M nell’acqua della laguna.
Le tesi di
accusa sulla supposta e in dimostrata presenza del cloruro di vinile nei reflui
di provenienza dagli impianti CV, presenza che comporterebbe la necessità di un
loro trattamento secondo la normativa relativa ai rifiuti,anziché secondo la
normativa relativa agli scarichi delle
acque, oltre che essere infondata e priva di rilevanza, atteso che nessun
evento di danno risulta essere
correlato nella ipotesi accusatoria a tale presunta violazione , perchè in nessun modo viene sostenuto che
l’inquinamento della laguna possa essere ricondotto al CVM. sversato
Conclusivamente
la tesi accusatoria è infondata ed irrilevante.
4.11 Il caso
particolare della contaminazione del sedimento del canale Lusore –Brentelle, antico corpo recettore
degli scarichi nelle acque di provenienza
dal Petrolchimico e delle sue
immediate adiacenza
I rilievi fatti con
riferimento alla ipotesi accusatoria, secondo cui gli imputati sarebbero responsabili dell’inquinamento causato da
altri per omessa bonifica dei luoghi contaminati vale, sia per le discariche
come per il catabolismo delle acque e dei sedimenti del corpo ricettore e si ribadisce che la scelta di un modello unitario di qualificazione della
fattispecie concorsuale richiede comunque
che tra la condotta del concorrente e l’evento sussista un nesso di
condizionamento , mentre non si può rispondere di disastro innominato colposo
per il solo fatto di essere consapevoli dell’inquinamento pregresso .
Il ricorso alla schema concorsuale –113 c.p-.
non esime dalla accertamento del nesso causale , mentre l’accusa ,rifiutando
questa impostazione, e rimanendo ancorata allo schema della cooperazione per
omesso disinquinamento della contaminazione preesistente , rifiuta
qualsiasi indagine diretta ad accertare
il riferimento ad una base –line della
contaminazione, a partire dalla quale
ricostruire e valutare l’apporto dei singoli imputati
E fonda la prova del disastro esclusivamente
sul gradiente di concentrazione tra il
sedimento dei canali dell’area industriale
e delle aree non interessate ad impatto ambientale nonché
sulla in verificata tipicità
della impronta di congenere delle diossine
, come indice della loro derivazione dalla filiera del cloro e
perciò dal Petrolchimico
Esclude dalla ricerca l’andamento della
contaminazione nel tempo, le conseguenze del catabolismo industriale nel tempo,
la datazione in ogni caso della contaminazione
e ciò anche con riferimento a
quei siti ,come il Canale Lusore –Brentelle
e le sue immediate adiacenze che risultano essere stati sicuramente inquinati dal catabolismo
del Petrolchimico
Si imponeva invece la necessità di accertare
se ci fosse stato un aggravamento della contaminazione preesistente per effetto delle condotta degli imputati,
essendo certamente la contaminazione
preesistente ai tempi storici
interessati dalla imputazione .
La nozione di
causa penalmente rilevante ,intesa come condizione necessaria in un contesto complesso ,comporta che ,se
un evento si produce solo quando un determinato insieme di condizioni si verifica, rimane poi privo di
significato accertare se uno dei fattori causali appartenenti a quel complesso
,sia prossimo o remoto rispetto al verificarsi dell’evento
L’apporto
causale ben potrebbe configurarsi anche solo come aggravamento di un evento
dannoso già prodottosi.
L’apporto
causale di ogni singolo imputato comunque ,entro la cornice concorsuale di
riferimento, e fermo restando il
principio di equivalenza delle condizioni, deve essere sempre provato
Nelle precedenti
pagine della motivazione sono state indicate le ragioni per cui non può
addebitarsi al Petrolchimico la
matrice della contaminazione della prima zona industriale
Sono state anche
esposte le ragioni per cui non sia facile
stabilire in che limiti il catabolismo del Petrolchimico . possa avere
causato l’inquinamento del sedimento dei canali della seconda zona industriale
, considerato l’apporto dei
preesistenti scarichi nelle acque e
gli apporti recati da altre matrici di contaminazione : imbonimento dell’area
della seconda zona industriale con
enormi masse di rifiuti provenienti dalla
prima zona industriale , erosione
delle sponde dell’antico sito di discarica
dell’isola Tresse
Rimane comunque
indiscusso che dal Petrolchimico siano
derivati nel tempo apporti significativi in termini di evento di danno
ambientale
Certo il catabolismo del Petrolchimico ha
avuto un apporto significativo in termini di contaminazione delle sue immediate
adiacenze , perché è incontroverso che
il sedimento del canale Lusore – Bretelle – corpo ricettore degli scarichi del
vecchio Petrolchimico, dall’atto della sua fondazione fino a tutto il ciclo di
ristrutturazione della prima meta degli anni 70, sia stato gravemente
compromesso dal catabolismo di quegli impianti
Si tratta però
di tempi storici, che trascendono
quelli dell’imputazione
L’inquinamento
del canale Lusore –Brentelle , è certamente riconducibile al catabolismo del Petrolchimico.dagli anni
della sua fondazione fino alla ristrutturazione risalente alla prima metà degli
anni 70.
Dal catabolismo delle acque in epoca più
recente deve invece escludersi che sia
potuto derivare alcun apporto,in termini di aumento dello stato di inquinamento preesistente , in quanto ,quando le
allegazioni della accusa hanno consentito di operare verifiche è venuto in
rilievo il contrario
Nel canale Lusore –Brentelle anche
attualmente recapita l’SM2 ,scarico che risulta essere di sicura
ininfluenza in termini di impatto ambientale ,attestandosi il suo scarico inquinante su
valori di gran lunga inferiori ai limiti del consentito ex lege o in base alle prescrizioni
accessorie al titolo autorizzativo pertinente ( sporadici accertati superamenti
puntuali devono ritenersi irrilevanti in termini di impatto ambientale).
Dalla ricostruzione del consulente tecnico
dell’accusa relativa gli apporti ritenuti influenti , in relazione al
verificarsi della situazione ,risulta oltre alla conferma del fatto che nel
canale Lusore Brentelle scaricavano
senza alcun trattamento le acque di
processo del vecchio petrolchimico
quali erano degli impianti del
vecchio petrolchimico che sono andati scaricando nel canale Lusore
– Brentelle: gli impianti cloro-soda avviati nel 1951 fermati nel 1972,che
utilizzavano catodi di mercurio e anodi di grafite- ( con conseguente inquinamento da mercurio e da PCDD/F)
gli impianti di produzione del C. V .M . a partire dall’acetilene e cioè il CV1 chiuso intorno al 1970
gli impianti di produzione CV 10 chiusi nel
1981 –che utilizzavano un catalizzatore
a base di cloruro di mercurio, altri impianti attivi fino alla
realizzazione dell’impianto chimico -fisico – biologico SG.31- avvenuta nel
1978- ad esempio l’impianto di produzione di acetilene da metano (ACI) con
conseguente sversamento nel canale di
acque con presenza di inquinanti ,tra
cui IPA, altri impianti fonti di
inquinamento da PCDD/F,che scaricavano nel canale fino alla avviamento
dell’impianto di strippaggio dei clorurati, il
CS 30, e cioè fino al 1980.
Viene
a questo punto ricordato dal
Collegio che solo a cominciare dal 1-3- 1980 diventano operativi i parametri di accettabilità degli scarichi,
essendo stata la normativa –legislazione speciale per la salvaguardia di
Venezia - prorogata fino a quella
data e che gli scarichi di provenienza
del P erano da quella data muniti di impianti di trattamento operativi
Gli
interventi per il miglioramento delle
condizioni ambientali e di sicurezza di
Porto Marghera furono effettuati dopo
il 72 tra il 73 ed il 75 e sono documentati
da commesse di lavoro e da verbali di collaudo.
In particolare ,dalla testimonianza Mason, risulta che la vasca
baricentrica pertinente all’impianto di
trattamento biologico delle acque reflue fu realizzata nel 1976- e non come
sostenuto dall’accusa a meta degli anni 80.
Dal 73 all’80 si realizza l’adeguamento di
Montedison alla costruzione degli impianti di depurazione richiesti dalla legge di Venezia.
Quanto ai
risultati ottenuti mediante l’impianto
di trattamento biologico in un periodo antecedente l’entrata in vigore delle tabelle del d. p .r 962/73 , non
risulta,nè l’accusa lo prova che se
ne potessero ottenere di migliori
Con atto
2-5-1983 il Magistrato alle Acque attesta che le acque di scarico provenienti dal gruppo Montedison risultano
essere a norma delle prescrizioni del D.P.R n 962/73
Sostiene l’accusa che il depuratore biologico
poteva gia essere fatto negli anni cinquanta
Consta che Montedison .verificò la tecnologia
esistente in Italia e che non trovando
impianti biologici industriali per
grosse dimensioni e si rivolse
all’estero ,in Germania
Nella motivazione delle sentenza segue a
questo punto un elenco dettagliato degli interventi eseguiti, commessa per
commessa, con indicazione per ciascuno della data di realizzazione o di
collaudo o di messa in esercizio
Il
caso particolare della gestione del catabolismo del mercurio
È certamente presente tale tipo di
inquinamento nel canale Lusore
–Brentelle, non c’è però, come per gli altri
inquinanti, informazione adeguata sull’andamento delle contaminazione nel
tempo.
Risulta invece che la Montedison realizzava tra il 1973 ed il 1981 in adempimento
agli obblighi della legge speciale l’impianto di demercurizzazione entrato in
esercizio nell’anno 1976 e collaudato nel 1982. La contestazione riguarda la
scelta della Montedison . di realizzare negli anni dal 1971 in poi un impianto
di cloro soda a celle di mercurio
Consta pero che all’epoca dei fatti le solo
tipologie di celle applicate industrialmente nella produzione del cloro e della
soda erano a diaframma e a catodo di mercurio , mentre impianti con celle a membrana- meno inquinanti non erano ancora stati realizzati ed erano invece
a livello progettuale , fino al 1978 in corso di perfezionamento ,
mentre nel 1981 ci sono impianti
sperimentali.
Risulta conclusivamente provato che la nuova
tecnologia delle celle a membrana si dovette perfezionare nel corso dei primi
anni ottanta .
Negli Usa il
primo impianto per la produzione del cloro con celle a membrana è del 1983.
Gli impianti di
cui si controverte entrarono in funzione nel 1971.
Anche negli anni
80 la maggior parte degli impianti utilizzava celle a mercurio o diaframma a
base di amianto.
La realizzazione dell’impianto di demercurizzazione ha consentito di ridurre le immissione di
mercurio in laguna ad un microgrammo litro 0,001mg/l nei limiti
della legge speciale.
La data di costruzione dell’impianto predetto
collaudato solo nell’82 , risulta con certezza essere quella di molto
antecedente,e cioè del 1974, e la sua entrata in funzione risale al 1976
Ne consegue la infondatezza di tutti i relativi addebiti di colpa pertinenti all’uso del mercurio e
alla realizzazione tardiva dell’impianto.
Rileva il collegio come non venga individuata
dall’accusa ,quando vengono sollevate critiche alla condotta di gestione del
catabolismo nella acque ,la norma agendi che
sarebbe stata violata .
Quando gli addebiti di colpa si specificano
prendendo forma in proposizioni
verificabili viene in considerazione la loro infondatezza.
Il generico riferimento alla migliore
tecnologia possibile da parte
dell’accusa , non specifica mai che cosa concretamente gli imputati avrebbero
dovuto fare , nelle condizioni rilevanti all’epoca di assunzione del potere di
gestione da parte loro, per prevenire
il supposto evento di danno e quando l’addebito si specifica risulta infondato.
Dirimente al di
al della chiara infondatezza degli addebiti è comunque la inverificabilità di
una relazione tra la condotta degli imputati ed un eventuale aggravamento dello
stato di contaminazione preesistente
alla loro entrata in scena.
Va ancora rilevato come secondo la tesi della
accusa il disastro innominato che
presuppone un pericolo per la incolumità pubblica deriverebbe dall’inquinamento del biota in quanto l’inquinamento
dei sedimenti dei canali non sarebbe pericoloso se non lo fossero gli asseriti
effetti –in termini di avvelenamento e adulterazione dell’ittiofauna su di essi
vivente.
Ed accertata la infondatezza delle accuse di
avvelenamento e adulterazione di acque
e sostanze destinate alla alimentazione
viene di conseguenza esclusa anche la fondatezza della imputazione di
disastro , che si caratterizza come matrice degli insussistenti pericoli alimentari
La prova negativa della pericolosità della
ittiofauna e cioè della fonte immediata del supposto pericolo per la salute
pubblica ,costituisce prova che nessun pericolo per la incolumità pubblica può
essere ricollegato alle cause
mediate ( stato dei sedimenti e della acque) .
II parte -appello del P.M.
Capitolo 3.8
Critica alla selezione dei dati di fatto da parte del
Tribunale
( Capitoli n 3 e 4 della sentenza )
Le consulenze tecniche del P.M.
L’accertamento del laboratorio M. P. U. di Berlino
3.8.1 Rapporto tra la prima e la seconda zona industriale
La tesi difensiva fatta propria dal Tribunale
secondo cui l’inquinamento dei canali industriali sarebbe la conseguenza dell’utilizzo dei rifiuti provenenti dalla prima zona industriale per
l’imbonimento della seconda zona ,in
cui vennero poi realizzati gli impianti del PETROLCHIMICO,risulta fondata sulla
diversità delle impronte della diossina
cosiddette “vecchie”( relative
alla prima zona industriale , con OCDF in quantità maggiore dei OCDD , ma con percentuali rispettive di
50 /60 % per OCDF e 10-20% per OCDD ) rispetto a quelle “recenti” del Petrolchimico ( prevalenza
assoluta di OCDF = 80-90%).
Si è contestata
in aula da parte della accusa la
ricostruzione cronologica delle carote , rilevando che entrambe le impronte
venivano prodotte nei diversi impianti
relativi al ciclo del cloro ,e
rilevando altresì che anche i rifiuti,
prodotti nella seconda zona industriale, sono rimasti in questa zona
sotto forma di discarica, circostanza questa che dimostrava la inconsistenza
della tesi difensiva , basata sulla analisi dei campioni ( da E1 a E6)
,raccolti ai bordi della seconda zona
industriale, che avrebbero dimostrato trattarsi di fanghi rossi vecchi
inquinati da diossina , mentre invece si trattava di campioni misti e molto spesso di rifiuti
anche della seconda zona industriale
L’accusa evidenzia anche che gli stessi
rifiuti erano stati spostati, dalla seconda alla prima zona, quando erano stati
scavati i canali Brentelle , Industriale nord e Industriale ovest con
camion ,dato che solo una parte poteva
essere bruciata nel termocombustore, e che
inoltre i rifiuti erano stati continuamente rimaneggiati dalle maree.
A supporto dell’’accusa
vi sono i seguenti documenti:
1)mappe che
dimostrano come negli anni 40 e 50 gran parte della seconda zona industriale
fosse stata gia bonificata con ampi spazi agricoli
2) foto di
discariche all’interno della seconda zona industriale formatasi prima del 1970
fino alla fine degli anni 80
3) dragaggio del
canale Brentella e del canale industriale nord
attorno al 1960 ciò che comporta la deposizione dei fanghi inquinati in
un periodo successivo
4) le barene
campionate a S Erasmo e a Fusina hanno
la concentrazione massima della asserita impronta della prima zona industriale
in strati, che la stessa difesa dice corrispondere agli anni 60-80 e questo
vuol dire che erano emissioni della seconda zona industriale, che possono essere arrivate là solo
attraverso l’atmosfera; non è infatti possibile che rifiuti solidi come quelli
che sarebbero stati prodotti con quella impronta prima del 1940,si siano potuti
ridistribuire sulle barene a quella distanze.
5) anche
attualmente il ciclo di lavorazione DCE – PVC - CVM produce non uno solo ma almeno due se non più,diversi tipi di impronta
e ciò a confutazione della teoria delle due impronte diverse, prodotte
in tempi diversi come emerge dalle seguenti risultanze :
esiste un data base di analisi interne di acqua ,camini e fanghi con impronte diverse
tra loro ,tra cui quella cosiddetta vecchia ; la bibliografia di Carroll presenta entrambe le impronte da dati di
produzione del CVM/CDE; i dati delle esposizioni atmosferiche ,che hanno
entrambe le impronte in campioni raccolti in tempi recenti ,in particolare nella stazione di Dogaletto a 4 km SW del Petrolchimico ; sia i suoli che le barene hanno tutti e due
i tipi di impronta ;
3.8.2 peci clorurate
(prodotte dai vari impianti ) fanghi rossi e pirite -supposte fonti della contaminazione da
diossine
Il collegio
sposa la tesi secondo cui dal 1972 le peci clorurate furono tutte inviate a
trattamento nell’impianto CS 28 ed invece il CS 28 bruciava solo peci liquide e peraltro era insufficiente .
Le peci solide
hanno invece continuato ad essere smaltite fuori dello stabilimento nelle tuttora esistenti discariche Dogaletto
,Moranzani e Macchinon
Il documento del magistrato alle acque
conferma la possibilità di scarico con camion e bettoline delle peci clorurate,
nonché la possibilità che –riscaldate- le peci
perdano i clorurati e quindi sia possibile trovare diossine senza i
clorurati.
Le difese degli imputati sostengono invece
che contenevano diossine anche le produzioni della prima zona industriale quali: quelle del magnesio ,della
decuprazione di ceneri di pirite e dei fanghi rossi.
Ma la affermazione si basa su dati
contraddittori :alcuni dei campioni sono stati raccolti dai consulenti tecnici
della difesa dove gia nel 1944
esistevano campi coltivati;la correlazione diossina /AS (ceneri di pirite) e
diossina /AI (fanghi rossi)viene smentita dai dati e dalle osservazioni che
seguono; l’ Haglund, richiamato a sostegno dai consulenti tecnici degli
imputati ,non produce invece diossina
3.8.3 superamento dei livelli C e compromissione
ambientale della laguna
Dal documento
Mav -Aut- Portuale (1999) risulta che complessivamente il 35% dei campioni è
superiore al livello C e il 43% si situa tra il livello B e il livello C.
Per le diossine ,da tale documento risulta
che oltre il 65% dei campioni è eguale o superiore al limite C.
Il confronto dei
valori con linee guida internazionali
dimostra la possibilità di effetti avversi su organismi marini
3.8.4
Dati e audizioni del dr VIGHI CT ENICHEM
La critica
principale riguarda il fatto che il consulente
delle difesa non spiega come ha
eseguito la PCA(analisi componenti principali)
e seleziona dei dati ,senza spiegare i criteri di selezione , e seleziona anche figure , facendone veder
alcune e non altre che dimostrerebbero il contrario
Passando ad una analisi piu specifica osserva
il P.M, con riferimento a quanto indicato nella sentenza a pagina 516 e 517 -
dove si dice che i canali Industriale
sud e canale Malamocco Marghera sono stati scavati nella massa di materiali
di riporto e cioè dei rifiuti provenienti dalla prima zona- che dalle foto aeree si vede che in tuta la parte Ovest di quella che sarà la
seconda zona industriale c’erano gia
nel 1944 campi coltivati e che anche la parte sud era gia colmata , quindi
nessuna di queste aree poteva
essere colmata con rifiuti
industriali, nè vi poteva essere scavato il Canale
industriale Sud ,che è invece stato per la maggior parte scavato in terreno gi
agricolo.
Le uniche zone
di conseguenza che possono essere state bonificate anche con rifiuti
industriali della prima zona sono quelle
ancora arenicole nel 1955 e cioè
la parte più orientale dell’area attualmente
compresa tra il Canale
industriale ovest e il Canale Industriale Sud.
Con riferimento a quanto indicato o a pagina
556 dove si sostiene che le pratiche di smaltimento dei rifiuti sono state
poste in essere nel rispetto della normativa vigente D.P.R. 915/1982 ed a
quanto indicato a pagina 547, dove si
sostiene che l’accusa non ha considerato l’apporto inquinante dei rifiuti della
prima zona industriale usati per l’imbonimento della seconda zona , ribadisce
il P.M che ,a parte ogni riserva circa la pretesa assenza di normative in materia di gestione dei rifiuti prima del
1982 , come risulta dalla cartografia,
gia nel 1944 buona parte di quella che diventerà poi la seconda zona
industriale era coltivata , e
questo vuol dire che quelle aree non sono state bonificate con i rifiuti
della prima zona industriale essendo
state bonificate molti anni prima .
Sono quindi i residui della seconda zona
industriale ad avere formato le discariche
dentro alla stessa e sono i
residui della seconda zona industriale ,che sono stati campionati nelle varie
consulenza tecniche del PM
Ne consegue il rovesciamento di tutte le
conseguenze ambientali e della cronologia dell’inquinamento della laguna.
Con riferimento
a quanto indicato a pagina 581 e 594 – laddove si critica la scelta da parte
del consulente tecnico della difesa di S Erasmo come luogo di confronto - si
ritiene invece che sia corretta la
scelta del consulente del PM. di
utilizzare S Erasmo ,come luogo di confronto, trattandosi di un punto non privo di
antropizzazione, bensì di luogo con
impatto antropico continuo ma a bassissimo impatto industriale .
Ne consegue che tutti i confronti fatti tra sedimento e pescato della zona
industriale con S.Erasmo sono corretti.
Con riferimento a quanto indicato a
pagina 602 –laddove si addebita alla accusa di non avere fatto alcuna indagine
per verificare i tempi a cui far
risalire l’inquinamento per accertarne eventuale peggioramenti nei periodi di gestione degli imputati – si
rileva come al contrario sia sempre l’accusa, che cerca di ristabilire
una cronologia reale ,contestando ad esempio al consulente della difesa proprio
il fatto che nella carota C11, unica carota per cui esisterebbe una buona
cronologia, gli ultimi tre campioni (quelli
piu vicini alla superficie ,corrispondenti all’incirca al periodo 1995-1998) mostrano un aumento di OCDF
caratterizzati dalla impronta che anche
la difesa ascrive alle produzioni di
CVM.
Circostanza
questa che dimostra in modo inequivoco l’aggravamento dello stato di
contaminazione preesistente .
Con riferimento
a quanto indicato a pagina 607 e 608-
laddove si commentano i dati della relazione del dott. Raccanelli rileva l’accusa come si tralasci volutamente da parte dei consulenti della difesa la PCA( analisi statistica delle componenti
principali) e ci si limiti a commentare
il confronto dei profili tramite gli istogrammi .
Dopo avere fatto
il confronto visivo il consulente
dell’accusa invece presenta e una analisi statistica delle componenti principali - detta PCA-
relative ai sedimenti superficiali dei canali industriali, lagunari della
città di Venezia , dei fanghi, dei
pozzetti Enichem , degli scarichi dei
depuratori civili.
La PCA viene presentata con i dati acquisiti
dal 92 al 99 e viene evidenziato che i primi 3 fattori spiegano il 76% della
variabilità , e dimostrano che i
campioni dei canali industriali,dei pozzetti e di letteratura relativi alla
produzione del cloro sono accomunati dalla medesima impronta .
Al contrario i campioni dei sedimenti dei
canali di Venezia , della laguna distanti dalla zona industriale sono differenziati
e vicini alla impronta degli scarichi civili
Anche con i dati
forniti dalla difesa i primi 3 fattori spiegano il 77% della variabilità
Anche in questo caso risulta evidente
l’impronta del cloro che accomuna i dati dei pozzetti Enichem e dei sedimenti
lagunari nelle vicinanze del PETROLCHIMICO, mentre gli altri campioni di
sedimenti lontani dalla zona industriale sono differenziati e vicini alla
impronta degli scarichi civili
In conclusione l’analisi statistica dimostra
la correlazione tra l’impronta reale
esistente all’interno del
Petrolchimico e le impronte rilevate
nei canali industriali attorno al Petrolchimico e nei sedimenti superficiali lagunari nelle vicinanze dello
stesso
L’impronta è reale ed è dovuta alle diverse produzioni del ciclo del cloro
Con riferimento a quando indicato a pag.609
–laddove si attribuisce alla accusa di avere affermato che la matrice della
contaminazione di tutta l’area industriale deve essere individuata nel
catabolismo del Petrolchimico – si osserva
come l’accusa non ha mai sostenuto una
tale tesi.
L’accusa non
sostiene che la matrice delle contaminazione sia solo il catabolismo del
petrolchimico, ma che la fonte prevalente della contaminazione, per quanto
riguarda le diossine, è sicuramente il Petrolchimico e in particolare gli
impianti contestati nei capi di accusa con rifiuti (gas aria acqua) che sono
caratterizzati da impronte molto simili ,anche se non del tutto eguali con il
passare del tempo.
Queste impronte definite impronte del cloro presentano
evidentissime differenze rispetto alle impronte di altra origine (depuratori ,deieizioni umane eccettera ) e
per questo, quelle rilevate a seguito di analisi chimiche effettuate dai consulenti si fanno risalire alla lavorazione del cloro.
Segue quindi
nell’atto d’appello la riproduzione grafica delle tabelle relative alle analisi
delle componenti principali (pagine 1301 e 1302).
Con riferimento
a quanto indicato a-pagina 625- laddove si ritiene che i prelievi effettuati
nei pozzetti dal consulente della accusa non siano rappresentativi, non essendo
transitate nei pozzetti acque reflue di processo diverse da quelle di
lavaggio, anche quando gli impianti erano in funzione, si osserva come il
tribunale, condivida una tesi difensiva, che non può essere vera ,
perchè , se cosi fosse, non si giustificherebbe la alta concentrazione di
PCDD/F trovata nei fanghi depositati all’interno dei pozzetti.
Evidentemente nelle acque fognarie e non solo
nel canale Lusore Brentelle scaricavano direttamente le acque di processo,
senza trattamento, attraverso i vari scarichi
a cui erano collegate.
Con riferimento a quanto indicato a pagina-
629 - laddove si sostiene che le impronte di diossine rilevate nei pozzetti non avrebbero una caratteristica loro propria ,essendo
costituite da mescolanze eterogenee -si osserva come è la stessa accusa a sostenere
la parziale diversità delle
impronte, dovute alle diverse
produzioni di clorurati e ai diversi cicli utilizzati pur nella costanza del rapporto tra PCDD/F.
Sbaglia la difesa anche quando sostiene la
diversità delle impronte della prima zona industriale rispetto a quella della
seconda zona , mentre invece la eterogeneità
dipende dall’insieme di diverse produzioni ,che hanno portato alla
formazione della impronta che si rileva nei canali industriali attorno al
petrolchimico e nei sedimenti lagunari
limitrofi.
Mediando le impronte dei fanghi dei pozzetti
prelevati da Arpav(PP) Enichem( PE) Chelab(PC)
si ottiene l’impronta che è perfettamente sovrapponibile a quella dei fanghi rossi .
Con riferimento a quando indicato a
pag-631- laddove si sostiene che i
composti organo alogenati che si trovano
nel canale Lusore –Brentelle sono stati trovati in tutti i pozzetti
esaminati , mentre diversamente nel
Canale Bretella (prima zona industriale)
non risulta che tali sostanze
siano state rilevate in quantità
significative . risulta utile, con riferimento
a questi rilievi, piu di ogni altro commento, seguire la descrizione del
processo relativo alle peci.
Tra il materiale
agli atti raccolto dal Consorzio Venezia Nuova, relativamente alle produzioni di solidi e semisolidi , la
scheda n 40( pagina 95 del documento)
riporta dati relativi al reparti
di produzione del dicloroetano ( impianto DL2 )
In particolare risulta che le peci venivano
stoccate in serbatoi Kettle e
trasferite in fusti e quindi al forno speciale
o che altrimenti solidificavano nei fusti .
Ed è proprio a
causa del riscaldamento nei Kettle che
i composti clorurati volatili –(cioè con temperatura di ebollizione
relativamente bassa) sono evaporati
dalle peci e si sono dispersi nella atmosfera.
Ed è questa la
ragione per cui nel canale Brentella si trovano solo le diossine e non gli altri composti clorurati.
I livelli di
concentrazione delle diossine nel
canale Brentella corrispondono a
quelli attualmente giacenti all’interno
dei serbatoi del Petrolchimico ,
trattasi di quei materiali che oggi vengono inceneriti nei forni e che ,nel
passato, sono stati disseminati in laguna compreso il canale Bretella
caratterizzando con tale impronta della diossina i sedimenti dell’area
industriale.
Con riferimento al grafico riportato a pagina
638 della sentenza ed alla motivazione
relativa ai criteri seguiti dalla
difesa sul punto ,osserva il P .M come non sia possibile controllare la
elaborazione del dr Vighi , perché non è spiegato quali siano in congeneri
utilizzati, né il perché della esclusione di alcuni campioni e come in ogni
caso la spiegazione fornita non sia adeguata potendosi utilizzare anche i
campioni esclusi.
Nella
sentenza si afferma ancora
a pagina 639-640 che i campioni raccolti nei canali della prima zona industriale sono diversi da quelli
raccolti nella seconda zona , ma su tale circostanza l’accusa non ha alcuna obiezione da fare perché la circostanza è evidente, si
contesta però che tale differenza
voglia significare diversa origine temporale e industriale della
diossina .
Con una figura
riportata a pagina 640 della sentenza e
a pagina 1310 dell’atto d’appello il dr Vighi mette in evidenza le differenze
,interpretando però i dati inspiegabilmente , secondo un piano obliquo, e non secondo, come si dovrebbe fare, quello
degli assi della ascisse e delle ordinate
Il P M riporta
quindi nella pagina successiva una figura appartenente all’elaborato dello
stesso consulente, ma che il medesimo non ha mostrato ,perché altrimenti
diverse ed in senso contrario avrebbero
dovuto essere le sue conclusioni .
Da questa figura risulta che lungo l’asse 1 tutti i 17 congeneri sono
dalla stessa parte a destra con la conseguenza che questo asse non può
discriminare alcunché.
L’asse 2 della stessa figura ha OCDD e OCDF
in alto e TCDD in basso, ciò che
ha il significato di dividere i
campioni ricchi di octadiossine ed
octafurani da quelli ricchi di TCDD
L’asse 2 spiega
pero solo il 6% della variabilità.
Vengono quindi presentati di seguito due
esempi alternativi alla figura riportata a pagina 640 della sentenza ma corretti
sul, piano della utilizzazione delle PCA, che dimostrano come il tribunale
abbia accolto acriticamente le tesi della difesa seguendo la selezione fatta
dai CCTT degli imputati.
Nelle figure A e B riportate a pagina 1314 della sentenza si evidenzierebbe ,nella figura A che nell’asse 1 non ci sono
elementi discriminanti , perché sono tutti sulla destra e lontani dalla asse ,
l’unico significativo e l’ H e CDF , ma anche qui nell’area rossa ,assieme ai campioni provenienti dal canale Lusore Bretelle(rossi)
ce ne sono parecchi altri che
provengono dal canale Brentella e dal canale industriale nord (blu e verdi);
nella figura B avviene lo stesso, in quanto
se è vero che nell’asse verticale i
campioni che hanno più OCDD e OCDF provengono dal canale Lusore Brentelle
, ce ne sono però anche parecchi del canale
Brentella e del canale industriale nord .
Con
riferimento a quanto sostenuto a pagina 641-642 della sentenza laddove
si da atto della ipotesi accusatoria
,secondo cui la modifica della impronte potrebbe dipendere dalle diversità introdotte nel ciclo delle produzioni
succedutesi negli anni, e del fatto che
si tratta però di una ipotesi non dimostrata , si osserva come invece la prova della tesi accusatoria ci sia e
provenga
dalla stessa
azienda , in particolare dai certificati analitici di provenienza Enichem relativi ad emissioni varie del
Petrolchimico.
I
grafici riportati a pagina 1316
dimostrano che sono possibili
impronte parzialmente diverse tra loro
a seconda del ciclo di produzione e che
tutti i tipi di scarico possono avere sia prevalenza assoluta di furani che prevalenza relativa e diversa di furani
si diossine .
Con riferimento a quando indicato a pagina
656 della sentenza, laddove si sostiene che è acquisizione certa l’utilizzo per
l’imbonimento della seconda zona in
via quasi esclusiva di rifiuti di provenienza della prima zona industriale
ed a quanto indicato a pagina 658 laddove si sostiene che, nello zoccolo di questa massa di
rifiuti ,sono stati scavati interamente i canali industriale sud industriale
ovest, Malamocco Marghera osserva il PM come anche tale circostanza non
risulti vera, perché dalle carte si
rileva che buona parte dei terreni su
cui è stata realizzata la seconda zona erano terreni agricoli .
Con riferimento a quanto indicato a pagina
657 delle sentenza laddove , si
evidenzia come vi siano immani quantità di rifiuti dalla caratteristiche
colorazione rossa , i cd. fanghi
rossi di derivazione da processi di decuprazione delle ceneri di
pirite e da processi di lavorazione della bauxite assumendo cosi che i fanghi rossi sarebbero possibili inquinanti
di diossine , osserva l’accusa che si tratta di affermazione non dimostrata.
Si sostiene poi che tutti i fanghi rossi
provengano dalla prima zona industriale mentre anche nel Petrolchimico funziona
un impianto di produzione dei acido solforico che veniva alimentato a pirite
Risulta che le
ceneri siano state usate per imbonire qualsiasi depressione e poi sono state
accumulate fuori dello stabilimento.
Con riferimento
a quanto dichiarato a pagina 659- laddove si sostiene che la contaminazione
elevata del canale Brentella e del
canale Industriale Nord costituiscono traccia indelebile del catabolismo della prima zona industriale
e non del catabolismo del petrolchimico
rileva l’accusa come invece ,da
documenti prodotti in giudizio- atti del genio civile- risulti che i suddetti
canali sono stati dragati negli anni 60 e quindi i sedimenti contaminati si
sono depositati dopo tale data.
Quanto alla
presenza dell’alluminio e dell’arsenico in elevate concentrazioni ,ciò che
consentirebbe secondo il tribunale di
associare i campioni alle attività produttive della lavorazione della bauxite e
della decuprazione delle ceneri di pirite si riportano le considerazioni contenute nel documento depositato
il 6-3- 2001 da cui risulta che :
a )i valori di
alluminio trovati nei campioni da E1a
E6 sono eguali o inferiori ai valori di
AL di sedimenti non inquinati
dell’adriatico
b) gli unici
dati scientifici relativi alle analisi di fanghi rossi – presentati dall’accusa
e ignorati dalla difesa hanno valori di
AS Cd e ZN molto diversi da quelli contenuti nei sei campioni presentati dalla
difesa
c) non esiste alcuna
correlazione tra AL ( che viene
ritenuto indicatore di fanghi rossi) e la tossicità
d) la grande
variabilità dei contenuti delle diossine
Si conclude quindi evidenziando che i campioni definiti fanghi rossi contengono
PCDD/F e metalli in proporzione cosi variabile che evidentemente sono stati
mescolato o si sono nel tempo mescolati con fanghi /rifiuti/peci provenienti
dalla produzioni del cloro.
Va ancora
criticata la sentenza laddove sostiene che la lavorazione della bauxite con il
sistema haglund , comporti la presenza oltre che di un catalizzatore
metallico anche di tutti gli
ingredienti necessari a produrre diossine e cioè cloro (coke ) e temperatura
elevata , perché invece manca uno degli
elementi necessari a produrre diossine , il componente più importante ,e cioè
il cloro, poiché non c’è nessun motivo,
scientificamente valido, per sostenere che il coke possa essere paragonabile al
cloro o possa rappresentare una fonte di cloro.
A parte il fatto che in nessuna fase del processo risulta la presenza del cloro, si sottolinea come
comunque quel procedimento risulterebbe utilizzato in Italia molti anni fa , per essere poi sostituito dal
processo Bayer , mentre è negli anni 60-80
che , secondo la stessa difesa, si sarebbe verificata la maggior parte
dell’inquinamento .
Non si comprende poi la critica relativa
all’utilizzo delle tabelle del Protocollo d’intesa del 93 come parametro per la valutazione della sussistenza o meno
del pericolo, atteso che lo stesso PM. aveva sollevato la questione e che comunque i dati presentati in aula su
linee guida internazionale mostravano
chiaramente la pericolosità ambientale dei sedimenti di Porto Marghera.
Non può poi
essere condiviso l’esito negativo del controllo ,diretto a verificare la presenza
di diossine o furani o IPA negli inceneritori , perché la loro presenza risulta da un documento di
provenienza aziendale -una lettera che l’ing Paoli inviava al
direttore dello stabilimento per comunicare i flussi di microinquinanti organici dello stabilimento.
Da quel
documento e dagli allegati si evince che i lavaggi dei filtri degli
inceneritori CS 28 provocavano nel 1994
,un flusso d’acqua e nerofumo contenente PCDD/F,che dopo neutralizzazione (
correzione di PH solamente) venivano scaricati direttamente in
laguna (anno 1994).
3.7.2
La tecnologia per la realizzazione degli impianti di trattamento chimico
–fisico –biologico delle acque reflue
industriali era disponibile negli anni 50
Osserva il P:M come
le affermazioni contenute sul punto nella sentenza , alle pagine 777-780 , con
riferimento alla tesi dell’ accusa , secondo cui il depuratore biologico poteva
farsi negli anni 50 , siano generiche,
perché la tesi accusatoria non poteva venire smentita in quanto fondata su
documentate conclusioni.
Le affermazioni del
Collegio nelle citate pagina della sentenza trovano invero una puntuale
smentita nelle argomentazioni e
nella documentazione illustrata dal PM nelle conclusioni dibattimentali del
giugno 2001 che il tribunale non ha minimamente
considerato.
3.7.3 Gli scarichi
idrici
Viene quindi
esaminata la sentenza nelle parti, da pagina 717 a pagina 725, laddove si
ritiene infondata la tesi dell’accusa ,secondo cui gli scarichi del
Petrolchimico sarebbero stati effettuati in violazione del divieto di
diluizione.
Premesso che la
diluizione attuata in particolare sullo scarico principale SM15 dello
stabilimento è pacificamente ammessa
in fatto da tutti , rileva il PM
come secondo il Tribunale, la
diluizione non era vietata dalla normativa vigente e che comunque ,anche se
comportava il superamento della
concentrazione limite per numerosi inquinanti –fatto anche questo ammesso ma qualificato come reato contravvenzionale-
non determinava condizioni peggiorative
dello scarico.
Risulta dall’esame
delle tabelle riportate nell’atto d’appello
e contenute nella relazione del prof
Foraboschi -relative agli
scarichi SM15 e SM 22- che le
concentrazioni delle sostanze inquinanti –azoto nitrico, solventi organici aromatici, clorurati organici 2°
gruppo – superano i valori limiti massimi di legge , in rilevante percentuale ,
e che mediamente si mantengono vicino ai valori limite mentre la legge chiede che le concentrazioni siano in ogni
momento inferiore al limite.
Il rispetto dei limiti
di concentrazione ed il conseguente non superamento in nessuna occasione delle concentrazioni limite .avrebbe
comportato il contenimento del contributo inquinante a livelli sempre inferiori al 10%del valore limite.
La sintesi delle
valutazioni tecniche è che quanto maggiore è la portata dello scarico, a parità
di concentrazione,tanto maggiore è il carico inquinante addotto nel corpo
recettore e quindi il contenimento dell’impatto ambientale passa
attraverso il contenimento della portata dello scarico .
Con la diluizione si ottiene l’effetto
opposto, in quanto l’aumento della portata ,ottenuta miscelando il flusso delle
acque inquinate da determinati inquinanti- utilizzando acque pulite o
contaminate con altri tipi di inquinanti - determina automaticamente la
possibilità di scaricare quantità di inquinanti che non sarebbero consentiti,
se ciascun flusso di acque inquinate fosse
scaricato separatemene o se , come richiede la legge i limiti fossero
applicati a ciascun singolo flusso
prima della miscelazione .
Viene quindi
contestata la sentenza nella parte - da pagina 726 a pagina 736-in cui ritiene
infondata la tesi accusatoria,secondo cui il superamento dei parametri di
accettabilità di cui al D.P.R n 962/1973 determinò condizioni peggiorative dello
scarico delle acque
Le valutazioni del Tribunale vengono
contestate in base alle conclusioni del CT del P.M ,svolte nella udienza del
15-5 e nella relazione del 26-5-2001 che sono le seguenti: gli scarichi idrici
del Petrolchimico hanno presentato e tuttora presentano rilevanti frequenze di
casi di superamento dei limiti
stabiliti dalla legge per ciascun inquinante; la frequenza di tali superamenti
è andata decrescendo dagli anni 70- 80
agli anni 90,ma rimane tuttora superiore all’1%; la affermazione del
consulente della difesa fatta propria dal Tribunale, secondo cui il contributo
inquinante degli scarichi non avrebbe peggiorato le condizioni delle acque
lagunari nell’arco temporale considerato e ciò sia per la natura delle
sostanze, sia per l’entità e quantità di tali superamenti , rimane priva di
giustificazioni ed è invece vero il contrario cosi come dimostrato dalle
condizioni di permanente contaminazione delle acque e dei sedimenti lagunari.
Va invero osservato
come il collegio incorra in errori fondamentali sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto va
chiarito che la normativa sulla tutela
delle acque dall’inquinamento si è sempre, fin dalle sue origini, basata
sulla fissazione di valori limite
della concentrazione degli inquinanti –stabiliti in apposite tabelle
variabili in base alle conoscenze scientifiche
-che non possono essere in alcun
caso superati .
La tesi della difesa
,accolta dal Tribunale, secondo cui la fissazione di limiti di concentrazione
massimi sarebbe invece frutto di un compromesso ,per facilitare
l’azione di campionamento e controllo, non è condivisibile, perché, se per
assurdo fosse vera ,consentirebbe anche seppur per periodi limitati, di
scaricare elevate concentrazioni di
inquinanti , tali da costituire un vero veleno per la vita acquatica del corpo
recettore senza che si abbia il superamento dei valori medi .
Peraltro quando il legislatore ha voluto
applicare il criterio dei valori medi lo ha precisato nella norma , come ha
fatto in materia di tutela contro l’inquinamento atmosferico, dove sono appunto
previsti dei valori di concentrazione media nel tempo.
Per taluni
inquinanti ,il tempo ,su cui si devono mediare le concentrazioni, è una
settimana per i macroinquiannti la media
è annuale
Va anche aggiunto che quando si fa
riferimento a valori medi di concentrazione da non superare, questi evidentemente variano a seconda del tempo nel quale i
valori vengono mediati.
In particolare il valore
limite diventa più basso quanto piu lungo è il tempo su cui le concentrazioni
vengono mediate ed è per tali
considerazioni che il ragionamento del Tribunale non può essere
condiviso.
3.7.4 Rifiuti e inceneritori
1. Le interpretazioni normative
Le normative specifiche inizialmente
riguardanti la laguna di Venezia e poi
estese a tutto l’ambito nazionale sul
contenimento dell’inquinamento delle acque e del suolo sono la legge Merli 319/76,
recante norme contro l’inquinamento delle acque ,e
il DPR 915/82 concernente lo smaltimento dei rifiuti.
Le predette
normative data la finalità di tutele di un ecosistema delicato e unico doveva
essere rigorosa ed a interpretazioni
rigorose si è attenuta la Corte di
Cassazione.
Dalle dichiarazioni dei tecnici della difesa
risulta invece che l’adeguamento degli scarichi idrici ai limiti di legge è
avvenuto solo nel 1983, ben 10 anni dopo la promulgazione della legge
I limiti di legge poi in realtà non risultano
sempre rispettati neppure dopo.
2 Le soluzioni impiantistiche e gestionali
L’impianto di incenerimento CS 28 dei residui clorurati installato nel
1972 aveva evidenziato forti carenze come risulta dalla relazione dei CC.TT di
medicina democratica ,soprattutto a
causa di forti carenze del materiale costruttivo , che risultava
evidentemente erroneamente scelto sulla
base solo di criteri di risparmio
economico .
3 La gestione
dei rifiuti
Nulla dice poi la sentenza sugli altri
impianti di incenerimento dei rifiuti esempio il primo impianto di
incenerimento di reflui liquidi del reparto TD (anno 1972) -per cui erano state
evidenziate carenze impiantistiche - l’impianto di incenerimento del nerofumo
del reparto AC1(anno 1968), anch’esso privo di sistemi di abbattimento degli
inquinanti , nè su quello della produzione del cloro con celle a catodo di mercurio , di cui si è parlato in
precedenza e per cui il mancato utilizzo delle
piu avanzate tecnologie ( celle a diaframma o celle a membrana) avrebbe
consentito di evitare il rilascio nell’ambiente di mercurio e diossine.
3.7.1
Piu volte sono state
trattate le problematiche ambientali connesse ai sistemi di convogliamento e
trattamento (torce e blow down) degli
scarichi di emergenza ,derivanti dai dispositivi di protezione delle
apparecchiature.
1)Raccolta e convogliamento degli sfiati
I recipienti chiusi che
contengono fluidi pericolosi , se possono raggiungere elevate pressioni, devono
essere dotati di dispostivi di sicurezza
per il caso di scoppio e quando questi dispositivi entrano in funzione ,
il contenuto viene rilasciato in tutto
o in parte e convogliato in un
sistema di raccolta blow- down ,cosi come impongono norme di buona
tecnica e tutela ambientale.
2)Abbattimento
degli inquinanti
Osserva l’accusa
come presso il polo chimico di Marghera almeno fino al 1993 la regola era
invece quella dello scarico diretto nell’atmosfera degli sfiati di emergenza ,
regola che contravveniva alle norme di buona tecnica secondo cui:
lo scarico diretto
nella atmosfera è vietato quando:
a) è vietato
dalla legislazione locale;
b) quando il fluido scaricato abbia temperatura
superiore a quella di autoaccensione;
c) quando il fluido
presenti caratteristiche di tossicità;
d) quando la
corrente da scaricare sia un liquido infiammabile, tossico o comunque
pericoloso;
Nel caso degli
scarichi di emergenza contenenti 1,2 –DCE o CVM ricorrono le condizioni di cui alla lettera b e/o della lettera c e d.
3) Le
soluzioni adottate dal Polo chimico, emissione da un camino a quota elevata o
combustione in una torcia posta alla sommità di un alto camino ,contrastano le regole
della buona tecnica in quanto non garantiscono né il contenimento nè
l’abbattimento degli inquinanti pericolosi .
La prima soluzione
comporta solo la diluizione degli inquinanti ,aumentando però la popolazione
esposta e non doveva pertanto essere usata per fluidi tossici o
cancerogeni
La seconda non
doveva essere utilizzata per quelle sostanze –quali il CVM - la cui combustione
produce sostanze ancora piu tossiche
Solo nel 1993
risulta essere stato installato un inceneritore in cui sono inviati tutti gli
sfiati normali e di emergenza degli impianti .
4)La
disponibilità della tecnologia blow down
La tecnologia per attuare la installazione di
appropriati sistemi blow-down sugli impianti era disponibile dagli anni 60 ed
era ben nota all’interno del gruppo.
Tali sistemi di scarico sono stati installati
negli anni 70 preso gli impianti macro
e micro pilota del centro ricerche della Montedison di Castellanza e nel 1974 presso lo stabilimento di Ferrara.
5) Utilizzo
per gli impianti di produzione del cloro-soda del processo con celle a catodo
di mercurio e mancata adozione della tecnologia disponibile prima con celle a diaframma e poi con celle a membrana.
Il P.M espone su questo punto le sue
critiche alle affermazione infondate contenute
nella sentenza laddove il Tribunale afferma che l’approntamento di impianti di cloro soda con celle a membrana era in uso dalla prima
metà degli anni 70, solo però a livello sperimentale, mentre fino agli anni
80 il sistema predetto non funzionava efficacemente a livello industriale.
Risulta infatti dalle prove acquisite che al
contrario erano in produzione da metà degli anni 70 impianti di cloro soda con
celle a membrana e risulta provato comunque che, negli Stati uniti ,per la
produzione del cloro-soda fin dagli anni 72 venivo usato il processo con celle
a diaframma , che è meno energivoro di quello catodo di mercurio.
6) Effluenti e residui mercuriali originati dal
processo cloro-soda presso il Petrolchimico di Porto Marghera
Il ciclo
produttivo in questione comporta pesanti impatti ambientali con la emissione di
rilevanti quantità di reflui di processo tra cui i fanghi mercuriali,contenenti
alti tassi di mercurio , che risultano essere stati tumulati tra gli altri siti
nella località di Marano ( vedi documentazione ispettore forestale )
7)Disponibilità della tecnologia impiantistica per la
depurazione dei reflui derivanti dal processo cloro-soda e la sua mancata adozione presso il Petrolchimico di Porto Marghera
Nonostante esistessero dagli
inizi degli anni 60 tecnologie impiantistiche che consentivano
la depurazione delle acque reflue in questione fino al limite di concentrazione
finale di 5 p p b (5 parti per miliardo), di mercurio , per 31 anni dal
1951 al 1982 la società ha gestito gli
impianti cloro soda senza dotarli dei sistemi di depurazione , essendo stato installato il primo impianto di
demercurizzazione solo nel dicembre del 1982
.
8)
Disponibilità della tecnologia delle
celle elettrolitiche a membrana nel processo cloro- soda e la sua mancata adozione presso il Petrolchimico di
Portomarghera
Le celle
elettrolitiche a membrana erano disponibili sul mercato da oltre 25 anni.
La società
americana Diamond Shamrock ,a meta degli anni 70, aveva gia realizzato e messo
in produzione sei impianti con la tipologia delle celle elettrolitiche a
membrana.
Inoltre negli stessi anni (1975-1977) la
società aveva in studio altri 40 progetti per impianti Cloro –soda con celle
elettrolitiche a membrana .
Nei primi anni 80 la società Rumianca realizzava la progettazione di un impianto
con celle elettrolitiche a membrana che poi costruiva nel 1984 e faceva entrare
in produzione nel 1986.
Solo nel 1988
,con 15 anni di ritardo anche in questo
caso, la società Montedison si impegnava con il ministero dell’Ambiente a
sostituire da subito le celle a catodo di mercurio con quelle a membrana nei suoi impianti.
9)Riduzione
dell’impatto ambientale attraverso l’adozione dell’ossigeno puro in luogo
dell’aria nel processo produttivo dell’1,2 dicloroetano
Con
l’adozione negli impianti CV 22 e 23
della migliore tecnologia disponibile, che comportava la sostituzione
dell’ossigeno puro in luogo dell’aria , nel processo produttivo dell’1,2, DCE
si sarebbe notevolmente ridotto l’impatto ambientale
Ed invece, nonostante i noti vantaggi anche
sotto un profilo di rendimento del prodotto, oltre che sotto il profilo ambientale, derivanti dalla
adozione delle tecnica sopradescritta- già da tempo adottata da molte
imprese- la società continua tuttora a produrre con il vecchio
processo ad aria nonostante il suo maggiore impatto ambientale .
3.3.2 Omessa applicazione della normativa concernente lo smaltimento dei rifiuti in relazione
agli apporti idrici tali da qualificarsi
rifiuti tossico nocivi e/o rifiuti
pericolosi,con conseguente divieto di loro sversamento nelle acque della laguna di Venezia
Rileva il P. M come l’istruttoria dibattimentale abbia evidenziato,mediante prove documentali che ci sono stati ripetuti scarichi in fognatura di acque di
lavaggio della pulizia delle autoclavi , fortemente contaminate da CVM la cui presenza aveva anche fatto , in
alcune occasioni, scattare nei reparti
gli allarmi per la quantità di CVM che si diffondeva nella atmosfera
durante le operazioni di scarico.
La provenienza e
la contaminazione delle acque di cui sopra
non ne consentiva lo scarico- non autorizzato né autorizzabile- essendo
la sostanza contaminante una di
quelle indicata al punto 3.6 della tabella 1.3 contenuta nelle Delibera Interministeriale di cui all’art 5 D.P.R
10-9-1982 n 915 in data 27-7-1984 .
In base a tale disposizione le acque
avrebbero infatti dovuto essere considerate rifiuti pericolosi ( un tempo rifiuti tossico nocivi).
Il Tribunale invece
aveva escluso che gli apporti
liquidi provenienti dai reparti CV 22.23 e CV 24.25 dovessero essere
classificati come rifiuti liquidi pericolosi , escludendo altresì che la loro
confluenza nello scarico generale SM15 attribuisse allo stesso la medesima
qualità di rifiuto tossico nocivo o
pericoloso
Rileva quindi il
PM come la decisione del Tribunale si
fonda su due premesse entrambe errate .
La prima è la
affermazione che la delibera interministeriale non ha introdotto un principio
di presunzione di tossicità del rifiuto in ragione della sua provenienza .
La seconda è la affermazione che una
eventuale presunzione sarebbe incompatibile con il principio costituzionale di
presunzione di non colpevolezza
La Corte di Cassazione ha infatti affermato al contrario il principio
secondo cui la tossicità di un
rifiuto deve essere valutata in
relazione alla sua provenienza e quindi
il Tribunale ha commesso un primo errore.
Dalla seconda erronea premessa deriva
l’affermazione che gli scarichi delle acque di processo, provenienti dai
reparti CV 22/23 e CV 24/25 ,non appartengono alla categoria dei rifiuti, e
sono invece sottoposte alle disciplina relativa agli scarichi idrici.
Ed a fondamento
di tale affermazione il Tribunale
pone i principi contenuti nella
nota sentenza della C.C Sezioni unite
del 1995.
Ma
l’interpretazione che il Tribunale dà
alla citata sentenza non è corretta
,non essendo mai stata utilizzata dalla giurisprudenza la distinzione tra
rifiuto liquido e rifiuto solido per distinguere la disciplina da applicare al
singolo caso.
Ne consegue che
il Tribunale ha commesso un secondo
errore interpretativo
Va quindi
chiarito,secondo l’accusa al fine di correttamente applicare le norme in questione che lo scarico proveniente dai
reparti CV 22/23 CV 24/25 va a confluire nell’impianto di trattamento
denominato SG 31 ,gestito da un soggetto diverso da quello titolare dello
scarico , per cui ci si trova in presenza di uno scarico indiretto.
Per scarico indiretto si intende quello in
cui il rapporto tra le acque di processo ed il corpo recettore sia interrotto dall’attività di un soggetto
diverso dal produttore dello scarico,al quale quest’ultimo conferisce il
liquame per avvalersi dell’impianto di depurazione da quello gestito.
Ed allora una prima ragione per escludere
l’applicabilità della normativa in materia di scarichi idrici allo scarico in questione è rappresentata dal fatto che si tratta di scarico indiretto ,e come tale
quindi, escluso dalla disciplina dettata per gli scarichi idrici ed
assoggettato alla disciplina normativa sullo smaltimento dei rifiuti ,per
effetto delle disposizioni contenute nell’art 36 D. LG vo 152/99, che stabilisce
appunto come per scarico debba
intendersi il riversamento diretto nei corpi ricettori, con la conseguenza che
quando il collegamento è interrotto ,viene meno lo scarico.
A sostegno di
quanto affermato viene citata una sentenza della C.C del 1999 –Sez III 24-6-
1999 est Onorato - che richiama il D
.Legislativo 152/99 e la sentenza della C.C
del 1995 erroneamente interpretata dal Tribunale , con la
precisazione che la interpretazione ,
di cui alla prima sentenza citata , è conforme a quella elaborata in precedenza e cioè prima dell’entrata in vigore del citato D. LG .vo , e secondo tale interpretazione i rifiuti liquidi che potevano , per le loro
caratteristiche,essere qualificati tossico nocivi ,dovevano essere sottoposti
alla più rigorosa disciplina dettata per lo smaltimento dei rifiuti tossico
nocivi.
Tanto risulta con
chiarezza anche dalla sentenza delle
Sezioni unite ,che il Tribunale ha male interpretato, nonostante sia stato chiaramente detto dalla Corte
stessa, nella descrizione dei criteri
ai quali ci si deve attenere per stabilire se deve essere
applicata la normativa in materia di acque o quella in materia di rifiuti, che
proprio secondo uno dei criteri
utilizzati per la distinzione , è prevista
la inclusione nel DPR 915/82
(art 2,6° comma ultima parte ) dei liquami e fanghi ,quando siano
tossico nocivi .
E lo stesso
principio viene ribadito nella sentenza
laddove ,dopo avere affermato che le fasi di smaltimento dei rifiuti liquidi attinenti allo scarico
sono soggette alla disciplina stabilita dalla legge 319/76, viene fatta salva
l’unica eccezione dei fanghi e liquami tossico nocivi che sono invece sotto
ogni profilo , regolati dal d.p.r n
915.
Su tali
interpretazioni non risultano esservi stati contrasti giurisprudenziali per cui
non potrebbe neppure invocarsi la buona fede o l’ignoranza del precetto penale ,dovuta ad errore
giustificabile ex art 5 c p per la presenza di decisioni contraddittorie .
La terza erronea valutazione si è risolta in una serie di errati apprezzamenti di fatto.
Il Tribunale da
infatti atto degli accertamenti fatti dal C. T della accusa Cocheo, ( utilizzando i rilievi di un
gascromatografo che controllava la concentrazione di CVM nella vasca di neutralizzazione posta immediatamente prima dell’impianto di depurazione dello
scarico SG 31) dai quali è risultato il superamento dei limiti di
concentrazione del CVM. -fissati nella
delibera Interministeriale . del 1984 perché il rifiuto possa essere
considerato tossico nocivo - ma
sostiene che il superamento dei
limiti, accertato in sole 10
occasioni, non sarebbe sufficiente ad
attribuire la qualifica di rifiuto tossico nocivo a tutta l’acqua in uscita dallo scarico SM1510
Ma nel suo ragionamento il Tribunale commette degli errori ;avrebbe infatti
dovuto – dopo aver rifiutato il primo criterio proposto e cioè quello della qualificazione desunta dalla semplice
provenienza da lavorazioni che producono rifiuti tossico nocivi- accertare se
le acque provenienti dai citati reparti contenessero o meno CVM e nel caso affermativo se la sua
concentrazione fosse superiore al limite
fissato dalla delibera interministeriale del 1984.
Accertata la
tossicità si sarebbe poi dovuto valutare quali fossero sotto il profilo
giuridico le conseguenza della eventuale miscelazione con altri rifiuti liquidi convogliati in laguna dallo scarico
SM15.
Il Tribunale avrebbe poi dovuto ricordare , e
non lo ha fatto, il divieto assoluto
contenuto nella Delibera del 1984 . di
miscelazione dei rifiuti tossico nocivi con qualsiasi altro rifiuto .
Comunque accertato che, anche in una sola
occasione, la concentrazione di CVM era superiore al limite stabilito dalla
relativa normativa, il rifiuto doveva essere qualificato come tossico nocivo e come tale trattato e smaltito e non avrebbe
invece dovuto essere smaltito in acqua, attraverso un normale impianto di
depurazione, che non era mai stato
autorizzato allo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi.
La modalità di
smaltimento dei rifiuti tossico nocivi
praticata dal Petrolchimico era rigorosamente
vietata dall’art 9 u.c. DPR.
915/82 .
Il Tribunale ha
poi affermato che i risultati del consulente
del PM. Cocheo erano inattendibili , sulla base dei rilievi fatti dal
consulente della difesa Foraboschi , ma non ha poi consentito al consulente del
PM di ribadire ai rilievi critici fatti da quello della difesa , le cui conclusioni sono errate come emerge
anche dalla lettura della memoria che in sede di replica era stata depositata
dalla parte civile per confutare gli errori ed i travisamenti operati
dal CT Foraboschi.
Il Tribunale ha
ancora fatto affermazione infondate, quando ha ritenuto che non esisteva alcun
collegamento permanente tra la fognatura dei reparti di produzione
del CVM/PVC \e le vasche di neutralizzazione ; che solo fino al 1995 vi era la possibilità di qualche sforatura per quanto riguardava le acque
reflue del reparto CV 22/23, mentre non esisteva alcuna possibilità per quanto
riguardava il reparto CV24/25 ; non è invero dato di capire da quale elementi
probatori il Tribunale derivi le predette non veritiere affermazioni.
Va semmai evidenziato come il contrario risulterebbe
dalla domanda di autorizzazione del 1996,
che contiene la descrizione del percorso della acque di processo
provenienti dai reparti ed indica il loro collegamento con le reti
fognarie e l’impianto di depurazione.
Certo risulta
comunque che nelle acque di fognatura dei reparti finivano le acque di lavaggio
delle autoclavi , cosi fortemente
contaminate dal CVM da provocare allarmi all’interno dei
reparti
Ed invero la presenza di CVM nelle vasche di neutralizzazione era ben conosciuta dallo stesso gestore che,
sopra le vasche ,aveva messo un gascromatografo per misurare la quantità di CVM
che dalle vasche evaporava .
Quale fosse
la situazione dello scarico risulta comunque dalla
documentazione prodotta dalla stessa azienda nel 1996, quando l’impianto era
stato sequestrato dalla autorità giudiziaria
ed il Magistrato alla acque aveva sollecitato la presentazione di una
relazione tecnica più dettagliata sulle caratteristiche dell’impianto.
Da quella stessa documentazione risulta: che sono stati avviati all’impianto SG31
liquami che avevano le caratteristiche dei rifiuti tossico nocivi in base alla tabella 1.3 delle delibera
,nonostante il divieto contenuto nell’art 9 ultimo comma DPR915/82, che i
predetti rifiuti sono stati trattati
come se si trattasse di un normale scarico idrico , mentre il loro coretto
smaltimento avrebbe dovuto avvenire soltanto con il ricorso all’incenerimento o in alternativa con il conferimento in discarica, .che i
predetti rifiuti sono stati miscelati con altri reflui provenienti da diversi
reparti ,in violazione di quanto previsto dall’ultimo comma del punto 1.2 della
citata Delibera e del principio contenuto all’art 4 lettera ) e DPR 915/82
che sono state effettuate tutte le fasi
di smaltimento dei predetti rifiuti in assenza di autorizzazione con la
conseguenza che il produttore si è
sottratto al preventivo controllo da parte delle autorità amministrative.
Risulta
quindi provata una condotta contraria a
specifiche disposizioni di legge, e pertanto colposa, protrattasi per decenni e
concretizzatasi nello scarico in laguna
di tonnellate di rifiuti idrici tossico nocivi perché contaminati da CVM.
Conferma della
fondatezza della ipotesi accusatoria si trova oltre che nella
documentazione di cui sopra anche in
quella contenuta nel faldone 102
acquisito dal Tribunale in data 8-5-2001
Risultando
accertata la violazione del DPR 915/82 relativa allo smaltimento dei rifiuti,
la assoluzione degli imputati dalle relative contravvenzioni è ingiusta e deve essere riformata.
III parte –sentenza
Capitolo V
Ipotesi
e prove in tema di avvelenamento (452 e
439 c.p) e /o adulterazione (452 e 440 c p) del biota vivente sul sedimento dei
canali della area industriale
5.1 Introduzione
Sinossi della motivazione sulla insussistenza di
pericoli alimentari tipici dell’avvelenamento e della adulterazione.
Premessa : le
caratteristiche quantitative e qualitative della presenza di inquinanti
,rilevate in traccia nel biota vivente nei sedimenti dei canali dell’area
industriale, non permettono di ritenerne l’attitudine a farsi causa iniziante di effetti avversi alla salute in quanto
le classi di esposizione, suscettibili
di derivare dalla assunzione tramite la dieta del biota in questione, sono
distanti ordini di grandezza da quelle- seppure solo potenzialmente- capaci di
produrre effetti avversi.
Nella
prospettiva accusatoria la questione della reale attitudine delle sostanze di
cui si discute a recare nocumento alla
salute è invece rimasta in secondo piano, ritenendo l’accusa la sussistenza di pericoli alimentari, a prescindere dal
riferimento ad una giustificazione e proponendo di desumerne l’esistenza da generalizzazioni non pertinenti.
Significativo
osserva il Tribunale è il fatto che l’accusa
non abbia ritenuto di allegare
adeguata informazione sulle classi di esposizione – dosi- al cui livello l’esperienza
clinica e/o l’osservazione epidemiologica riconosce essere stati osservati
minimi effetti nell’uomo.
Secondo l’accusa, il pericolo che connota la
fattispecie dell’avvelenamento e della
adulterazione può essere desunto dalla
violazione di norme tipiche della
legislazione complementare e accessoria penale ed extrapenale che affiancandosi ai delitti contro
l’incolumità pubblica ,realizzano forme di tutela anticipata di tale bene.
Esempio tipico il D. Lvo 30-12-1992
n.530 di attuazione della
direttiva 91/492/CEE che, stabilendo parametri
di edibilità per il consumo umano dei molluschi, stabilisce tra l’altro
che non devono contenere sostanze tossiche o nocive di origine naturale o immesse
nell’ambiente, quali quelle elencate nell’allegato A) del D lvo
27-1-1992 n131 ,in quantità tali che l’assunzione di alimenti calcolata superi la dose giornaliera ammissibile per
l’uomo (c.d. D G. A e in inglese A.D.I accetable daily intake o T.D .I.
tollerable daily intake ).
E la maggior parte dell’istruttoria ha infatti riguardata tale tipo di accertamento
con esito negativo in quanto è
risultato provato che le dosi suscettibili di derivare dalla assunzione tramite
la dieta di quel pescato non sono
riconducibili alla classe di
dosi capaci di superare i c. d limiti
soglia.
Viene a questo
punto precisato che il limite di assunzione delle sostanze tossiche negli
alimenti ,cd valori soglia, viene operato applicando dei fattori di
correzione che comportano la distanza
di ordini di grandezza dalla dose di
assunzione che non ha provocato effetti tossici in sede sperimentale su animali – cd noael no observed adverse
effect level.
Dopo avere
premesso che verrà nel prosieguo
spiegato cosa sono i limiti soglia
viene comunque anticipato che vengono determinati applicando dei fattori di correzione che realizzano la distanza di ordini di
grandezza dalla dose che non ha provocato effetti tossici – NOAEL- e che pertanto il limite soglia- espressione del principio di precauzione- non indica la
misura del pericolo reale.
E tanto è
provato anche dal fatto che il
superamento del limite soglia o D. G. A non è sanzionato penalmente ma solo in via amministrativa o
convenzionale.
Comunque il
programma probatorio diretto a
confrontare la dose idealmente assumibile tramite la dieta di vongole di
provenienza dall’area industriale e la
D. G .A. –dose soglia- una volta eliminata ogni incertezza sulle
caratteristiche -tossicologiche degli inquinanti non risulta provato essendo
stato accertato il contrario.
Sia per quanto
riguarda i metalli e gli altri
microcontaminanti di interesse, come per quanto riguarda le diossine e il P.C.B. , risulta provato
che, anche per i forti consumatori, un ipotetico consumo di vongole provenienti
dall’area industriale non eroderebbe
l’ampio margine di protezione “1-4-picogrammi / kg di perso corporeo /
die” e cioè il valore soglia
individuato dalla Organizzazione mondiale per la sanità e adottato anche
dalla Commissione europea per la protezione alimentare, parametro di riferimento dell’esposizione sicura a tali tipi di
sostanze , determinato applicando il
principio di precauzione.
A tali
conclusioni il tribunale rileva di
essere pervenuto utilizzando - secondo i criteri usati anche nei documenti
delle agenzie regolatorie - per la corretta determinazione della dose di assunzione individuale, dati
di concentrazione e di consumo medi sul lungo periodo ( sia la concentrazione come il consumo sono dati necessari per
determinare la esposizione giornaliera
), ed , alla accertamento della insussistenza di pericoli alimentari suscettibili di derivare dalla
dieta costituita dal biota di provenienza dall’area industriale , è pervenuto sulla base dei dati di
concentrazione degli inquinanti emersi
dalle relazioni degli stesse consulenti tecnici delle accusa.
Essendo però
venute in luce notevoli differenze, per quanto riguardava la
concentrazione degli inquinanti , tra
accusa e difesa era stata ritenuta concordemente la
opportunità di affidare la analisi ad un consulente esterno che, le parti
stesse avevano concordemente individuato
nel laboratorio M. P.U. di
Berlino, luogo di espletamento della analisi a cui le parti tutte hanno
partecipato.
E i risultati
delle analisi hanno dimostrato come i valori di concentrazione degli inquinanti
, indicati dal consulente della accusa Raccanelli siano inattendibili -in
quanto di gran lunga superiori a quelli
accertati nel laboratorio di Berlino, che sono risultai invece corrispondenti a quelli resi noti da altri consulenti della
accusa- e come siano invece attendibili
quelli delle difese, ,atteso che, quelli
quelli originariamente discussi
e determinati dagli esperti delle difese
sono risultati superiori
quelli emersi dalle analisi di
Berlino .
Comunque ,sia
seguendo i dati della analisi di Berlino, come quelli precedentemente rilevati
dalle difesa,utilizzando quindi sia i
valori medi di concentrazione acquisiti prima come i valori medi ottenuti dalle
analisi di Berlino , ed a maggior ragione
secondo questi dati ,i valori di concentrazione cumulativa per
diossine più P. C .B sono risultati
compatibili con il valore soglia
che applicando il principio
di precauzione , l’O. M. S ha indicato nel 1998 ,sia per l’esposizione
del medio consumatore come per l’esposizione del forte consumatore .
E se non risulta
superato il limite soglia a maggiore ragione non sono ipotizzabili i supposti pericoli alimentari .
Riassumendo
quanto sopraesposto rileva in conclusione il Tribunale come l’accusa abbia
cercato di dimostrare la sussistenza
del pericolo attraverso il confronto delle concentrazioni di inquinanti e dei
conseguenti livelli di esposizione
tramite la dieta con misure – i valori di soglia – lontane ordini di
grandezze dai livelli degli effetti
osservati negli endpoints più sensibili, non riuscendo in tale intento perché
l’evidenza probatoria disponibile è di
segno contrario a tale proposizione.
Il Tribunale poi
non condivide le ipotesi interpretative secondo cui il pericolo tipico dei
reati di avvelenamento e adulterazione
viene retrocesso a parametri tipizzati da leggi extrapenali o da agenzie regolatorie.
Per quanto riguarda infine, in particolare , le diossine si osserva come l’accusa abbia sostenuto che il valore soglia definito dalla O.M.S. nel 1998 non è adeguato alle
esigenze di protezione delle fasce di popolazione più sensibile. Sul punto va
fin d’ora chiarito che la O. M .S ha
applicato , dovendo definire la misura della precauzione ,contenuti di ricerca
scientifica , per la definizione del valore soglia, ultraprudenziali per le
esigenze di protezione delle fasce di
popolazione più sensibile e per tutti gli effetti possibili.
E l’O.M.S.
stabilisce che debba essere ritenuta adeguata , alla necessità di protezione di
tutta la popolazione ,una esposizione a
dosi dieci volte inferiori a quelle che non sono ritenute capaci di produrre effetto ( Noael), stabilendo con
tale criterio il T.D.I di 1-4 p g/ TEQ/ kg peso corporeo /die.
Ed alla luce di tali considerazioni appare evidente
come sia ingiustificato sostenere la inadeguatezza del valore soglia indicato
per le diossine dalla predetta
organizzazione.
L’assoluzione
degli imputati dai reati di avvelenamento e adulterazione risulta
conseguente all’accertamento che le dosi di assunzione del consumatore medio e del forte
risultano non sussumibili sotto le classi idonee a dar luogo ad un
qualunque effetto avverso; che le dosi predette non sono sussumibili sotto
quelle vietate dalla legge speciale o sotto valori non normali; che le
diossine e /o le diossine simili non
sono sussumibili sotto la classe di quelle capaci di superare il valore soglia
,determinato , applicando il principio di precauzione.
L’assoluzione
consegue allo accertamento che i
livelli di dose capaci di produrre
effetti negativi sull’uomo sono ordini di grandezza più elevati di quelli
processuali; consegue altresì alla evidenza probatoria che non permette di
individuare nel catabolismo del petrolchimico – quello dei tempi storici della
imputazione- la matrice della contaminazione del sedimento dei canali dell’area
industriale.
E come rilevato
anche dalla difesa se non risulta
provato il reato di avvelenamento e adulterazione ,non risulta provato
neppure quello di disastro innominato ,che nell’ipotesi accusatoria li
presuppone.
Per tali
considerazioni che verranno ampiamente esaminate nei capitolo che seguono
l’accusa risulta del tutto infondata.
5.2 Resoconto delle tesi di accusa in tema di
avvelenamento e di adulterazione del biota
Le tesi accusatorie
si richiamano a studi rilevanti in ordine all’inquinamento del biota
interpretandone in modo non corretto le conclusioni.
Premesso infatti
che certamente il sedimento dei canali è inquinato e di conseguenza anche il
biota sullo stesso vivente e che sull’inquinamento
del biota interferisce la componente
biodisponibile degli inquinanti ,la
questione rilevante nel processo e quella di stabilire in che misura ciò avvenga e con quali
conseguenze.
Si interessa di
tale questione innanzitutto lo studio di Baldassari. Ziemacki e Di Domenico –anno1996- che non evidenzia
situazioni di contaminazione del biota , nel contesto della conterminazione
lagunare, critiche per il consumo umano.
E le conclusioni
del predetto studio, pur redatto fini diversi da quello della valutazione del rischio per l’uomo , per conto dell’Istituto superiore della Sanità non
sono dissimili da quelle prese da altri
studiosi.
Nelle conclusioni i tecnici di cui sopra
hanno evidenziato in particolare che il livello di concentrazione delle diossine riscontrate nei pesci e
nei molluschi dei canali della zona
industriale è confrontabile con quello
normalmente riscontrato nei pesci e molluschi utilizzati per l’alimentazione
umana ,provenienti da aree con impatto
antropico da moderato a trascurabile
Hanno gli stessi tecnici anche osservato che,
per quanto riguarda la contaminazione da PCDD/F, sono state rilevate in
letteratura concentrazioni di livelli superiori oltre un ordine di grandezza-
cioè 10 volte superiori- a causa di sensibili contaminazioni ambientali locali.
Altre fonti
accertano- vedi consulenza tecnica Sesana
Muller -che le concentrazione di inquinanti non superano la scala dei valori normali e che, in base alle analisi di campioni
prelevati nei canali della zona industriale, sono compatibili con quelle che,
secondo la disciplina normativa relativa alla edibilità del prodotto, sono
ammesse per legge ad essere distribuite per il consumo umano diretto .
A tale conclusioni è pervenuto anche il consulente tecnico dell’accusa che
ha però fatto le proprie indagini orientate
solo sui metalli pesanti assumendo come riferimento i limiti fissati dalla normativa italiana per la edibilità del prodotto .
IL riferimento
normativo è costituito dal D. Lgvo.
530/1992, specifico per il biota di maggiore interesse processuale , e
cioè i molluschi bivalvi ,che secondo
quanto prescritto nell’allegato A )
punto d) non devono contenere sostanze tossiche o nocive , quali quella
elencate nell’allegato A del Dlgvo
27-1- 1992 n131 ,in quantità tali che la assunzione di alimenti calcolata
superi la D .G. A o sia tale da alterare il gusto dei molluschi.
Il Dl gvo 530/1992 indica per ciascun
contaminante , partendo dalla dose
giornaliera ammissibile-(DGA) - la concentrazione limite (CL).
Viene pero a questo punto ulteriormente
evidenziato come un modesto superamento della DGA o del CL non significhi
avvelenamento punibile ai sensi
dell’art 439 –440 c .p
Ritiene in fatti il primo giudice necessario evidenziare e ribadire come
diversa sia la offensività degli illeciti amministrativi, aventi per oggetto il
superamento dei valori soglia ,dalla
offensività dei delitti colposi di comune pericolo.
Il consulente
tecnici Sesana accerta ancora che per
tutti i metalli vengono rispettate le concentrazioni limite ,che fissano i requisiti di edibilità ,al di
fuori dell’arsenico
Il catabolismo del Petrolchimico non è pero fonte di contaminazione da
arsenico, mentre elevate concentrazioni di arsenico si associano alle ceneri di pirite che sono tra i rifiuti usati per imbonire le
aree della seconda zona industriale.
Altri studi condotti per conto della mano pubblica- studi di
Marcomini, Zanette, D’Andrea e Della Sala -evidenziano la insussistenza di
pericoli alimentari e la assenza di
situazioni critiche anche per i forti consumatori ed anche con riferimento alle diossine
Ed infatti la tesi accusatoria trova
fondamento sulle valutazioni di altri consulenti dell’accusa:Raccanelli e
Zapponi
Valutazione del consulente dell’accusa Raccanelli
Premessa la
difficoltà di accertare la causa dell’inquinamento del biota non essendo
possibile a differenza di quanto accade per il sedimento usare il confronto tra
le impronte rileva comunque il consulente –tecnico come campioni prelevati
nella zona industriale risultino ricchi
di furani a basso grado di
clorurazione e di octaclorofurano , con
una presenza molto bassa invece di diossine , mentre in altre zone di rischio ,
differenti dal contesto dell’area industriale ,predominano le diossine sui furani, ciò che evidenzierebbe la provenienza
dell’inquinamento dal Petrolchimico.
La tossicità di PCDD/F è espressa con una unità I – WHO che comprende anche la tossicità legata ai
policlorobifenili detti diossina simili.
Il valore massimo di concentrazione di
tali inquinanti risulta trovato in
un campione prelevato il 14-9-2000 dalla guardia di Finanza a
pescatori di frodo che presentava una tossicità di 2,7 p g I –WHO/kg e comunque
nella maggior parte dei campioni risulta superato il limite di legge con
valori massimi proprio in prossimità dello scarico SM15.
In particolare il consulente –tecnico dell’accusa in sintesi evidenzia come , dal confronto tra i
campioni prelevati nell’area industriale e quelli prelevati nella zona di Santo Erasmo, risultino con riferimento ai valori massimi:
concentrazioni
anche 135 volte più alte per i
PCDD/PCDF,
concentrazioni
anche 86 volte più alte per l’HCB,
concentrazioni
anche 6,7 volte più alte per gli OCDF/OCDD .
Evidenzia inoltre l’esperto dell’accusa che
l’octaclorofurano è il congenere che ha l’abbondanza relativa maggiore nei
sedimenti industriali ,mentre l’octaclorodiossina è il congenere che ha abbondanza maggiore nei reflui civili
e nella città di Venezia
Il fatto che il rapporto tra OCDF e OCDD vada progressivamente
diminuendo man mano che ci si allontana
dalla zona industriale conferma la
provenienza della contaminazione dal Petrolchimico.
La tesi accusatoria consegue alla premessa
secondo cui dell’inquinamento delle acque della zona industriale sarebbe
responsabile solo il Petrolchimico , per cui accertata la presenza delle
diossine l’accusa ritiene raggiunto ed
esaurito il suo programma di prove
Secondo il consulente dell’accusa sarebbe
sufficiente il consumo di 26 grammi di
peso edibile di vongole per
erodere il margine di garanzia costituito
dalla dose giornaliera ammissibile per un adulto, ove si ponga che
quelle oggetto di campionamento ed analisi registrano valori di tossicità
massima della misura di quella sopraindicata..
Con riferimento
al valore di concentrazione massimo di inquinanti riscontrato – quello
del campione prelevato il 14-9-2000- basterebbe mangiare 26 grammi edibili di vongole per superare la soglia della dose giornaliera ammissibile
Con
riferimento al valore medio di tossicità riscontrato nei campioni sarebbero
sufficienti 39 grammi di peso edibile
di vongole per erodere il margine di garanzia rappresentato dal valore –soglia
Valutazione della
consulenza d’accusa Zapponi
Sono le
conclusioni a cui è pervenuto questo consulente tecnico a consentire alla pubblica accusa di portare
a compimento la prova in ordine alle
accuse di avvelenamento e adulterazione
delle sostanze destinate alla alimentazione.
Le conclusioni
del consulente partono dalla premessa che la concentrazione media di diossina
nei molluschi bivalvi dell’area
industriale di Venezia risulta essere dell’ordine di1.85 p g TE/g e
dalla considerazione che la stima risulta essere stata fatta in
difetto, senza considerare il
contributo inquinante dei vari P C B- che sono stati invece considerati nello
schema di tossicità aggiornato dell’OMS.
E le conclusioni finale cui il consulente è pervenuto sono le seguenti .
1) il consumo di
bivalvi provenienti delle aree più inquinate della laguna comporta più di un
raddoppio dell’esposizione di fondo( quella
che non si darebbe se non si consumassero vongole )
2) il valore
inferiore del limite OMS 1998( 1 p g T E /K g
p c /giorno) risulterebbe essere superato nella ipotesi di un consumo
normale di bivalvi locali
3) il valore
superiore del limite dell’O:M S 1998 ( 4 p g T E /K g p c /giorno) è superato
nella maggior parte delle ipotesi sopra riportate - che esaminano il consumo di 50 g r / persona di bivalvi,
di 100 grammi /persona e quantitativi maggiore per forti consumatori
)
6)
nell’ipotesi minima di esposizione , si
verifica comunque una situazione di rischio superiore a quella risultante dalle verifiche fatte dalla US
EPA, senza considerare il contributo dei PCB e un rischio aggiuntivo superiore considerando invece anche il contributo dei PC B
Entrambe le predette valutazione degli esperti non sono
state ritenute attendibili dal
Tribunale per le seguenti ragioni espresse in modo sintetico : la esposizione
giornaliera va determinata come prodotto della concentrazione della sostanza inquinante nell’alimento per la quantità di alimento assunto giornalmente, sul lungo
periodo ed è infatti secondo questi criteri che sono stabiliti i parametri di
riferimento usati anche dalla accusa ; sia per la concentrazione come per il
consumo deve farsi riferimento a dati medi sul lungo periodo, non potendosi prescindere da tale criterio
per formulare il giudizio di compatibilità .
I consulenti dell’accusa hanno invece
utilizzato parametri dagli stessi stabiliti
facendo riferimento a dati di consumo abnormi e alle concentrazioni
massime rilevate nelle varie campagne di campionamento e confrontandole con le ipotesi di
superamento del valore soglia più restrittive indicate dalla O.M.S. nel 1998
senza rendere mai giudizi in
termini di idoneità delle esposizioni
rilevanti a provocare pur minimi effetti avversi.
L’utilizzo del termine consumo o assunzione
sporadica o occasionale è estraneo al concetto
D.G.A o T .D.I. che fa sempre riferimento a consumi protratti per lungo periodo
In realtà un lieve superamento del valori
soglia non sarebbe comunque sufficiente a fondare giudizi di idoneità a ledere
della esposizione suscettibile di derivare dalla assunzione del biota tramite
la dieta .
Nel concreto non risulta in ogni caso
superato il valore soglia e le
concentrazioni di inquinanti non sono riconducibili a quelle vietate dalla legge
Ancora i dati
pertinenti alle concentrazioni di inquinanti
rilevate nel biota di provenienza dell’area industriale sono risultati
poco attendibili e non sono stati
ciononostante espunti dalle valutazioni degli esperti delle parti e su di essi
si fonda la valutazione del Tribunale
5.3 Note a margine sul significato dei
valori limite pertinenti alla esposizione a sostanze tossiche
Informazioni sul processo di regolamentazione del
rischio e sulla individuazione dei parametri di protezione alimentare
Spiega quindi il
Tribunale come per garantire il risultato , cui mira il principio di
precauzione , la definizione del limite di protezione si attesti su misure che
sono molto lontane dalla dose, la cui assunzione non provoca effetti tossici
negli animali più sensibili ( NOAEL. No observable adverse effect level) e
di conseguenza nell’uomo.
Essendo i dati
acquisiti attraverso esperimenti esclusivamente eseguiti sugli animali,
mediante la loro esposizione ad alte dosi ,sono necessarie due estrapolazioni
relative:
1) alla valutazione
del rischio nel caso di una esposizione
a basse dosi
2) alla
valutazione del dato sperimentale
trasferendolo dall’animale
all’uomo .
IL NOAEL
rappresenta quindi la più elevata dose
somministrata che non ha prodotto
tossicità.
Al NOAEL, per garantire
la sicurezza nei confronti dell’uomo, vengono quindi applicati fattori di sicurezza
ed è prassi comune che venga applicato un fattore di sicurezza10 se il
NOAEL è derivato da esperimenti sull’uomo
, 100 se è derivato da studi sull’animale .
Con i fattori di
sicurezza si vengono cosi a stabilire
livelli di esposizione ultraprotettivi per la salute umana .
Non si tratta comunque di stabilire a quali
livelli di esposizione l’uomo può ammalare,per cui l’esposizione dell’uomo ad
una dose lievemente superiore a quella
del parametro di protezione, stimato secondo i criteri di cui sopra, non
significa probabilità di un effetto tossico .
La determinazione del valore soglia ottenuta
in base ai dati di correlazione dose –risposta , ed in base alla successiva applicazione dei fattori di sicurezza indica
di conseguenza quale è la dose di una certa sostanza, che nelle condizioni di esposizione date - viene ritenuta
sicuramente priva di effetti tossici
(valore limite tossicologico
,valore soglia , ADI ,TDI).
5.4 Segue brevi cenni sulla definizione
dei valori limite per gli alimenti
La dose giornaliera accettabile – valore
limite – che viene espressa in p. g. ( picogrammi)/kg di peso corporeo rappresenta quindi la dose che, se ingerita
quotidianamente per tutta la vita , si ritiene non possa provocare effetti
sfavorevoli per la salute.
Il termine
accettabile riferito alla dose giornaliera
viene utilizzato quando si parla di sostanze volontariamente o per
necessità aggiunte agli alimenti ,come
ad esempio ,gli additivi alimentari mentre quando invece si tratta di elementi di natura ambientale, non
volontariamente immessi negli alimenti, viene usato il termine tollerabile , da cui deriva la diversa terminologia di dose giornaliera tollerabile (DGT) o tolerable daily intake(
TDI) o dose settimanale tollerabile
ovvero Tolerable Weekly Intake)
Viene usato
anche il termine di dose settimanale tollerabile per indicare la quantità che può essere assunta settimanalmente.
In definitiva le sostanze
bioaccumulabili ( cioè
accumulabili per via alimentare ), presenti in basse concentrazioni negli
alimenti, possono risultare pericolose
per la salute solo nel caso di assunzioni molto prolungate e solo dopo avere raggiunto livelli di
concentrazione cumulativa costante nel tempo ed in equilibrio con i valori di
assunzione , per cui non è corretto assumere che il valore soglia tollerabile possa venire superato nel caso di
consumo di un piatto di spaghetti.
Il superamento della
dose soglia si può verificare solo
quando venga superato il valore medio per un determinato periodo, mentre superamenti sporadici non
sono significativi ai fini della erosione degli ampi margini di protezione
Deve tenersi
presente che il NOAEL si riferisce alla dose che non produce alcun effetto indesiderato sull’animale dopo una somministrazione giornaliera
protratta per un lungo periodo e che si tratta di sostanze bioaccumulabili, per
via alimentare nell’uomo per cui il
giudizio attiene ad assunzioni prolungate , e non a esposizioni occasionali, e
presuppone che esse abbiano raggiunto
nell’organismo un certo livello di concentrazione .
Possono pertanto essere significativi e
accettabili solo confronti con dati di assunzione medi e di lungo periodo , mentre assunzioni occasionali
elevate ,di breve periodo o comunque picchi di assunzione non sono un punto di riferimento
congruo all’oggetto della verifica in
questione
( superamento
o compatibilità di una data esposizione
al limite soglia)
5.5
segue Brevi cenni alla determinazione
della esposizione suscettibile di derivare tramite assunzione
di un alimento che rechi in traccia sostanze inquinanti
Veniva quindi evidenziato come per
determinare la esposizione giornaliere bisogna considerare la
concentrazione della sostanza
nell’alimento e la quantità di alimento assunta giornalmente ,
consumo giornaliero
Sia i valori di concentrazione della sostanza
contaminante come i valori di consumo degli alimenti devono
essere quelli medi per lungo periodo, perché
altri valori non possono venire
utilizzati.
5.6
segue Brevi cenni sulla definizione delle concentrazioni di inquinanti in
alimenti
Devono pertanto venire sempre utilizzati tra quelli rilevati i valori di concentrazione media e non quelli di concentrazione massima ,
utilizzandosi ,quando il numero di osservazioni risulti adeguato la media
aritmetica.
Quando i dati
non sono numerosi appare più corretto utilizzare il criterio della mediana , potendo quello della media
aritmetica essere influenzato dai
valori esagerati, sia troppo alti come troppo bassi ,mentre la mediana che
rappresenta il valore di concentrazione
equidistante dagli estremi è più rappresentativa
Per questo motivo non è corretto l’impiego di
valori massimi di concentrazione nel biota né
il confronto del dato cosi ottenuto con stime di esposizione media pertinenti a gruppi di
confronto,calcolate sulle concentrazioni medie
ricavate da ampi campionamenti .
5.7
segue I dati di consumo di riferimento nella valutazione della esposizione suscettibile di derivare tramite la dieta
In base alle
premesse di cui sopra ,circa i corretti
criteri da seguire nelle valutazione del rischio derivante dal consumo
degli alimenti, fondatamente la difesa ha evidenziato come le valutazioni degli
esperti dell’accusa non siano affidabili perché riferite a dati di consumo abnormi.
Viene quindi rilevato che i consulenti della
accusa hanno ipotizzato consumi
giornalieri senza alcune riferimento a valutazioni statistiche e utilizzando ad esempio i ricettari che
nulla dicono sul consumo giornaliero medio , che non può essere arbitrariamente determinato e deve invece essere determinato in base agli studi esistenti che sono studi affidabili
,indipendenti , preesistenti al processo, effettuati da studiosi di indiscussa
competenza ,indifferenti agli esiti del processo.
I consulenti
dell’accusa non spiegano in alcun modo perché questi dati siano stati da
loro ignorati
Valgono invece
al fine di valutare la sussistenza di pericoli
,derivanti dalla assunzione tramite dieta di prodotti ittici di inquinanti, sia le statistiche dei consumi del pesce nella popolazione
italiana, sia le statistiche relative al consumo del pesce degli abitanti della laguna di Venezia, le
prime contenute nella pubblicazione
dell’istituto superiore della Sanità del 1999 le seconde nel lavoro del Coses
del 1966 intitolato “il sistema ittico :produzione lagunare e abitudini di
consumo delle famiglie veneziane “.
In questo lavoro sono non solo definite le
medie di consumo generali, ma anche quelle riferite alle singole categorie di
prodotto ed è inoltre possibile ,dai dati contenuti nella predetta
relazione estrapolare il dato di consumo dei cosiddetti forti
consumatori .
I dati di
consumo contenuti in tale lavoro sono
stati poi utilizzati anche nello studio condotto sullo specifico delle
diossine e della contaminazione da OCDD
e OCDF nel contesto lagunare per conto
del Comune di Venezia
Dalle predette tabelle risulta che il consumo
medio di prodotti ittici da parte degli
abitanti del comune di Venezia è di 71 grammi al giorno- peso lordo- e quello
degli abitanti delle isole è invece superiore
93 grammi al giorno , che il consumo medio giornaliero delle vongole
da parte degli abitanti del Comune di Venezia è di 10 grammi al giorno e quello degli abitanti
dell’estuario di 20 grammi al giorno
–tutti valori al lordo. Sulla base dei
dati del Coses i forti consumatori
nell’ambito del comune di Venezia possono consumare 11 kg al mese di prodotti ittici equivalente
a circa 362 grammi (lordi ) al giorno
e 79 grammi di vongole al giorno mentre un consumatore medio ne assume
10 grammi al giorno.
Per forte
consumatore si intende normalmente
colui che consuma un quantitativo di pesce cinque volte superiore a
quello consumato dalla media della popolazione , e che ha le stesse abitudini
degli abitanti dell’estuario.
La correttezza
dei dati elaborati dal Coses risulta anche dal confronto con quelli elaborati
per conto del ministero della sanità , che dimostra come non sottostimino il consumo di pesce da parte della
popolazione veneziana.
Importante è poi
considerare per i prodotti ittici che interessano, e per stimare in modo
corretto il consumo reale e quindi l’esposizione reale del consumatore alcune peculiarità
Tali peculiarità
consistono nella resa del prodotto
Le statistiche
di consumo sopra riportate si
riferiscono al peso lordo, mentre, per determinare il consumo rilevante ai fini
de calcolo della esposizione , bisogna fare riferimento alla parte edibile,
eliminando le parti che vengono
scartate e di conseguenza non
mangiate
La questione non è marginale ed è resa
complessa dal fatto che,per i prodotti
ittici , il rapporto tra peso netto e
peso lordo risulta essere molto variabile .
È comunque certo che i consumi da considerare
sono quelli relativi alla porzione edibile dell’alimento, per cui i valori
lordi indicati nella relazione del
Coses devono essere trasformati in valori netti.
Dai calcoli cosi
effettuati risulta che il consumo
complessivo netto giornaliero di prodotto ittico di un consumatore medio
nel Comune di Venezia è di circa 30 grammi che aumenta a 137
grammi per un forte consumatore, e che per quanto riguarda le vongole il
consumo è rispettivamente di 1,4 per un
consumatore medio e di 11 grammi al
giorno per un forte consumatore
I dati di consumo delle vongole della
popolazione veneziana assunti dall’accusa –da 20 a 100 grammi di prodotto
edibile - risultano di conseguenza
arbitrariamente assunti e non risultando fondati su criteri accettabili non possono considerarsi congrui
e pertanto portano a stime sulle dosi di assunzione interessanti il processo
che sono prive di aggancio con la realtà.
5.8
segue Brevi cenni sulla definizione di concentrazione limite
Importane
osserva poi il Tribunale è innanzitutto chiarire il significato della
definizione di concentrazione
limite e la sua differenza dal valore soglia di riferimento
La
concentrazione limite relativa a
ciascun prodotto ha il compito di facilitare i controlli sulla edibilità degli
alimenti ,il relativo calcolo viene
effettuato moltiplicando la DGA( espresso in mg/kg) per il peso
corporeo(espresso in Kg) e dividendo il
prodotto per la quantità di alimento mediamente assunto giornalmente .
La funzione
della concentrazione limite è all’evidenza quella di prevenire esposizioni
superiori alla DGA ,funzione che viene
realizzata considerando nel predetto calcolo un consumo di alimento
sufficientemente elevato da salvaguardare anche i forti consumatori .
Ne consegue che se le concentrazioni medie di
inquinanti , rilevate negli alimenti, risultano inferiori alla rispettiva CL ,l’alimento può essere commercializzato , perché la sua assunzione
anche in forti quantità , non comporta una esposizione superiore alla DGA .
5.9 Valori limite e consumi medi di lungo
periodo. Confutazione delle tesi di accusa secondo cui l’ipotetico consumo di
vongole di provenienza dell’area
industriale comporterebbe una
esposizione giornaliera a metalli e a micro inquinanti ( esaclorobenzene e
benzopirene) superiore alle rispettive dosi tollerabili (TDI)e(TWI) di
riferimento.
Va innanzitutto premesso che gli esperti
delle difese, ai fini del calcolo delle dosi di assunzione di interesse
processuale ,non assumono valori propri ma i valori di concentrazione risultanti dalla fonti allegate dalla accusa
.
In particolare le vongole raccolte nei canali
industriali hanno una concentrazione di mercurio di 0,05 mg/Kg che è dieci
volte inferiore alla C. L( 0,5 mg/kg)
prevista dalla disciplina normativa relativa alla edibilità del prodotto
vigente in Italia ed in Europa per pesce e molluschi bivalvi ed analoghi
risultati valgono per il cadmio e d il piombo.
Per il cadmio la
concentrazione nelle vongole dei canali industriali risulta quattro volte
inferiore alla relativa C.L. ( 1mg/kg) stabilita in Europa ed in Italia
Per il piombo
premesso che i valori di concentrazione
indicati dal consulente tecnico
Raccanelli sono diversi da quelli indicati da altri c. t. dell’accusa e ciononostante la difesa ha assunto tutti g
li esiti delle analisi riportati nella relazione del consulente Raccanelli
risulta egualmente che la C .L ( 2mg/kg) è distante più di quattro volte dai valori di concentrazione presenti nelle vongole dei canali
industriali.
Per quanto
riguarda l’arsenico va premesso che né in Italia né in Europa esiste una C.L. per gli alimenti.
In ogni caso non
esistono rilevanti differenze relativamente alla concentrazione di tale
metallo nei campioni di provenienza da
diverse aree, ciò che consente di ritenere l’arsenico largamente diffuso in
tutta l’area lagunare.
Sulla base di
queste analisi risulta accertato che nell’ambito della zona industriale non
sono date concentrazioni anomale di metalli nel biota e che non vengono
superati i parametri (C.L.) che definiscono la commerciabilità e la edibilità dei molluschi bivalvi
Per metalli diversi dal cadmio, mercurio e
piombo non è stabilita in Italia la C. L per
gli alimenti ed allora le
valutazioni pertinenti alla protezione
alimentare si eseguono ,stimando la dose di assunzione individuale o
esposizione giornaliera e confrontando il dato di esposizione con i noti valori
di protezione ( ADI) (TDI) (TWI).
Premesso ancora una volta che il confronto
deve farsi tenendo conto del consumo medio di prodotto ittico -parte edibile-
che è quello correttamente determinato
dalla difesa secondo i criteri sopraesposti e tenendo conto della concentrazione media e delle protrazione dei consumi nel tempo di
vongole provenienti esclusivamente dall’area industriale, risulta che ,per i
metalli, la esposizione suscettibile di derivare tramite la dieta costituita da
quel pescato, non erode in alcun modo
l’ampio margine di protezione alimentare
garantito dal relativo limite soglia.
Il calcolo del
margine di protezione ovvero della
distanza esistente tra la dose giornaliera tollerabile di ciascun metallo e la
quantità dello stesso metallo ipoteticamente assunta dall’individuo con le vongole
è stato eseguito dividendo il valore di TDI per il valore di assunzione .
I valori di TDI
sono quelli adottati in Italia dall’istituto superiore della sanità ed in
Inghilterra dal Ministero dell’Agricoltura
pesca e Alimenti per formulare
analoghe valutazioni di sicurezza sui
prodotti ittici consumati dai paesi di appartenenza.
Le tabelle che
sono riportate nella sentenza consentono di verificare che il margine di
protezione è molto ampio.
Ed invero anche
i consulenti dell’accusa avevano dato atto della compatibilità della
concentrazione degli inquinanti presenti nei campioni di pesce prelevati nei canali della zona industriale con quelli che secondo la relativa normativa
potevano essere distribuiti per il consumo umano ,nonché del fatto che per quel
che riguarda i metalli , tutti sono largamente inferiori ai limiti normativi di riferimento.
Anche per
l’esaclorobenzene ed il benzopirene
appartenente agli IPA( idrocarburi policiclici aromatici)i dati relativi dimostrano che la loro concentrazione nelle vongole dei canali
industriali non supera la C.L. di riferimento per cui conclusivamente sia per i
metalli come per l’esaclorobenzene e il benzopirene , il consumo di vongole dei
canali industriali anche da parte del forte consumatore non è comporta la erosione dell’ampio margine
di garanzia derivante dai relativi parametri -valori soglia – di protezione
alimentare.
5.10 Valori limite e consumi di lungo
periodo . L’esposizione alle diossine,
premesse sulla confutazione
della tesi secondo cui l’ipotetico consumo di vongole di provenienza dall’area
industriale comporterebbe una
esposizione giornaliera a diossine e a P. C .B. tale da erodere l’ampio margine
di garanzia costituito dal limite soglia individuato dalla O.M.S. 1998 in 1-4-PG/KG/DIE
Osserva sul
punto il Tribunale come la difesa abbia dimostrato che l’assunzione di diossine
e PCB suscettibile di derivare dalla dieta di prodotti ittici lagunari , non
comporti alcuna erosione dell’ampio margine di garanzia costituito dal valore soglia
individuato dall ‘O.M.S nel 1988 in
1-4-pg/kg p.c /die
E la valutazione fatta dai tecnici della
difesa corrisponde a quella fatta anche
da alcuni tecnici dell’accusa .
I prodotti
ittici provenienti dai mari del
nord si attestano su grandezze di grana
lunga superiori a quelle riscontrate nei canali dell’area industriale
veneziana.
In tesi di accusa, lasciata la prospettiva di
un confronto con dati di esposizione rilevati in altri contesti, si
sostiene che l’alto grado di
inquinamento del biota ,contenuto nei sedimenti dei canali dell’area
industriale , risulta dal confronto con il grado di inquinamento dei molluschi provenienti da altre aree della laguna .
Nella loro
valutazione gli esperti della difesa invece calcolano l’esposizione a diossine
con riferimento ad un ideale consumatore di vongole di provenienza
esclusivamente dai canali della zona industriale ,cumulandola con il consumo di
altri prodotti ittici lagunari e con
altri prodotti di origine animale , considerano poi gli esiti di tale
indagine confrontandola con i criteri dettati da O. M. S 1998 ed infine integrano l’analisi , facendo un
confronto tra l’esposizione a diossine
della popolazione lagunare e le altre popolazioni europee ,nonché quella degli
U.S.A.
5.11 segue Nota
a margine sui dati di concentrazione pertinenti alle diossine
Gli esiti delle valutazioni degli
esperti della difesa dimostrano che il
grado di concentrazione delle diossine nei pesci e molluschi della laguna
veneziana è confrontabile con quello dei pesci e molluschi provenienti da altre
aree che risentono di un impatto antropico diretto moderato.
Infatti
dal confronto emerge in particolare
che i prodotti lagunari,
comprese le vongole raccolte in area industriale, hanno un carico di diossine
inserito nell’intervallo delle concentrazioni che possono essere definite
normale per questa tipologia di alimenti , per l’Europa e per gli Stati Uniti e
ad analoga valutazione sono pervenuti anche alcuni consulenti del P. M..
Rileva ancora il Tribunale come dato di contorno che il grado di
inquinamento , per quanto riguarda le diossine , dei molluschi e dei pesci di
provenienza da tutta la laguna , e quindi
anche dall’area industriale si
colloca ai più bassi livelli dell’intervallo di concentrazione riscontrato nei
prodotti ittici in Europa e negli Usa.
5..12
segue La determinazione della
esposizione a diossine suscettibile di derivare tramite assunzione di vongole
di esclusiva provenienza dai canali
industriali
Dopo avere
premesso che, anche per le diossine, devono utilizzarsi gli stessi criteri di
valutazione già prima indicati per gli altri inquinanti osserva
quindi il Tribunale come ,di conseguenza, valgono anche per le diossine
le critiche relative ai criteri non corretti utilizzati dalla accusa ,che ha
fondato le sue valutazioni con
riferimento a consumi medi ,che non trovano riscontro nelle statistiche dei
consumi della popolazione veneziana ,italiana od europea e che appaiono eccessivi e abnormi se
confrontati con le fonti disponibili.
Hanno infatti fatto riferimento nei loro
calcoli ad un consumo medio giornaliero di vongole dell’ordine di 20-100
grammi/die ( parte edibile ).
Facendo invece riferimento ai dati elaborati
dal Coses risulta, che la esposizione alle diossine è di 0,025 e 0,190 p g / kg
peso corporeo /giorno rispettivamente
per i consumatori medi e per i forti consumatori del Comune di Venezia ,con un
margine rispetto ai valori limite indicati dall’OMS nel 1998-1-4/ p g /kg peso
corporeo- che è 40-161 volte inferiore per i consumatori medi e 5-21 volte
inferiore per i forti consumatori.
Ne consegue che con riferimento al valore più
restrittivo 1 p g /kg di peso corporeo, il suo raggiungimento conseguirebbe solo
nel caso di un consumo giornaliero, protratto per lunghi periodi di 57 grammi di vongole( parte edibile),
pari a 400 grammi ( al lordo) di
vongole ,consumo che non trova alcun
riscontro nei dati elaborati dal Coses e che non costituisce in assoluto
un’ipotesi congrua e realizzabile .
Per raggiungere il valore soglia più elevato
di 4 p. g / kg di peso corporeo/die
sarebbe necessario consumare 233 grammi
di vongole al giorno pari a 1600 grammi lordi al giorno sul lungo periodo
Sulla base di tali dati risulta che la
situazione di contaminazione propria delle vongole di provenienza dai canali
della Zona Industriale non denota
pericoli alimentari.
5.13
segue L’esposizione a diossine con
tutti i prodotti ittici lagunari
Con riferimento
al consumo dei prodotti ittici
provenienti da tutta la laguna,
e pur con qualche incertezza dovuta
alla mancanza di dati per alcune categorie di prodotti ittici,le analisi
effettuate dimostrano che la popolazione veneziana con abitudini alimentari
medie potrebbe assumere con il prodotto
ittico lagunare 0,19 p g/ k g / giorno che è meno di un quinto della dose di riferimento più basse indicata dalla WHO(
1 p g /k g peso corporeo / giorno).
Ed il predetto valore di riferimento sarebbe
rispettato anche nel caso di forte consumatore ciò che invece non avviene per i
forti consumatori in altri paesi
europei.
La assunzione di diossine ,tramite il consumo
di vongole, costituisce una frazione minoritaria della complessiva
assunzione tramite tutti i prodotti ittici
,sia che si faccia riferimento alle vongole provenienti da tutta la laguna ,sia
che si faccia riferimento alle vongole provenienti dai soli canali industriali
, in base ai dati di analisi di concentrazione dedotti dalle fonti indicate
dalla accusa
Nel caso di
esclusivo consumo di vongole ,provenienti dai canali industriali, si passerebbe
infatti da una esposizione di 0,19 p g/k g / giorno ad una esposizione di 0,2 p
g/ kg peso corporeo / die.
L’incremento del carico di diossine derivante
dal consumo di vongole provenienti dall’area industriale è irrilevante non solo
per il confronto con la esposizione derivante dal consumo di tutti i prodotti
ittici, ma anche per il confronto con
la quantità di diossine assunta giornalmente con tutti gli altri alimenti .
5-14
segue l’esposizione con tutti gli alimenti
La assunzione di diossine avviene tramite
tutti gli alimenti e mediamente sono
più carichi di diossine , per ragioni di bioaccumulabilità i prodotti di origine animale attraverso i
quali viene veicolata la maggior parte delle diossine ( pari all’80-90 %)
Premesso che per effettuare dei confronti
significativi devono essere utilizzati
dati di raffronto omogenei , mentre tale criterio non viene osservato
dalla accusa , rileva il Tribunale come la difesa verifichi innanzitutto
se l’esposizione complessiva della popolazione veneziana a diossine
,tramite la dieta costituita da tutti gli alimenti ,registri significative
differenze, facendo due diverse ipotesi :
· per l’ipotesi che il consumatore si alimenti con
prodotti ittici,provenienti da tutta la laguna, compresi quelli dei canali
industriali ;
· per la diversa ipotesi in cui la quota di vongole
provenga interamente dai canali
industriali;
I dati utilizzati per il confronto sono
ricavati ,sia per quanto riguarda
quelli relativi ai consumi, come per quanto riguarda quelli relativi
alle concentrazioni di diossine, da una pubblicazione presentata al convegno
Dioxin 99 tenutosi a Venezia
E dagli esiti di tali indagini risulta che
nella prima ipotesi( consumo di 30 grammi di prodotto ittico al giorno) si ha
una assunzione di diossine pari a 30 p g ITE, equivalente a 0,42 p g /kg peso
corporeo / die e nella seconda ipotesi invece si ha una assunzione pari
31 p.g ITE pari a 0,44 p g/k g peso corporeo die.
Valori che dimostrano la insussistenza dei
supposti pericoli alimentari derivanti da ipotetici consumi ,tramite la
dieta di vongole di esclusiva
provenienza dai canali industriali.
Anche
le valutazione di altri esperti di fonte pubblica avevano portato ad
analoghe conclusioni, rilevando che il consumatore medio veneziano assume con gli alimenti di origine animale
una quantità di diossine inferiore alla
metà del valore guida più restrittivo determinato dall’OMS nel 1998 ( 1 p g/ kg peso corporeo /giorno)
E tali risultati non sorprendono in quanto sono conformi a quelli a cui erano pervenuti nel 1996 altri
esperti.
5.15 ( segue) Il confronto con le esposizioni di altre
popolazioni
Le stime a cui pervengono
gli esperti delle difese coincidono con quelle a cui erano pervenuti altri
esperti- Zanotto e altri nel 1999 -vedi relazione pubblicata nel corso del convegno Dioxin 1999-e chiariscono come la
esposizione per via alimentare alle diossine della popolazione veneziana si collochi ai livelli più bassi dei valori
di esposizione delle popolazioni europee.
I dati di confronto rappresentati
graficamente nelle tabelle riprodotte nel testo della sentenza dimostrano :
1)che la
esposizione alle diossine del consumatore medio veneziano è sovrapponibile a
quella delle popolazioni di confronto
2) che la concentrazione media di diossine
nel pesce consumato da queste popolazioni è corrispondente a quella riscontrata nel pesce consumato
dalla popolazione veneziana
Dai dati
esaminati risulta anche che i consumi medi ipotizzati dalla accusa sono
di gran lunga superiori anche ai consumi medi di popolazioni come quella
svedese ,finlandese o danese che pure sono considerate notevoli consumatrici di questo tipo di
alimenti.
E trova altresì conforto la tesi della difesa
secondo cui i livelli di esposizione della popolazione veneziana sono tra i più
bassi di quelli europei ,certo comunque osserva il tribunale non è ipotizzabile
una esposizione alle diossine superiore a quella della popolazione media
europea.
I dati risultanti dalla diverse indagini
svolte in ambito europeo ed americano
hanno altresì dimostrato che
dalla maggioranza di consumatori in tutto il mondo viene superato
il valore di esposizione più restrittivo indicato dall’O.M.S pari ad 1p
g/kg peso corporeo/ die con i soli
alimenti animali e che
l’esposizione aumenta ancora di più per il contributo (meno levato )
degli alimenti di origine vegetale.
Normalmente la assunzione totale di diossine
e PCB dalla dieta risulta equivalente a 1.2- 3/ p g/ peso corporeo /
giorno.
Da queste stime risulta quindi che una
considerevole porzione della
popolazione europea eccede il limite più restrittivo di 1pg stabilito dalla OMS
Il lieve superamento del valore soglia non è
pero indice di avvelenamento né di pericolo ,che possa connotare il
corrompimento di sostanze alimentari.
Tale valore
non è quello della soglia ,oltre la quale ,stante un lieve
superamento,si possa prospettare a ragione la attualità e/o la concretezza di
un pericolo reale per la salute , essendo il valore di esposizione definito
dall’OM S( 1998) un valore guida da
raggiungere in futuro per
ottenere una maggiore protezione del
consumatore .
Sbaglia il consulente della accusa quando indica come esposizione di fondo della popolazione
mondiale a diossine e PCB quella di
1pg/kg peso corporeo/ giorno ,in quanto la commissione dell’O.M.S. raccomanda
il predetto valore come quello più restrittivo
ma indica come limite precauzionale
quello di 1-4- p g/ kg / peso corporeo / die.
Ed è sulla base di tale errata premessa e
considerando dosi di consumo abnormi che l’accusa ritiene che , sommando alla esposizione a diossine
, quella di PCB, l’ideale consumatore di vongole di provenienza dai canali
industriali superi l’esposizione di fondo.
Ed invece secondo i dati esaminati dalla
difesa, anche nel caso di forte consumatore,
si verificherebbero livelli di
esposizione di 1.7 o 1,22 p g / kg / p c/ die per il
consumatore di prodotti ittici provenienti da tutta la laguna o esclusivamente dai canali della zona industriale molto vicini ai
valori più bassi di quelli indicati
dalla Commissione scientifica sugli alimenti della unione europea 2000 ( nell’intervallo compreso tra 0,8e 4,5 p g/kg / p. c /die )
Assumendo il quantitativo di pesce che la
difesa assume consumato dal forte consumatore si verificherebbe il superamento
del valore di fondo o valore guida più basso da parte di tutti i consumatori
europei ed americani .
Non solo ,viene comunque ribadito che il superamento del valore soglia
non significa prova di avvelenamento o di adulterazione concretamente
pericolosa ma che in ogni caso non
esiste neppure la prova nel concreto del suo effettivo superamento.
5.16 L’esposizione
cumulativa a diossine e PCB. al
confronto con il valore limite indicato dalla OM S nel 1998 di 1-4-P G/ KG peso corporeo / giorno
Il significato del dato probatorio rilevante prima
dell’espletamento della analisi condotte a Berlino su sollecitazione del Tribunale
Sulla base dei dati di concentrazione degli inquinanti, che trovano fonte nella
relazione tecnica della accusa, i consulenti delle difesa determinano, in base ai dati di consumo medio e di consumo forte di vongole di esclusiva provenienza dalla zona
industriale , ricavati dalla fonti
sopraindicate, una esposizione ai soli PCB:
· per i medi consumatori in 0,02 PG/KG p.c/die
· per i forti consumatori in 0,15 PG/KG p.c/die
· ed una esposizione
cumulativa a diossine e PCB:
· per i medi consumatori in 0,04 PG/KG p.c/die
· e per i forti
consumatori in 0,33 PG/KG p.
c./die
Secondo il c. t Raccanelli la concentrazione di PCB nelle vongole di provenienza
dai canali industriali presenta un
valore medio espresso in WHO-TEF pari a 0.92 PG/G ( mediana 0,96) ed un valore
medio di concentrazione di diossine
espresso nella stessa misura di 1,08
PG/G( mediana 1,125 PG/G)
E quindi la concentrazione complessiva di
diossine e PCB viene ad avere un valore medio pari a 2,0 pg / g e mediano di
2,08 pg/g
E moltiplicando il valore medio di
concentrazione con il valore medio di consumo
risultano i valori di
esposizione sopraindicati che
dimostrano come la esposizione
cumulativa di diossine e PCB anche per un forte consumatore di sole vongole dei canali industriali si
attesta su valori inferiori al valore guida più restrittivo indicato dall’OMS
1988(1PG/KG/p.c /die)
Tanto risulta considerando i dati reali plausibili di consumo ( fonte Coses),
i dati di concentrazione – che derivano dalla accusa- ed informazioni relative
alla esposizione di fondo a diossine e
PCB redatte a cura della OMS e della Commissione europea per la sicurezza
alimentare nel 2000
Le conclusioni a
cui perviene il consulente della accusa
sono quindi inattendibili perché il
consulente:utilizza valori di consumo improponibili ovrastima la concentrazione
del PCB nelle vongole di provenienza industriale per calcolare l’esposizione
cumulativa alle diossine ed al PCB moltiplica il valore di concentrazione delle
diossine per un fattore di correzione di 1,5 ,mentre invece, essendo
risultata la concentrazione nelle
vongole del PCB in misura inferiore a quella delle diossine, avrebbe dovuto
utilizzare un fattore di correzione
inferiore a d 1 e non 1,5.
In sintesi :sia
per i sedimenti dei canali , come per il biota si accerta che esiste un
gradiente di concentrazione tra area industriale e aree interne alla
conterminazione lagunare che non
risentono di impatto antropico ,con
un più alto livello di contaminazione
del biota vivente sul sedimento inquinato ed un rapporto di interferenza col
biota lagunare da parte della
componente biodisponibile degli
inquinanti che compromettono lo stato
dei sedimenti .
Tale dato di realtà certo ed incontroverso
non significa però avvelenamento o adulterazione pericolosa del biota dell’area
attinta da inquinamento.
Le prove dimostrano che i valori di
concentrazione di inquinanti nel biota di provenienza dall’area
industriale non superano i valori di concentrazione vietati dalla legge che
definisce i parametri di qualità di molluschi ed altre specie ittiche ,né i
valori normali di concentrazione
Per i
metalli valgono le sopraesposte considerazioni con la
precisazione che , quando mancano nelle disciplina normativa le indicazione
relative alla concentrazione limite ,la norma opera il rinvio alle pertinenti
DGA e che nel caso particolare non vi è prova di superamento ,per gli
inquinanti di interesse processuale ,
dei parametri di qualità previsti da leggi speciali
Non risultano mai neppure per tutti gli altri
inquinanti di interesse
processuale carichi inquinanti non normali
cosi come non risulta che la dieta, anche per il forte consumatore, comporti
esposizioni che raggiungano l’ampio margine di garanzia costituito dal
TDI e neppure i limiti soglia espressione della massima precauzione.
E questo risulta essere il quadro probatorio
, a prescindere dalla importante sopravvenienza probatoria costituita dagli
esiti delle verifica ,disposta su
sollecitazione del Tribunale ,sui dati
di concentrazione degli inquinanti nel biota dell’area industriale riferiti dal
consulente dell’accusa Raccanelli
5.17 il rilievo di notevoli differenze tra i
dati di concentrazione riferiti dal C.T Raccanelli ( consulenza espletata nel procedimento 45000/99 RNR) e i
dati di concentrazione riportati in relazioni di altri consulenti dell’accusa .
Esiti delle analisi espletate presso il laboratorio
MPU di Berlino sotto la responsabilità
del consulente d’accusa Luz Muller ( su campioni di vongole prelevate
negli stessi punti di campionamento
oggetto di interesse da parte del consulente Raccanelli)
Attesa la
esistenza di divergenze nei dati di
analisi dei c. t dell’accusa ,pur relative
a vongole prelevate negli stessi canali , è stata eseguita presso il
laboratorio di Berlino e sotto la responsabilità del c .t. dell’accusa Luz
Muller la analisi di alcuni -cinque -
campioni di vongole ed un campione di pesci per rilevare la presenza di
diossine ( PCDD/F) di bifenili
policlorurati (PCB) idrocarburi policiclici
aromatici (IPA), esaclorobenzene
e metalli pesanti( cadmio,rame , mercurio, piombo,zinco, arsenico,
alluminio, cromo, manganese, nichel , ferro e selenio)
I risultati delle analisi di Berlino hanno
nel processo una valenza importante,
anche se la parte della motivazione fino ad ora esposta ne prescinde completamente .
E nonostante i risultati delle analisi fatte
a Berlino, che hanno ,come detto in precedenza, ridimensionato i valori di
concentrazione degli inquinanti, l’accusa ha continuato a sviluppare la sua
tesi facendo sempre riferimento a valori di concentrazione massima ed a consumi occasionali anziché a valori
medi di concentrazione ad a valori medi di consumo nel lungo periodo.
Gli esiti delle
analisi di Berlino confermano la
esistenza di notevoli differenze tra i risultati ottenuti dal consulente
.Raccanelli egli altri consulenti del P.M.
Dal confronto
tra i dati di Berlino e quelli del
consulente Raccanelli -confronto
praticabile in quanto i campioni provengono dallo stesso sito e le metodiche
usate dal laboratorio sono state concordate - risulta la fondatezza dei rilievi
critici fatti dalle difese .
Per la migliore
comprensione della questione in esame viene quindi premesso che tutte le
valutazione fatte dai consulenti per determinare la esposizione dei
consumatori, tramite dieta costituita da vongole dei canali industriali, fanno
riferimento alle concentrazioni di inquinanti
relative al peso fresco edibile; he i
prelievi , sia per le analisi effettuate a Berlino come per le analisi
effettuate dal c t dell’accusa Raccanelli,sono stati effettuati nei medesimi
punti : si tratta di cinque prelievi di campioni di vongole e un prelievo di campioni di cefali .
Dal confronto
tra le due analisi risulta che i valori
di concentrazione media si attestano in quelle di Berlino su grandezze che sono
la metà di quelle pubblicate dal consulente Raccanelli ( nella sentenza sono
riportate a confronto le tabelle che indicano per ciascun campione e per
ciascun inquinante- metalli ,HCB, diossine, PCB Benzopirene e somma IPA il grado di concentrazione verificato)
Vengono quindi
rappresentate in forma grafica ,per rendere piu evidente il confronto tra i dati di concentrazione
degli inquinanti , gli esiti
relativi al mercurio, piombo,arsenico,alluminio rame e cromo
Con riferimento
al mercurio risulta presente nel campione M 4 ,ritenuto
dall’accusa il più inquinato in quanto prelevato in prossimità dello scarico
SM15 ,principale scarico dello stabilimento,una concentrazione sei volte inferiore a quella indicata dal c.consulente dell’accusa
ed inferiore anche di due volte a quella riscontrata nelle vongole
pescate a S Erasmo .
Deve pertanto
escludersi che esista una situazione anomala per quanto riguarda il catabolismo
del mercurio.
Con riferimento
al piombo i dati medi di
Berlino risultano dieci volte inferiori a quelli del consulente dell’accusa,
con riferimento all’arsenico i valori
medi diminuiscono di circa 4 volte, con
una sostanziale identità tra la concentrazione di arsenico rilevate nelle
vongole pescate nei canali industriali e
nel canale S Erasmo.
Anche per quanto
riguarda l’alluminio il
controllo espletato a Berlino rivela valori di concentrazione
significativamente inferiori a quelli del consulente dell’accusa , con
differenze particolarmente rilevanti per quanto riguarda il campione ritenuto
più inquinato M 4, nel quale si sono rilevate concentrazioni anche 14 volte inferiori a quelle indicate
dall’accusa.
Per quanto
riguarda il campione di cefali le analisi di Berlino non ne hanno rilevato la
presenza.
Analoghe
valutazione emergono anche per il rame
e cromo che risultano sostanzialmente presenti in analoghe concentrazioni
nelle vongole dei canali di S Erasmo.
5.18 segue valori
di concentrazione dei metalli nelle vongole dei canali industriali Confronto tra gli esiti delle analisi condotte dal consulente Raccanelli e gli
esiti delle analisi condotte dagli altri consulenti dell’accusa
Le notevoli differenze risultanti dalle
analisi dei campioni a Berlino confrontate con quelle del c t. Raccanelli non
devono sorprendere, perché gia riscontrate dal confronto precedente tra le
stesse analisi e quelle effettuate da altri consulenti tecnici della accusa .
Vengono quindi riportate le tabelle , per
ciascun metallo ,che evidenziano le differenze tra le analisi del
consulente .tecnico Raccanelli e quelle dei consulenti
tecnici sempre della accusa Sesana,
Turrito ,Baldassari.
E questi
ulteriori confronti confermano che il dato anomalo è quello offerto dal
consulente tecnico Raccanelli.
5.19 segue Gli
esiti delle analisi di Berlino per i valori di esaclorobenzene, benzopirene ,
diossine, diossina simili (PCDD/F e PCB ) Il confronto con i dati riferiti dal
C.T Raccanelli
Anche per tutti gli inquinanti sopra indicati
i valori di concentrazione accertati a Berlino risultano largamente inferiori
rispetto a quelli riferiti dal consulente tecnico Raccanelli
In particolare: per l ‘esaclorobenzene risulta che la concentrazione nel campione M
4 -. Quello prelevato in prossimità dello scarico SM 15risulta la piu bassa di tutti i campioni nelle vongole dei canali industriali e si presenta solo 3,3,volte superiore a
quelle delle vongole dei canali di S Erasmo ed invece di 28 volte inferiore
alla concentrazione limite di riferimento ammessa per questi alimenti dalla
legislazione italiana ed europea.
Per quanto riguarda la concentrazione degli
I. P .A .- idrocarburi policiclici aromati-
i valori di concentrazione riscontrati a Berlino sono mediamente 22
volte inferiori rispetto a quelli proposti dal Raccanelli, e per quanto riguarda specificamente il campione M 4
risulta ben 37 volte inferiori quelli
della analisi di Raccanelli del 1999.
Viene in particolare in rilevo che, come per
l’esaclorobenzene cosi per i metalli e gli I. P. A , la concentrazione riscontrata
nelle vongole del campione M 4 è
la più bassa dei campioni della zona industriale ed è solo 2,6 volte superiore a quella del
campione prelevato a S Erasmo.
Ciò consente di
ritenere che nella zona industriale non
è attualmente presente una fonte
abnorme di contaminazione da IPA.
Analoghe
conclusioni riguardano la concentrazione del benzopirene dei PCB e delle diossine ed ancora una
volta le differenze rilevate dal C.T.
Raccanelli tra le concentrazioni di inquinanti presenti nelle vongole
dei canali industriale e quelle presenti nelle vongole di S Erasmo risultano notevolmente ridimensionate.
Per la media i
dati del C. T Raccanelli risultano
dimezzati mentre sono confermate le analisi relative ai campioni prelevati a S
Erasmo
Risultano
altresì normalmente più elevate le concentrazioni riscontrate nel campione M 6 ( canale industriale sud
mentre la concentrazioni rilevate nei campioni M1 M2 M4 sono tra loro livellate
)
E se
la difesa aveva dimostrato attraverso i suoi tecnici che ,anche con i
dati relativi alle concentrazioni di inquinanti ,forniti dalla accusa non sussisteva il pericolo denunciato nella
contestazione della accusa , a maggiore
ragione lo dimostra con riferimento ai dati risultati dalla analisi eseguite a
Berlino .
5.20 Il significato probatorio del
confronto tra i valori di concentrazione
di inquinanti nel biota pubblicati dagli esperti delle difese prima
del controllo prima del controllo espletato a Berlino (relazione Pompa in data 18-4- 2001) e i valori di concentrazione
riferiti dal laboratorio MPU all’esito di tale controllo.
L’adeguamento al dato di Berlino della valutazione di protezione
alimentare: l’esposizione (agli inquinanti di interesse processuale)
suscettibile di derivare dalla assunzione ,tramite la dieta,di biota di
esclusiva provenienza dell’area industriale .
Per tutti gli inquinanti di interesse
processuale i valori di
concentrazione riscontrati nel biota di
provenienza dall’area industriale non sono sussumibili sotto la classe di
concentrazioni vietate dalla legge che stabilisce parametri di protezione
alimentare ( o che possano essere ritenute non normali)
La distanza che separa( per gli inquinanti di interesse processuale) le
classi di esposizione suscettibili di derivare dalla assunzione del biota di
provenienza dall’area industriale e i
pertinenti valori soglia
espressione e misura del principio
di precauzione
Innanzitutto osserva il
Tribunale come per tutti i
metalli di interesse processuale le
concentrazioni rilevate dagli esperti delle difesa sono risultate superiori
a quelle medie rilevate a Berlino .
Ciò comporta che i margini di sicurezza,
espressi come rapporto tra il valore della dose giornaliera tollerata ed il
valore della esposizione determinata nel concreto sono ancora più ampi;
che le
valutazioni fatte dalla difesa risultano corrette;
che per i metalli nello scenario delineato
dall’imputazione non sussistono pericoli alimentari
che analoga è la situazione per il
benzopirene e l’esaclorobenzene nonché per le diossine, per il PC B dioxin
like .
I margini di
sicurezza delineatisi dopo le analisi di Berlino ed i dati acquisiti dimostrano
che anche per le diossine più PCB , partendo da consumi reali, nonché da
dati di concentrazione reali , non esiste alcuna possibilità che il consumatore,costituendo
la dieta con vongole di provenienza dell’ area industriale, possa assumere una
quantità pari alla dose
tollerabile più bassa indicata dalla OMS 1-4 p g/ kg peso corporeo ed a maggior
ragione quindi non sono ipotizzabili i supposti pericoli alimentari.
Come evidenziato nelle premesse l’accusa ha
cercato di dimostrare la sussistenza del pericolo tipico nei delitti in esame
confrontando i livelli di concentrazione di inquinanti riscontrati nel biota di
provenienza dai canali industriali ed i conseguenti livelli di esposizione con
, con misure –quali la CL,il DGA il TDI definiti dalle agenzie regolatorie
declinando il principio di precauzione – lontane ordini di grandezza dal
livello degli effetti osservati per gli
endpoints più sensibili ,lontano tanti ordini di grandezza ,quanti ne esprime il fattore di sicurezza applicato in sede di periodica valutazione
del rischio.
L’accusa però
non è riuscita neppure su questo piano
a dimostrare alcunché , perché
l’evidenza probatoria è di segno contrario.
Di conseguenza e conclusivamente ritiene il Tribunale che deve ritenersi provato che le dosi di
assunzione media,sia da parte del consumatore
tipo come da parte del consumatore forte, non siano sussumibili sotto le
classi idonee ex ante a dare luogo
a qualsivoglia effetto indesiderato per la salute , né sotto le classi vietate dalla legge o sotto
valori suscettibili di essere ritenuti
non normali e,per quanto riguarda le diossine , sotto la classe di quelle capaci di superare il TDI e comunque i valori limite individuati dall’OMS nel
1998.
La assoluzione consegue comunque alla accertata distanza di ordini di grandezza che separa le classi di
esposizione derivanti dalla dieta del biota di provenienza dall’area
industriale da quelle capaci di produrre un qualsivoglia effetto
indesiderato per la salute.
La assoluzione è altresì conseguente al fatto
che la evidenza probatoria non consente di individuare nel catabolismo del
PETROLCHIMICO la matrice della
contaminazione del sedimento dei canali dell’area industriale .
Note a margine di interpretazioni eccessive in tema
di avvelenamento (439-452) e di adulterazione
pericolosa alla salute pubblica
Perché il
tribunale non convalida le soluzione interpretative che l’accusa ha proposto in
diritto
Premette il
tribunale che si tratta di un argomento
in coda perché le prove hanno
dimostrato che non sono
concretamente superati neppure i valori soglia
che attengono ad una tutela anticipata
a livello contravvenzionale o di
illecito amministrativo, che deve essere distinta da quella che le fattispecie
penali di cui sopra realizzano .
Il pericolo tipico delle fattispecie
delittuose invocate non sarebbe realizzato nel caso che i parametri definiti
declinando il principio di precauzione , risultassero lievemente superati , non
realizzandosi in questo caso il
pericolo tipico della fattispecie in esame.
Non possono esser condivise le tesi secondo
cui la prova della sussistenza del
pericolo potrebbe essere desunta da leggi extrapenali che realizzano forme
anticipate della tutela della salute mediante prescrizioni o divieti ( parametri di commerciabilità edibilità
,potabilità) né la tesi secondo cui la prova dell’avvelenamento deriverebbe
dalla presenza della sostanza nell’alimento .
La anticipazione di
tutela che le due fattispecie realizzano , seppure in modo diverso, secondo il dato letterale, non può
prescindere comunque dal concetto di pericolosità, per cui in entrambi i casi è necessario accertare la
presenza del dato reale di pericolosità.
Ciò che l’accusa non
ha adeguatamente valutato , non considerando le caratteristiche qualitative
quantitative della presenza di inquinanti effettivamente rilevate in
traccia nel biota vivente sul sedimento dei canali dell’area industriale, sotto
il profilo della loro attitudine a farsi causa iniziante di pur minimi effetti
avversi alla salute.
Ed il tribunale ha invece verificato che le classi di esposizione
derivanti dalla assunzione tramite la dieta del biota in questione sono
distanti ordini di grandezza da quelle capaci di produrre u n qualsivoglia
effetto avverso osservato o comunque
sperimentato
E tale soglia rappresenta quella del pericolo
reale che si riscontrerebbe nel caso che il dato oggettivo considerato
risultasse sussumibili sotto la classe di quelli capaci di produrre effetti
avversi per l’uomo.
Da tale ipotesi invece le tesi accusatorie
hanno inteso prescinderne
Le differente formulazione delle due norme per cui solo nel caso di
adulterazione si richiede che si
verifichi un pericolo per la salute pubblica, si spiega rilevando che mentre il
concetto di avvelenamento denota in sé una situazione manifestamente pericolosa ,le categorie di adulterazione o
corrompimento sono neutre rispetto alla
probabilità di verificazione di un evento di danno.
Ne consegue che il legislatore risulta avere
voluto sanzionare espressamente non qualsiasi adulterazione ma solo quelle che
comportino una pericolosità per la
salute pubblica delle risorse alimentari.
La anticipazione della tutela non esenta
comunque l’interprete dall’accertamento della
intrinseca idoneità delle classi di esposizione rilevanti nel caso particolare
a porre in pericolo effettivo l’incolumità delle persone
Ne consegue che il
gradiente di concentrazione di sostanze
presenti nel biota vivente in aree non inquinate rispetto a quello vivente nell’area industriale non significa di per
sé avvelenamento o adulterazione pericolosa.
Anche la dove la norma non menziona il pericolo, non può ritenersi sufficiente
un pericolo solo congetturale , essendo
le condotte criminose configurabili solo in presenza di un pericolo reale in astratto od in concreto, a seconda
della collocazione che il pericolo assume nella struttura della fattispecie .
Ciò avviene sempre
ove la legge impiega termini cosi pregnanti quali disastro ,avvelenamento o
simili.
Ritiene quindi il Tribunale che siano invero
condivisibili le premesse dell’accusa
secondo cui nel caso di avvelenamento, a differenza di quanto avviene per l’adulterazione , dove è espressamente
indicato il requisito della idoneità a ledere , il pericolo è astratto
avendo il legislatore adottato il criterio della presunzione di
pericolosità. , non è invece
condivisibile la affermazione della accusa secondo cui la semplice
presenza e la natura pericolosa di una
sostanza inquinante negli alimenti basterebbe a configurare la consumazione del
reato di cui all’art 439 c.p. né è condivisibile la tesi secondo cui, trattandosi di pericolo astratto o presunto, esso potrebbe
essere presente anche in classi di
esposizione lontane e molto inferiori rispetto a quelle che sono ritenute tali
da fondare giudizi di idoneità lesiva.
Secondo questa tesi –non condivisibile - ad
integrare gli estremi dell’avvelenamento del biota lagunare sarebbe necessaria e sufficiente la mera
presenza di una o più sostanze tossiche nell’alimento.
Non può infatti pur in presenza di una norma che configuri come elemento costitutivo del reato il pericolo astratto , prescindersi dalla verifica della realtà del
pericolo, non essendo ammissibili
valutazioni disancorate dal sapere scientifico e poiché il pericolo è requisito della fattispecie
non esiste soluzione interpretativa che legittimi altre soluzioni certamente
infondate
Si ripete
quindi che non è condivisibile una tesi che prescinda dalla verifica
della situazione di pericolo reale e
che di conseguenza il delitto di
l’avvelenamento avrebbe potuto
ritenersi provato solo nel caso in cui
fosse risultato superato il valore soglia , ed poi determinate le classi
di esposizione al livello delle quali è possibile ritenersi il prodursi di
effetti avversi e determinato il
confronto tra queste e quelle suscettibili di derivare tramite la dieta
costituita dal biota si fosse dimostrato che queste corrispondevano a quelle.
L’accusa si è
limitata a fare il confronto con il TDI (DGA) di riferimento,ma all’esito delle
prove ed a maggiore ragione dopo le
analisi di Berlino risulta essere
provato che per tutte le sostanze di interesse processuale ,le esposizioni
suscettibili di derivare tramite la
dieta costituita dal biota di provenienza dall’area industriale non superano i
valori soglia di riferimento
Neppure è condivisibile la tesi proposta
dalla avvocatura dello Stato -con riferimento all’accertamento del pericolo
concreto tipico della adulterazione -
secondo cui, premessa la legittimazione a fondare il giudizio di pericolo
anche su altri indici, nel caso
specifico di adulterazione delle acque destinate alla alimentazione , il giudizio
di pericolo potrebbe essere fatto assumendo come parametro di riferimento la
disciplina normativa relativa alla loro
potabilità in particolare il D. P .R
24-5-1988 n 236 –art 21- la dove la norma assume la rilevanza di “conseguenze
per la salubrità del prodotto
alimentare finito”
Per quanto riguarda la concreta pericolosità
delle sostanze alimentari per la salute – vongole - il riferimento sarebbe al
D.L. 30-12-1992 n 530 legge attuativa della direttiva 91/492/CEE che stabilisce
le norme sanitarie applicabili alla produzione e alla commercializzazione
dei molluschi bivalvi vivi per il
consumo umano- determinando parametri
di qualità del prodotto: edibilità e
commerciabilità.
Tesi anche questa non condivisibile in base
al principio secondo cui se è vero che
la attitudine di una sostanza alimentare
a recare nocumento alla salute
può essere provata con ogni mezzo consentito è altrettanto vero che non può essere arbitrariamente ritenuta
Nei delitti contro
l’incolumità pubblica il pericolo è un
requisito fondato sempre comunque su un giudizio di idoneità della condotta e
ledere che è cosa diversa dal pericolo
immanente alla violazione di regole comportamentali previste da leggi speciali
,la cui violazione è sanzionata come contravvenzione o illecito amministrativo
,quand’anche finalizzate alla tutela dalla salute.
Nei delitti contro l’incolumità pubblica il
codice penale distingue da contingenze tutte
diverse, situazioni razionalmente ritenute passibili di più severa
sanzione ,stante la differente offensività della condotta tipica .
Va comunque ribadito che per gli inquinanti
di interesse processuale risulta essere
provata la riconducibilità delle
concentrazioni presenti nel biota di provenienza dall’area industriale sotto la
classe di quelle non vietate dalla legge speciale e ciò per taluni tipi di contaminanti risulta essere stato
accertato proprio alla stregua delle
previsioni di cui al D Lvo 30-12-1992 n 530 che stabilisce norme sanitarie
applicabili alla produzione e alla commercializzazione dei molluschi bivalvi vivi
(edibilità)
Tali normative attengono comunque al tema
delle edibilità che è cosa diversa dall’avvelenamento e/o adulterazione nel senso che, quand’anche fosse stata
accertata la non edibilità del biota di provenienza dall’area industriale, il
problema dell’avvelenamento e o
dell’adulterazione non sarebbe stato comunque risolto sul piano probatorio.
Per altri contaminanti è stata accertata la
distanza notevole che separa dai valori soglia le dosi di assunzione di prodotti provenienti dalla zona in
questione e per le diossine è stato egualmente accertato che non risultano
superati i parametri che costituiscono espressione e misura del principio di
precauzione
Entrambi i parametri non distinguono comunque
ciò che è avvelenato o adulterato da ciò che non lo è , se anche fosse stato accertato il superamento dei valori soglia
o dei limiti di edibilità –talora coincidenti- si sarebbe accertata la
violazione della particolare disciplina , che non sarebbe stata però
apprezzabile di per sé come indice di reali pericoli alimentari o come prova
di avvelenamento o adulterazione
pericolosa.
Pertanto la tesi
della avvocatura dello stato non può essere condivisa , a prescindere dal fatto che in concreto
neppure risultano essere state violate leggi speciali. Va pertanto criticato il
programma probatorio della accusa che
non attribuisce alcun rilievo al
problema della definizione del livello di esposizione a cui la ricerca scientifica associa effetti avversi.
Coerentemente ad una ipotesi interpretativa
eccessiva l’accusa non assume e non
rende informazione adeguata sulla caratterizzazione del rischio reale derivante dalla esposizione tramite la dieta
agli inquinanti di interesse processuale.
Coerentemente ad una ipotesi interpretativa
che opera una indebita retrocessione del pericolo tipico dell’avvelenamento
e della adulterazione a parametri
normativamente tipizzati o
tipizzati da agenzie regolatorie -che
sono espressione del principio di precauzione ma non misura della idoneità a ledere
l’accusa si è limitata a proporre
l’uso di quei parametri , facendone peraltro malgoverno sia con riferimento ai dati di consumo sia
con riferimento ai dati di concentrazione.
Nessuna allegazione od informazione è
stata data dall’accusa in ordine
alle valutazioni di correlazione tra dosi ed effetti avversi, inesistente è
l’analisi di dati clinici ,epidemiologici
tossicologici pertinenti alla esposizione e ciò come conseguenza
coerente al programma di prova messo in atto
dalla accusa basato sulla proposizione
chiave – errata in diritto –secondo cui i parametri normativamente tipizzati o
tipizzati dalla agenzie regolatorie- espressione solo del principio di precauzione e non della misura di effettiva
idoneità a ledere -distinguono ciò che è avvelenato da ciò che non lo è ciò che è realmente pericoloso da ciò che
adulterato non è
Per tali motivi deve escludersi la
sussistenza dei reati di avvelenamento
e adulterazione pericolosa per la
incolumità pubblica.
Individuazione delle
classi di dosi capaci di produrre il
tipo di effetti osservati gli effetti cancerogeni
Insussistenza di tale rischio nello scenario
delineato in imputazione
Brevi cenni alla distanza di ordini di grandezze da
quelle di interesse processuale
Premesso che si è discusso degli effetti cancerogeni suscettibili di derivare in capo al
consumatore dalla assunzione di biota
di provenienza dall’ara industriale tramite la dieta e che si verificata la complessità delle relazioni intercorrenti tra esposizione
,suscettibilità genetica e cancro,va anche chiarito che non sono questi i
termini di contraddizione che hanno opposto accusa e difesa nel processo.
Di fatto la discussione relativa alla
sussistenza dei reati di avvelenamento e adulterazione ha avuto riguardo alla verifica
del superamento o meno dei parametri
tipici della tutela anticipata- DGA – e su questo terreno l’accusa è
stata smentita perché è stato
dimostrato che i parametri pertinenti
alla tutela più anticipata non sono stati superati
E di conseguenza certo che ai livelli di
esposizione di cui può parlarsi in questo procedimento e comunque
nello scenario delineato dall’imputazione, non c’è spazio per un pericolo reale e ciò perché tutti gli studi che documentano
effetti osservati trattano di esposizioni che sono ordini di grandezza più elevate di quelle di cui si è
discusso.
Gli esperti delle difese discutono per
sintesi le evidenze emergenti per ciascun tipo di sostanza di interesse
processuale da studi epidemiologici
,riportando le valutazioni di cancerogenità effettuate dall’IARC
Gli esperti tale istituzione esaminano la
letteratura disponibile sulla sostanza allo studio e alla luce delle
letteratura esaminata l’istituto esprime un giudizio generale di cancerogenità, separatamente per
gli animali e per l’uomo formato da quattro categorie cosi identificate
Evidenza sufficiente quando si ritiene che
esista una relazione tra esposizione e insorgenza di tumore.
Evidenza limitata: quando si ritiene che
esista la relazione di cui sopra ma che anche l’azione di altri fattori ( caso ,distorsione o confondimento) non
possa essere ragionevolmente esclusa.
Evidenza inadeguata :quando si ritiene che non sia possibile in base agli studi
esistenti raggiungere una conclusione sulla presenza o meno di effetti
cancerogeni, oppure non ci siano studi disponibili.
Evidenza che
suggerisce la mancanza di cancerogenità
Queste 4
categorie ammettono poi delle specificazioni per quanto riguarda gli
animali e vengono quindi presi in
considerazione per la valutazione anche altri dati, eventualmente disponibili,
quali ad esempio la caratteristiche anatomo - patologiche, effetti genetici,
metabolismo,farmacocinesi, meccanismi di cancerogenesi.
Effettuata la valutazione complessiva le
sostanze vengono quindi classificate in
5 gruppi
Gruppo 1 : la sostanze è cancerogena per
l’uomo ciò avviene quando vi e evidenza sufficiente nell’uomo
Gruppo 2 A : la sostanza è probabilmente
cancerogena per l’uomo, ciò avviene quando vi è evidenza limitata
nell’uomo e sufficiente nell’animale
Gruppo 2 B: la sostanza e possibilmente
cancerogena per l’uomo e ciò avviene quando vi è evidenza limitata nell’uomo e
meno che sufficiente nell’animale
Gruppo 3: la sostanza non è classificabile quanto a cancerogenità per
l’uomo e ciò avviene quando vi è evidenza inadeguata nell’uomo ed evidenza inadeguata limitata
nell’animale
Gruppo 4: la sostanza è probabilmente non
cancerogena per l’uomo
Premette quindi il Tribunale che la
valutazione dell’IARC è esclusivamente qualitativa e non affronta mai il problema della dosi ,non interessando all’istituto rendere giudizi sulla idoneità
a ledere di una classe di esposizione rispetto all’altra .
Chiarisce poi ancora il Tribunale con
riferimento alla predette classificazioni come il significato del gruppo 3 che
richiede evidenza inadeguata nell’uomo e evidenza limitata o inadeguata
nell’animale si riferisca per quanto riguarda il termine inadeguata a due
ipotesi :
che gli studi disponibili non permettano
di esprimere conclusioni sulla presenza o meno di effetti cancerogeni;
che non ci siano studi disponibili
E altresì
evidente come la assenza di studi non possa significare che se ci fossero gli
esiti dimostrerebbero la presenza di effetti cancerogeni.
Nella sentenza
segue a questo punto la esposizione di un quadro riassuntivo delle valutazione
dell’IARC pertinenti alla cancerogenità delle sostanze di interesse
processuale.
Diossine
Tutte
le diossine ,al di fuori della diossina per antonomasia (2,3,7,8 TCDD-
tetraclorodibenzo diossina) che è sicuramente cancerogena e a cui ci si riferisce quando si parla di diossina al singolare , mentre quando si usa il termine al plurale ci si
riferisce ai PCDD, sono risultate non classificabili sotto il profilo
della cancerogenità per l’uomo
(gruppo3)
( per diossine
simili –dioxine like si definiscono
invece i PCDF e i PCB e se ne parlerà dopo).
Sulla base degli
studi eseguiti sia su casi in cui
l’esposizione è avvenuta in forma diretta sia su casi in cui l’esposizione è
invece avvenuta in maniera indiretta ,
le conclusioni sono che complessivamente : la 2,3,7,8 –TCDD e ritenuta
cancerogena le altre diossine – nulla viene proposto per quanto riguarda le
OCDD/F di cui si discusso in termini di impronta – non sono classificabili quanto alla loro cancerogenità per l’uomo.
Rileva l’ente nel 1997 che “ la mancanza di un precedente non può escludere la
possibilità che la diossina ad alte dosi possano agire come cancerogeno per
molti siti
Da tale giudizio prudente che riguarda alte
dosi non possono trarsi giudizi
relativi ad esposizioni a basse dosi e
a sostanze di natura diversa.
Va in
particolare evidenziato come il giudizio del IARC sia relativizzato a ad
esposizioni ad alte dosi
Per quanto poi riguarda la entità della esposizione è lo stesso
ente che dichiara che si tratta di studi su casi in cui la esposizione è stata
molto più alta di quella riscontrabile
nella popolazione in generale, e
l’esposizione derivante dalla
assunzione della dieta con il biota proveniente dall’area industriale è sicuramente equiparabile a quella della
popolazione in generale.
Ed è invero lo stesso esperto dell’accusa a
dichiarare che tutte le concentrazioni di diossine rinvenute nel biota lagunare
sono di fatto propriamente confrontabili con i livelli frequentemente
riscontrati sotto l’influenza di un
impatto antropico diretto da moderato a trascurabile
Anche altri studi effettuati per conto di
enti pubblici sono arrivati conclusioni
incompatibili con il dato di esposizioni anomale .
Ed in altro
studio presentato al convegno Dioxin 99 si afferma che l’esposizione alle
diossine per via alimentare della popolazione veneziana si pone ai livelli più bassi dei valori di
esposizione delle popolazione europee
L’esperto della difesa ha anche evidenziato che gli attuali livelli di
esposizione delle popolazioni umane (
2-3- n g /kg )sono ordini di grandezza
inferiori rispetto a quelli osservati negli studi sperimentali e nelle
corti lavorative oggetto di valutazione da parte dell’IARC.
Premesso che le
diossine che interessano sono gli OCDD che poco hanno a che fare con la TCDD si osserva come non esiste alcuna fonte , nessun studio
epidemiologico in letteratura che
segnali effetti sulla salute e che
anche facendo riferimento alla tossicità di questo prodotto si rileva
come fosse di un millesimo rispetto a
quella del TCDD e come sia stata abbassata ad un decimillesimo .
Premesso che con questo termine si
definiscono i PCDF e i PCB osserva il Tribunale come per l’IARC i PCDF risultino essere non
classificabili sotto il profilo della cancerogenità (Gruppo 3)
Diversamente per
i PCB (Policlorobifenili) partendo da
una evidenza limitata per l’uomo e da una evidenza sufficiente per l’animale l’
IARC in tre successive valutazioni – eseguite rispettivamente nel 1974 ,1978,1987 classifica la sostanza tra i probabili cancerogeni per
l’uomo (gruppo 2 a)
Alla valutazione dei PCDF come non
classificabili l’IARC è pervenuto rilevando che vi una evidenza inadeguata per
l’uomo, una evidenza limitata o
inadeguata negli animali
Nulla viene rilevato negli studi IARC sugli
OCDF e cioè su quei congeneri per cui si è molto discusso in termini di
impronta del cloro.
Considerazione analoghe a quelle evidenziate
per le diossine valgono quanto al livello di esposizione delle popolazioni
osservate
Anche per gli OCDF non esiste alcun informazione epidemiologico che ne
abbia rilevato gli effetti cancerogeni
Anche per questo
congenere la tossicità confrontata con quella
della diossina è stata ridotta da un millesimo ad un decimillesimo ed anche in
questo caso no si tratta comunque di effetti cancerogeni
Per quanto
riguarda i PCB –poli cloro bifenili- premesso che non esistono valutazioni recenti
per quanto riguarda la loro cancerogenità l’IARC risulta averne fatto 3
valutazioni : la prima nel 1974 senza esprimere alcun valutazione in mancanza
di studi epidemiologici, la seconda nel
1978 in cui era risultata una evidenza
sperimentale sugli animali di effetti
cancerogeni di alcuni bifenili
policlorurati ed evidenza suggestiva di
una relazione tra esposizione PCB e sviluppo di melanoma maligno , la terza nel
1987 dove sulla base di una evidenza
limitata nell’uomo ed una evidenza
sufficiente sugli animali si era concluso che i PCB sono probabili
cancerogeni per l’uomo.
I tumori che interessano gli animali sono
quasi esclusivamente i tumori al
fegato.
Dopo la
valutazione IARC nel 1987 sono stati fatti cinque studi epidemiologici condotti su coorti di lavoratori esposti
professionalmente a PCB e gli esiti di
questi studi rendono difficile e problematica la espressione di un giudizio.
Due studi hanno
fornito risultati negativi.
Un terzo lavoro
ha segnalato un eccesso di melanoma
Un quarto ha
segnalato un eccesso di melanoma e di tumori al cervello
Un quinto studio
ha segnalato un eccesso di tumori al pancreas
Due ulteriori
studi hanno segnalato il primo un eccesso di linfomi non Hodgkin ,un secondo un
eccesso di mieloma multiplo e di melanoma in coorti di pescatori del Mar
Baltico.
Nessuno degli studi effettuati ha invece
segnalato tumori al fegato.
Conclusivamente
gli esiti degli esperimenti sugli animali riguardano quasi esclusivamente
l’insorgenza di tumori al fegato ,mentre gli studi epidemiologici ,quando
segnalano eccesso evidenziano sedi diversa dal fegato ed in particolare
melanoma o sistema linfoemopoietico.
Gli studi più recenti diretti ad accertare effetti cancerogeni dei DDT avrebbero portato invece ad evidenziare una
relazione tra PCB e linfoma non
hodgkin.
Gli stessi autori dello studio sono però
molto cauti nella loro valutazione per
la quale evidenziano la necessità di ulteriori
approfondimenti e di conseguenza anche il Tribunale non è in grado di
valutare le sopravvenienze rispetto alle conclusione IARC 1987 quando le conclusione erano nei
termini di una evidenza limitata mentre
studi successivi segnalano in alcuni casi assenza di evidenza in altri evidenza
di effetti
Stabilire
comunque quali delle conclusioni sia preferibile non interessa il giudizio del
tribunale atteso che tutti gli studi
hanno riguardo ad esposizioni con
seguenti a gravi episodi di
intossicazione alimentare o ad episodi di esposizione professionale stimate ordini di grandezza molto più
elevati di quelli propri dei gruppi di confronto
Quanto invece ai livelli di esposizione della
popolazione veneziana ai PCB basterà
ricordare quanto affermato dal consulente dell’accusa secondo cui i livelli riscontrati nel pescato lagunare
sono confrontabili con quelli riscontrabili in aree marine oceaniche.
Risulta comunque dirimente il fatto che sia
per le diossine come per le diossine simili considerati i valori di concentrazione riscontrati
a Berlino nel biota di provenienza dall’area industriale , anche per un forte consumatore il margine
di sicurezza anche quello più basso è
notevole, e che in ogni caso i margini di sicurezza ,con riferimento ai
parametri sopraindicati , secondo la tabella
di esposizione riportata nelle relazioni del consulente della
difesa, risultano per il consumatore
medio da 54 a 215 volte e per il
consumatore forte da 7 a 28 volte.
Ed ancora veniva
rilevato come le esposizioni considerate nella economia di giudizi sulla
cancerogenità delle sostanze allo studio sono ordini di grandezza(centinaia se
non migliaia di volte ) più elevate di quelle di interesse processuale e che
gli effetti cancerogeni in sede
epidemiologica si riscontrano a livello
di esposizioni non confrontabili e non paragonabile a quelle in discussione
L’IARC ha trattato la cancerogenità della
esposizione agli IPA per la prima volta nel 1973 ed in epoca più recente altre
monografie hanno aggiornato la
valutazione della cancerogenità degli IPA
sia con riferimento alle specifiche sostanze chimiche sia con riferimento alle
miscele nel 1983 3 nel 1987.
L’esposizione agli IPA interessante l’uomo si caratterizza rispetto
ad altre perché avviene solitamente attraverso miscele o composti ( fuliggine
nero di carbone nerofumo catrame carbone fossile, pece oli minerali ,fumo di
sigaretta ,fumo di scarico dei
motori,bitumi ,tutti i composti che
contengono una delle indicate sostanze) e pertanto scarsa è l’informazione
epidemiologica pertinente alle
esposizioni alla singole sostanze,
avvenendo esclusivamente su base sperimentale(animali), mentre esiste quella relativa ai
composti o miscele.
Essendo le sostanze molte ,alcuni studiosi
assumono come significative delle caratteristiche del gruppo ,quelle proprie di una sostanza.
La più studiata e il benzo(a) pirene
Con riferimento alle sostanze di interesse
processuale si rileva che appartengono al catalogo delle più note nella classe IPA
Alcune di esse sono classificate dall’IARC nel gruppo 2A come probabilmente cancerogene per l’uomo e ne segue elenco
Altre sono invece classificate nel gruppo 2B
come possibile cancerogeno per l’uomo
ne segue egualmente l’ elenco
Altre sono
inserite nel gruppo 3 come non
classificabili : cosi il dibenzo(ae) fluorantene
Deve comunque
evidenziarsi che la gran parte delle sostanze in sé considerate non sono state
esaminate e che per nessuna delle sostanze nominate esistono studi
epidemiologici importanti e che qualche
informazione esiste solo per il benzo(a) pirene.
La evidenza che riguarda l’uomo è considerata limitata o inadeguata a
seconda che tali sostanze possano dirsi
presenti o meno in miscele giudicate cancerogene
Esempio il benzoantracene è ritenuto
cancerogeno perché il catrame di carbone
in cui è contenuto è cancerogeno
ma non si sa se la cancerogenità del catrame di carbone dipenda dal benzoantracene.
Dalla valutazione delle miscele non è
comunque possibile trarre valutazioni certe sui singoli componenti
Nel 1983 l’IARC ha valutato come cancerogeno :
il fumo di
tabacco in relazione al quale sono segnalate evidenze epidemiologiche in
diverse sedi
l’inquinamento dell’aria che si evidenzia
come causa efficiente dell’insorgenza di tumori respiratori
E in tale
contesto relativamente allo studio
Iarc 83 vanno fatte due considerazione
rilevanti:
non vi è evidenza epidemiologica che dimostri
come l’ingestione di cibi contenenti tracce di IPA determini apprezzabili
aumenti di rischio di cancro per l’uomo
benché non vi siano studi che evidenziano un
nesso tra esposizione ad IPA e tumori ,vi sono numerosi studi che evidenziano
aumenti di rischio per tumori della pelle e dello scroto in seguito ad
esposizione a fuliggine catrame e oli
minerali e per tumori al polmone a
seguito di esposizione a gas di carbone
ed emissione da forni di cokeria.
e piche tutti questi composti contengono IPA
si pone il problema del loro contributo alla cancerogenesi ,problema non
risolto per i singoli composti appartenenti alle classi IPA
Nel 1987
l’IARC ha valutato la cancerogenità delle miscele o dei singoli composti ,
distinguendo le varie classi da cancerogeno a probabilmente cancerogeno
a possibilmente cancerogeno a non
classificabile come cancerogeno,ne segue
un elenco sia delle miscele come
dei singoli composti, distinti a
secondo del gruppo di appartenenza e
gli effetti cancerogeni osservati hanno riguardate prevalentemente polmone e
vescica.
Secondo il quadro di riferimento riportato
negli studi IARC, risulta presente a
Marghera ,delle sostanze o miscele di
cui è stata valutata la cancerogenità , solo il nerofumo e tale sostanza è stata classificato nel
gruppo 3 stante la evidenza inadeguata di cancerogenità per l’uomo .
Nessuna delle sostanze o miscele contenenti
IPA, appartenenti al gruppo 1, ha invece a che fare con le produzioni di
interesse processuale.
Va da ultimo evidenziato come le
concentrazioni di IPA nei campioni di
vongole provenienti dai canali
industriali accertate a Berlino
risultino ventidue volte inferiori a quelli proposti dal CT Raccanelli e che i
valori rilevati si collocano a livelli confrontabili con quelli presenti nei
prodotti ittici normalmente edibili e
commerciabili
IL tribunale espone quindi nella sentenza i
risultati degli studi epidemiologici fatti anche per i metalli –mercurio e
piombo - per l’esaclorobenzene per
l’esaclorobutadiene ed anche per
queste sostanze valgono conclusivamente considerazioni analoghe a quelle svolte
per gli altri prodotti inquinanti.
Conclusivamente osserva il tribunale come
per tutte le sostanze di interesse processuale o non sono stati osservati effetti cancerogeni o lo sono stati a
livelli di esposizione ,ordini di grandezza, molto più elevate rispetto a
quelle presenti nei luoghi del processo.
Le dosi di assunzione derivanti dal consumo
delle vongole rimangono al di
sotto della classe di dosi capaci di
superare il limite soglia .
Esiti del confronto tra le classi di dosi cui l’osservazione
sperimentale sugli animali associa effetti cancerogeni con le dosi di
assunzione rilevanti nel processo
Per quanto riguarda le diossine risulta che la misura della esposizione è in (TEQ) dell’ordine di 0,19 p g/kg/die
quindi di un consumo massimo di 0,019 p g/KG/DIE di TCDD
La dose cancerogena per gli animali è di
oltre 5milioni di volte superiore alla dose ipotetica di assunzione ,esagerata
per eccesso.
.Per quanto
riguarda i 17 congeneri la dose cancerogena è circa 2 milioni di volte
superiore alla dose ipotetica di assunzione.
Viene quindi fatta seguire una esposizione analitica per ciascun inquinante degli esiti del confronto da cui risulta per ciascun inquinante la
rilevantissima differenza – da 100.000
a diciotto milioni di volte -tra le dosi di esposizione , derivanti dal consumo del biota della zona industriale e quelle a cui
viene associato un effetto cancerogeno
.
Tenuto conto del quadro di riferimento il tribunale accerta conclusivamente che gli effetti cancerogeni
osservati in sede sperimentale su animale si producono a livelli di classi di dose superiore ordini
di grandezza ( centinaia di migliaia di volte solo in qualche caso decine di
miglia di volte) rispetto a quelle
interessanti in questa sede e suscettibili di derivare dalla assunzione tramite
la dieta ,di biota di provenienza dall’area industriale.
Di conseguenza
deve escludersi la sussistenza di pericolosità con riguardo agli effetti
cancerogeni per classi di esposizione interessanti questa sede e ciò sia
facendo riferimento alle dosi di esposizione
accertate dalla difesa come a quelle
pur erronee indicate dalla accusa .
E gli esiti delle indagini svolte in questa
sede convergono con quelli risultanti da altre fonti in cui non è stato accertato alcun aumento di rischio nella
popolazione della laguna e delle isole
rispetto a quella della terraferma.
In
definitiva le concentrazioni di sostanze inquinanti rilevate nel biota
di provenienza dell’area industriale sono largamente inidonee , sicuramente inidonee pure solo a porre il problema della
produzione di effetti avversi come effetti cancerogeni
5.23Gli effetti non cancerogeni
Insussistenza
di tale rischio nello scenario di imputazione
Brevi cenni
alla distanza ordini di grandezze da quelle di interesse processuale
Infondatezza manifesta delle tesi di accusa sulla
inadeguatezza del limite OMS 1998 a
garantire la necessità di proteggere i soggetti deboli
Osserva il tribunale come le concentrazioni di sostanze
inquinanti siano largamente inidonee a
porre il problema della produzione di
effetti avversi per la salute, anche per quello che riguarda effetti non
cancerogeni.
Per quel che
riguarda lo specifico delle diossine i
rapporti tra i livelli più bassi di esposizione, in grado di produrre effetti osservati o comunque noti e, i
livelli di esposizione pertinenti al processo
variano a seconda del tipo di effetti considerati ,da un mimino di tre a
un massimo di sei ordini di grandezza.
Questa misura-che separa le due dosi -è stata
determinata , tenendo prudenzialmente conto del fatto che sia la Commissione
Europea (2000) sia l’OMS(1998) specificano che gli effetti tossici rilevati in
sede sperimentale sono stati prodotti
da somministrazioni di 2,3,7,8 TCDD ( la diossina più tossica) e non dalle sostanze inquinanti di interesse
processuale e tenendo conto altresì del fatto che sommare ,secondo fattori di conversione di tossicità equivalente, la tossicità del PCB a quella del
TCDD è cosa conforme alla
convenzioni tipiche dei procedimenti regolatori piuttosto che a regole
scientifiche.
E seguendo
questi criteri prudenziali la Commissione europea e l’ OMS hanno concluso nel senso che il livello più basso
a cui potrebbero verificarsi effetti
avversi non cancerogeni è distante non
meno di dieci volte dal TDI di
riferimento (1-4 pg Teq KG. p c.die).
Tale fattore di
sicurezza 10 è applicato tenendo conto
della esposizione suscettibile di
derivare da tutto il complesso degli alimenti costitutivi delle dieta
e ,con riferimento ai livelli di esposizione relativi ai forti
consumatori , varia da un minimo di tre ad un massimo di sei ordini di
grandezze.
Accertato
che per tutti i metalli non risultano superati
i livelli di concentrazione, previsti dalle norme relative alla produzione
e commercializzazione dei molluschi bivalvi vivi, l’accusa si è
concentrata sulla rilevanza del
problema dei valori di concentrazione pertinenti ad altri inquinanti
Ed accertato che anche per gli altri
inquinanti i valori di concentrazione
sono valori normali e che comunque non superano i valori soglia ,il
discorso della accusa ha finito per
concentrarsi sulla questione dell’effettivo margine di protezione suscettibile
di derivare dal rispetto del TDI per i consumatori più deboli ( neonati ,donne in gravidanza e in lattazione anziani ,persone in cattivo stato di salute
etc ) , ipotizzando in tesi di accusa che possano derivare effetti nocivi dalla
diossine e dai furani anche se assunti in dosi compatibili con i valori limiti
di soglia di riferimento.
Il Tribunale
ritiene infondata la tesi accusatoria ,sostenuta anche da Greeenpeace , che
ignora e rimuove il problema della definizione delle classi di esposizione che possono produrre gli effetti avversi .
E sul punto si ricorda
che anche il principio di precauzione
fa riferimento a dei limiti di assunzione delle sostanze , assumendo in
funzione della finalità protettiva
misure che sono ordini di grandezze
lontano dalla dose la cui
assunzione non provoca effetti tossici sugli animali più sensibili e misure
ancora più distanti da quelle che sarebbe pensabile essere idoneo a
provocare minimi effetti indesiderati nell’uomo.
Tutti gli effetti tossici non cancerogeni riscontrati
negli esperimenti sugli animali , sono
stati verificati dopo somministrazione ad alte dosi non confrontabili con
quelle di cui al processo
Partendo dalle sperimentazioni sugli animali sono state fatte due
estrapolazioni :
1) una relativa
alla valutazione del rischio per la animale esposto a basse dosi;
2) l’altra
qualitativa e quantitativa relativa al
trasferimento del dato animale sull’uomo.
Va poi aggiunto che tutte le sperimentazioni
sono state fatte utilizzando la 2,3,7,8 TCDD pura.
Considerato
quindi che lo scopo della indagine è quello di trovare una dose sicura per
l’uomo l’aspetto più problematico è evidentemente quello della estrapolazione dall’animale all’uomo .
La prima tappa è quella dell’accertamento del NOAEL ,dose di
sostanza priva di effetti tossici,
determinata partendo dalla
sperimentazione sull’animale e apportandovi
correzione mediante fattori di sicurezza che tengono conto di valutazione etiche e politiche.
Ed anche nella economia del procedimento
regolatorio seguito dalla OMS e dalla
Commissione Europea il perturbamento dello stato di benessere dei soggetti più
deboli risulta essere stato valutato in modo approfondito ,coerentemente con le
finalità delle predette istituzioni di definire la misura della precauzione,
determinando valori soglia
ultraprudenziali , tenendo conto anche
delle fasce di popolazione più sensibile.
E la definizione
della soglia accettabile, cioè sicura e adeguata alla necessità di protezione
della salute di tutta la popolazione ,compresi le donne gravide e in lattazione
, è stata come gia detto determinata a dosi
10 volte inferiori a quelle che comunque non sono in grado di produrre
gli effetti menzionati.
Ne consegue che le tesi di accusa,secondo cui
non può escludersi che effetti tossici non cancerogeni possano derivare da esposizione a diossine
e furani anche a livelli
compatibili con i limiti soglia sono infondate
5.24
Esiti in materia di avvelenamento e/o di adulterazione pericolosa
Ritiene
conclusivamente il tribunale che la tesi accusatoria ,relativa alla sussistenza
di pericoli alimentari tipici del delitto di avvelenamento e del delitto di
adulterazione deve essere ritenuta infondata in fatto (più di quanto non siano
erronee le premesse interpretative in diritto)
La prova della insussistenza del fatto ,consegue
non a ragione della insufficienza probatoria
ma in base alla esistenza di prove adeguate acquisite a seguito di un completo lavoro istruttorio , non
essendo le classi di esposizione derivanti dalla assunzione dei prodotti
ittici provenienti dai canali dell’area industriale sussumibili sotto le classi
di esposizione in relazione alle quale
è possibile fondare giudizi di pericolo.
Il Tribunale ha verificato che le caratteristiche qualitative e
quantitative degli inquinanti rilevati in traccia nel biota dei sedimenti della zona industriale non permettono di ritenerne la loro
attitudine a farsi causa di effetti avversi alla salute; che le classi di esposizione
derivanti dalla assunzione tramite
la dieta del biota in questione sono distanti ordini di grandezza da
quelle capaci di produrre effetti negativi osservati o sperimentati.
Accertata la
carenza dei presupposti del pericolo ,accertata la inidoneità delle classi di
esposizione pertinenti alle concentrazioni di inquinanti rilevati in traccia nel biota vivente nel sedimento dell’area
industriale a provocare danno alla salute , accertato che, nello scenario del
processo , le classi di concentrazione degli inquinanti non appartengono a classi di concentrazioni anomale, verificato il mancato superamento
dei valori soglia e dei parametri di
protezione alimentare che applicano il principio di precauzione ,è
dato ritenere l’insussistenza dei fatti contestati .
Va ancora
osservato che, secondo l’accusa, il reato di disastro innominato ed il supposto pericolo per l’incolumità
pubblica conseguirebbe agli effetti sul biota dell’inquinamento dei
sedimenti dei canali, con la
conseguenza che la mancata prova della asserita pericolosità della ittiofauna
costituisce a maggior ragione prova del
fatto che nessun pericolo per la salute pubblica può essere anche solo astrattamente ricollegato alle supposte cause mediate , cioè all’inquinamento
dei sedimenti.
La assoluzione è altresì coerente alla
evidenza probatoria che non consente di
individuare nel catabolismo del
Petrolchimico la matrice della contaminazione del sedimento dei canali
dell’area industriale indistintamente
considerata.
Agli imputati
non è neppure possibile riferire l’inquinamento del Canale Lusore Brentelle
–sicuramente prodotto dal catabolismo del Petrolchimico – e degli ambiti
adiacenti ,per avere l’accusa
trascurato la necessità di una indagine relativa alla datazione dell’inquinamento al fine di
accertarne l’apporto dei singoli
gestori, in definitiva ,per essere stato trascurato il problema delle rilevanza causale della singole condotte degli
imputati.
Comunque anche gli addebiti di colpa ,in sé
considerati, risultano infondati in fatto e in
diritto e pertanto l’accusa nel
suo complesso è infondata.
III parte -appello del
PM
Capitolo 3.5
Erronea
contraddittoria ed illogica esclusione
del reato di avvelenamento colposo
Premessa la
distinzione teorica tra reati di pericolo concreto , reati di pericolo astratto
e reati di pericolo presunto - basata sulla
esistenza per i primi della prova
concreta del pericolo per il bene protetto e per i secondi invece della
prova della sola condotta ritenuta dal legislatore in sé pericolosa -osserva il P.M come, per dimostrare la
sussistenza del reato di cui all’art 439 c.p, si debba provare che le acque o
le sostanze alimentari sono state
avvelenate ,cioè contaminate da sostanze tossiche, anche non letali ,in
concentrazioni tali da potere comunque danneggiare l’organismo umano, mentre non è necessario provare l’effettivo
cioè concreto verificarsi del pericolo.
Ed è incontroverso che non la presunzione
legale di un pericolo effettivo fondi il disvalore dei reati di pericolo
astratto , bensì la pericolosità generalmente e normalmente insita nel fatto
tipico.
E la pregnanza semantica di un elemento di
fattispecie –l’avvelenamento appunto-a connotare il delitto de quo ,cosi che
non ha senso parlare di presunzioni legali di pericolo.
Concorda poi il P.M con il fatto incontroverso che
attribuire la responsabilità penale di un evento, al di fuori del collegamento
causale con l’azione, sarebbe contrario al sistema formato dagli art 25
II°comma e 27 III ° comma Costituzione .
Dal coordinamento delle predette norme risulta poi chiara la esigenza che il
soggetto ,cui si applica la sanzione ,sia proprio quello che ha commesso il
fatto dotato di disvalore .
Premesse alcune considerazioni di carattere
generale, relative alla differenza tra l’evento di danno e quello di pericolo,
il primo certo ontologicamente, il secondo invece solo altamente probabile , in
quanto riferito ad una realtà futura e quindi incerta – per cui un Tribunale
,che pretendesse la certezza ontologica del pericolo , finirebbe per non poter mai ravvisare una condizione di
pericolo- osserva il P.M come nel caso
concreto il pericolo sia stato contestato in ragione dello avvelenamento delle acque e sostanze alimentari ,cioè di
una modificazione prodotta mediante
immissione di veleni o sostanze tossiche ,capaci di produrre sostanze dannose
nel sistema biologico,alterandone seriamente le funzioni.
L’accusa ha
dimostrato che gli imputati hanno provocato nel corso di decenni emissioni
nell’aria , nell’ acqua superficiale ,nell’acqua di falda ,nel suolo
e sottosuolo di sostanze
tossiche in violazione delle norme che disciplinano tale attività ed in
concentrazione che comunque mettono in pericolo la salute pubblica e che
ciò ha comportato una modifica
della realtà esistente , e creato un
pericolo che prima non c’era o aggravato quello gia sussistente .
L’accusa
ha dimostrato che legato alla condotta
,che ha modificato la realtà esistente , è il pericolo rappresentato da una nuova situazione in cui
si è evidenziata una manifestazione di danno genetico .
La associazione tra evidenze di danno e presenza
di inquinanti industriali è tangibile e reale
Dall’esame
delle evidenze sperimentali relative agli anni 93/99 la zona di Porto
Marghera prospiciente il Petrolchimico
è risultata caso del tutto particolare rispetto ad altre aree lagunari , perché
livelli significativi di danno genetico sono stati rilevati ripetutamente in
mitili e pesci .
Analisi chimiche più
recenti hanno suggerito una relazione tra danno biologico e contaminazione da
IPA, bifenili policlorurarti ed
esaclorobenzene, in particolare la presenza della DRZ - zona diagonale
radioattiva- è segno di esposizione multipla a composti aromatici DNA reattivi.
Negli organismi studiati in particolare nei
mitili-tenendo conto dei tempi di vita, del fatto che filtrano la colonna
d’acqua , della loro elevata capacità di bioaccumulo e della limitata capacità
metabolica- è risultato accertata la
avvenuta contaminazione ,a causa della
esposizione ambientale, ad agenti genotossici,nei periodi menzionati
,esposizione che ancora persiste .
E se è avvenuto un danno genetico nei
mitili per esposizione alle sostanze
inquinanti , scaricate dal Petrolchimico ,se ne deve dedurre che analogo
rischio di modificazione genetica esiste
anche per la collettività umana ,esposta direttamente o indirettamente alle
stesse sostanze tossiche .
Anche nei pesci si sarebbero verificate
analoghe modificazioni, per quanto riguarda la
zona diagonale radioattiva, circostanza questa che conferma il carattere
indifferenziato del rischio per tutti gli organismi viventi esposti alle stesse sostanze .
Il ripetuto
riscontro nel tempo in mitili e
pesci dell’area industriale di livelli
significativi di danno genetico giustifica
a tutt’oggi l’ipotesi che il
meccanismo di legame di alcune molecole
inquinanti al DNA e conseguente formazione di addotti sia( o rischi di essere )
un fenomeno riscontrabile anche nell’uomo.
Sono le leggi della biologia che provano la
non impossibilità del danno nel caso concreto e consentono la legittima
configurazione di un pericolo
scientificamente supportato
È quindi importante segnalare quanto i primi
giudici hanno ignorato e ricordare che:
1) trovare il DNA
danneggiato non dimostra che quel danno si è tradotto automaticamente in mutazione e tumori nei pesci
e nei mitili, ma significa che
la esposizione è capace di determinare effetti molecolari iniziali che possono sviluppare mutazioni
deleterie.
2) è certo che esistono esempi in letteratura
che dimostrano come ,compatibilmente
con la dose e le modalità di esposizione ,un certo numero degli inquinanti , trovati in quantità
maggiore nei mitili dell’area industriale ,possono causare mutazioni e tumori
in determinati organismi.
3) che per quanto
riguarda l’uomo ,a differenza degli organismi acquatici, per cui il rischio è
diretto, si parla nella comunità scientifica di una
esposizione che ha l’attitudine e cioè è idonea a farsi occasione iniziale di possibili processi causali.
Addotti al DNA e micro nuclei, come rilevato
dalla consulente tecnica Venier,
possono determinare mutazioni, si tratta in particolare di mutazioni cromosomiche ,considerate
predittive di rischio di tumore nell’uomo.
Anche se non è dimostrato, in tali condizioni, il regolare innesco di
stimoli proliferativi capaci di
facilitare la insorgenza di mutazioni e
lo sviluppo dei tumori, si tratta
comunque di possibilità ben note di cui
è impossibile calcolare le percentuali di verificazione .
Bisogna infatti distinguere l’effetto precoce
individuato come micro nucleo ,danno cromosomico, e le possibili
conseguenze di tale danno.
Per ogni specie la riproduzione ,le funzioni
immunitarie ed endocrine sono funzioni vitali altrettanto complesse del
mantenimento dell’equilibrio replicativo, quell’equilibrio di segnali e
funzioni , che se sregolato sfocia nella cancerogenesi .
L’alterazione del messaggio genetico o della sua espressione può
pregiudicare le funzioni vitali,
produrre conseguenze a medio e lungo termine nei singoli organismi e
nell’ecosistema.
Tanto rilevato appare priva di fondamento la
affermazione contenuta nella sentenza ,secondo cui le caratteristiche degli
inquinanti non sono state considerate dall’accusa sotto il profilo delle loro attitudine a farsi causa iniziante di pur minimi effetti avversi alla salute
.
Il danno genetico
Le valutazioni che seguono sono tratte dalla
pubblicazione scientifica della IARC n146 che tratta dell’uso di test a breve e
medio termine per gli agenti
cancerogeni e dei dati sugli effetti
genetici per la valutazione del rischio cancerogeno.
Va innanzitutto evidenziato come ,sulla base
dei risultati sperimentali, sia stato accertato che un aumentato livello di
specifici danni al DNA può essere predittivo di aumentate incidenza di tumore
in gruppi di popolazione .
Gli addotti
al DNA possono causare mutazioni
puntiformi e alterazioni cromosomiche e tutti i tumori contengono alterazioni
cromosomiche,alcune delle quali sono tappe specifiche dello sviluppo del tumore .
Delle alterazioni cromosomiche rilevabili sperimentalmente fanno parte i micronuclei.
Entrambi , addotti
al DNA e micro nuclei sono oggi
ampiamente utilizzati come marcatori biologici di effetti chimici
precoci(associati in primo luogo all’esposizione) e la maggior parte dei casi di esposizione ,valutati dalla IARC
come cancerogeni umani, sono genotossici ,vale a dire agiscono causando lesioni
chimiche nel DNA .
È pertanto ragionevole supporre che l’aumento
di danni al DNA ,sopra il livello di
fondo, in specifici gruppi di persone
sia associato ad aumentato rischio di tumore.
Per lo meno per i
cancerogeni genotossici gli addotti al DNA sono probabilmente gli
eventi molecolari critici negli stadi
precoci della iniziazione della cancerogenesi .
In alcuni casi la
esposizione a fattori cancerogeni può
non essere accompagnata da manifestazioni esterne , in altre situazioni invece
le conseguenze della esposizione si
manifesta nei livelli di danno al DNA che può essere quindi usato come misura
di esposizione .
Il vantaggio
aggiuntivo delle misure degli addotti al DNA è che possono fornire informazioni
sulla esposizione, in situazioni dove tali informazioni non si possono ricavare
altrimenti.
E tali considerazioni valgono anche nel caso
in cui ci sia esposizione ad agenti genotossici capaci di formare addotti e
contemporaneamente ad agenti promotori e co - cancerogeni capaci di modulare
tale livello di addotti( es l’alcool etilico aumenta drammaticamente i livelli
di addotti 06 metiguanina in esofago ,stomaco pancreas e colon dopo esposizione
sperimentale a nitrosamine specificamente a nitrosodimetilamina )
E se si verificano gli effetti predetti sui
pesci ci si deve chiedere cosa possa
verificarsi nella popolazione che di essi si nutre ,con particolare attenzione
agli effetti indotti da tale consumo sulla salute umana.
La
presenza di livelli significativi di addotti del DNA e di micronuclei dimostrano in modo certo la esposizione
degli organismi considerati ad agenti genotossici
Con il sostegno delle attuali conoscenze
scientifiche e con riferimento specifico
all’ambiente acquatico,va inoltre considerato che il danno al DNA è solo
una delle possibili conseguenza tossiche ,potendo la tossicità interessare
contemporaneamente piu bersagli
intracellulari .
La manifestazione di
alterazioni genetiche , indotte da un composto chimico, può avvenire a dosi
istanti dalle dosi tossiche e a distanza di generazioni.
Con riferimento ai molluschi avrebbe dovuto
inoltre tenersi conto della loro
capacità di bio accumulo degli
inquinanti ,spesso consistente ,e dei
tempi necessari per la loro depurazione
.
Ed ancora doveva considerarsi il fatto che le
reazioni metaboliche dell’uomo sono ben
più efficienti di quelle modeste che si verificano negli
invertebrati e che di conseguenza producono quantità pericolose di intermedi reattivi, capaci di formare
addotti sul nostro DNA.
Il fatto che alle questioni prospettate non
sia stata data ancora una risposta scientifica certa non ha peraltro rilevanza ai fini dell’apprezzamento del pericolo
ed è proprio per prevenire tale genere di pericolo che è stato dalla
comunità scientifica elaborato il principio di precauzione che presuppone “ una preliminare
valutazione scientifica obiettiva”, la
quale indichi che vi sono “ragionevoli motivi di temere” effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani ,degli
animali e delle piante, potenzialmente pericolosi e incompatibili con il
livello di protezione prescelto dall’unione europea.
La prevenzione è
necessariamente correlata al rischio ed è comunque al principio di prevenzione che deve farsi riferimento quando si
devono definire misure dirette ad evitare il pericolo che un evento si
verifichi,ciò che ha portato la Corte di
Cassazione ad affermare che “la stessa probabilità che ad una condizione
consegua un effetto può ritenersi sufficiente
per sostenere l’esistenza di un rapporto causale in un contesto di
prevenzione”.
Il Tribunale non ha
invece considerato gli indici di esposizione a composti genotossici su un
bersaglio critico che è il DNA, con lesione strutturale di una molecola
,macromolecola ,all’interno della cellula che è materiale biologico.
Gli addotti sono
certo indice di esposizione a composti genotossici ed anche indici di danno genetico . e questo fattore di rischio, che non è un pericolo congetturale ma una condizione di fatto molto concreta ,
non è stato in alcun modo valutato dal
Tribunale .
Anche a proposito della dose soglia le affermazioni del Tribunale muovono
da presupposti non condivisibili,
perché diversi sono i termini della questione prospettata .
Rileva il P .M come si sostenga da parte del Tribunale che
le classi di esposizione suscettibili di derivare dalla dieta del biota
lagunare sono distanti ordini di grandezza da quella capaci di produrre
qualsiasi effetto avverso , e tale circostanza
è ritenuta dirimente.
Ora se si può
concordare sul fatto che la pericolosità di determinate azioni per
determinati beni deriva da una quantità obiettiva ,non è poi sempre
condivisibile una sola valutazione quantitativa che si ispira a premesse
meccanicistiche ,perché nella
fattispecie si ha a che fare non con un mondo meccanico ma con un mondo sub molecolare .
Nella fattispecie poiché il dato
della realtà che ha l’attitudine di farsi occasione iniziante di possibili
processi causali di un futuro evento dannoso è la lesione al DNA definibile a
livello molecolare o citologico devono applicarsi le leggi della biologia .
Caratteristiche
peculiari delle stesse sono il fatto di essere modelli temporali – si
riferiscono cioè a fenomeni che sottostanno ad un processo, come la
cancerogenesi -e modelli a livelli parzialmente sovrapposti (serve cioè a
connettere differenti livelli della realtà,tant’è vero che la biologia
contemporanea –incentrata sul DNA è nata da una forte interazione con la fisica e fu proprio un fisico quantistico che creò
un ponte tra le due discipline).
Le lesioni del DNA definibili a livello
molecolare o citologico si configurano come danni biologici iniziali
capaci di innescare effetti negativi a
livelli organizzativi superiori.
E in questo quadro
devono valutarsi oltre alla dose ed al meccanismo d’azione dell’agente
tossico anche le caratteristiche
strutturali e funzionali degli organismi esposti ( modalità di esposizione,
specificità biochimiche e fisiologiche, sistemi di difesa, compensazione e
delimitazione del danno) ed il momento del ciclo vitale in cui essi risultano
colpiti dallo stimolo nocivo.
Differenze genetiche tra individui(fenotipi
metabolici differenti possono rendere
conto di un diverso grado di sensibilità o di resistenza individuale) ed
influenze dell’ambiente interno ed esterno
possono comportare risposte diverse, per cui risulta invero complesso ed
arbitrario stabilire una relazione tra
causa (l’esposizione ) ed effetti indotti cosi come lo sarebbe stabilire ,su
dette basi, soglie di non pericolosità.
La mancata considerazione di tali dati reali
di pericolosità ha viziato irrimediabilmente il ragionamento del giudice di
primo grado, che non ha capito che sussiste
il pericolo consistente nella
lesione apportata al DNA dagli agenti genotossici, da cui, per evoluzione del
danno possono derivare vere e proprie
mutazioni ovvero cambiamenti dell’informazione contenuta nel DNA, trasmissibili a generazioni
cellulari successive .E rispetto a
questo tipo di pericolo non rilevano le
considerazioni contenute nella
motivazione della sentenza per
giustificare la esclusione del rischio
Il ricorso alla sanzione penale trova qui la sua giustificazione proprio nella funzione della tutela penale stessa che è quella di salvaguardare i beni essenziali per l’individuo e la
collettività , nella fattispecie esposti al pericolo derivante dalle
conseguenze possibili della lesione al DNA, ossia al materiale genetico fondamentale degli organismi viventi, lesioni
definibili a livello molecolare e
citologico che si configurano come
danni biologici iniziali, capaci di innescare effetti negativi a livelli
organizzativi superiori.
E la tutela del patrimonio genetico è stata
riconosciuta nel 1982 dal Consiglio d’Europa con la raccomandazione n 934 e
successivamente dal Parlamento europeo
il marzo 1989 e il diritto alla conservazione di un genoma non modificato è stato riconosciuto
anche nel nostro ordinamento
dalla legge 2137/2001 n145 che ha ratificato la Convenzione di Oviedo.
Essendosi verificata nel caso in esame una
rottura del patrimonio genetico avrebbe
dovuto ritenersi sussistente la
condizione di pericolo per l’incolumità pubblica derivante dai fatti descritti
in imputazione considerati, sub specie dei avvelenamento colposo.
La prova fornita nel
corso del dibattimento di primo grado dalla accusa di alcune tipiche lesioni
indotte nel DNA da agenti genotossici, che costituiscono lesioni iniziali da cui
per effetto di una normale evoluzione del danno si consolidano vere e
proprie mutazioni ovvero cambiamenti
dell’informazione contenuta nel DNA,trasmissibili in generazioni cellulari
successive è stata immotivatamente ignorata dal Giudice e la sentenza appellata
dovrà pertanto essere riformata sul punto con l’accertamento del pericolo
derivante dalla immissione in ambiente lagunare degli inquinanti industriali
indicati nella imputazione e del conseguente avvelenamento delle acque e
delle sostanze alimentari nei limiti descritti
Erronea
contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del
delitto di adulterazione colposa di cui agli art 440-452 c.p
3.6 Erronea
contraddittoria e illogica esclusione della sussistenza degli estremi del
delitto di adulterazione colposa di cui
agli articoli 440-452 c.p
Pur aderendo e condividendo la impostazione
del Tribunale, secondo cui è necessario
dimostrare la esistenza di uno specifico pericolo in concreto per la salute pubblica, come conseguenza sia della
adulterazione delle acque e delle sostanze alimentari,sia delle acque di
falda ad opera degli scarichi
idrici ,delle discariche e delle
emissioni in atmosfera delle sostanze inquinanti indicate nel capo di
imputazione , ritiene il P. M, a differenza di quanto ritenuto dal
Tribunale, che vi siano elementi che
consentano di ritenere provata la sussistenza di tutte le predette circostanze
Va premesso che,
com’è noto, l’art 440 c p punisce la condotta di chi corrompe o adultera
acque o sostanze alimentari ,prima che siano attinte o distribuite per
il consumo ,rendendole pericolose per la salute pubblica .
Di conseguenza la norma punisce il degrado
dell’acqua o delle sostanze alimentari provocato da componenti privi di quelle
elevata tossicità che li rende veleno .
E secondo il
consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso anche dal Tribunale,
l’art 440 c .p è un reato di pericolo concreto ,per la cui sussistenza è
necessario che il giudice accerti la possibilità di un nocumento alla salute ,
pur non essendo necessaria la prova di una effettiva lesione della stessa .
Nello stesso senso è orientata anche la
dottrina, nonostante alcuni ritengano che, nell’accertamento della pericolosità
dell’azione ,si potrebbe essere indotti a ritenere che corrisponda piu alla
sostanza del fenomeno, qualificare di
pericolo astratto anche tutti i reati che ricalcano lo schema dell’art 440 c .p
citato.
Aderendo comunque alla interpretazione
dominante , secondo cui è necessario dimostrare l’esistenza di un pericolo in
concreto per la salute pubblica , come
conseguenza della adulterazione della acque o delle sostanze alimentari , ciò
non consente di pervenire alla conclusione che la prova del pericolo e della
sua concretezza si risolva nella dimostrazione scientifica della certezza di
conseguenze dannose per la salute
dell’uomo, quale effetto della condotta adulterante.
È peraltro indubbio
che il pericolo sia un concetto irrinunciabile
ma di difficile definizione
scientifica, essendone controversi
i criteri di accertamento, la unicità o diversità di nozione in
relazione ai diversi istituti; è comunque altrettanto indubbio che il principio di tassatività
e offensività impongono che
anche il pericolo sottostia a criteri razionali, capaci di verificazione
empirica .
Ed è altrettanto
chiaro che il pericolo costituisce il risultato di un giudizio ex ante, perché
appunto ha ad oggetto la previsione
che, dalla situazione in esame, derivi
un futuro evento dannoso;
si formula cioè
un giudiziosi non di certezza sul
verificarsi o meno di un evento dannoso, bensì un giudizio di pericolosità, con
i relativi margini di incertezza ,connessi alla previsione di un evento,non
come certo, né come possibile, bensì
come probabile.
Il giudizio di
pericolo è derivato in parte dalle
massime di esperienza –non disancorate dal sapere scientifico che consente di
dire quanta probabilità esiste che un
certo evento lesivo si verifichi – in parte da esigenze normative ,dato che il
grado rilevante di probabilità dipende
da una serie di elementi latu sensu normativi (importanza del bene minacciato
,tipo di offesa che questo potrebbe subire, modalità della eventuale
lesione,criteri tutti che se
correttamente applicati rispondono alla
necessita di anticipare la soglia della tutela penale).
Tanto premesso rimane il problema di accertare in
base quali elementi (cd base del
giudizio) il giudice possa formulare il giudizio di pericolosità in concreto ,
inteso come valutazione della
probabilità che si verifichi un evento
lesivo del bene protetto dalla norma La Cassazione
non ha chiarito nelle sue decisioni se
sia imprescindibile , caso per caso, una dimostrazione scientifica della
pericolosità ( ad esempio mediante
schede tossicologiche quando esista una
letteratura di tal genere) sulla base di una sperimentazione ad hoc, tesa a dimostrare l’attitudine della sostanza a provocare
malattia ,sia pure in senso ampio
cioè come alterazione dello stato di
benessere fisiopsichico dell’individuo o se invece , tale valutazione possa
essere comunque effettuata sulla base
anche di altri elementi, dai quali il giudice possa motivatamente ritenere
la sussistenza della
pericolosità in concreto.
La prima soluzione appare riduttiva perché
non consentirebbe di valutare la pericolosità in mancanza di adeguata sperimentazione , e perché trattasi di indagini non brevi ,che si prolungano
anche per anni prima di consentire il raggiungimento di risultati significativi per stabilire gli
effetti della esposizione ,dell’inalazione o dell’ingestione della sostanza esaminata sulla salute
dell’uomo
Significativa in tal senso è la vicenda
relativa all’accertamento della tossicità del dietilstrilbestolo, anabolizzante
usato per 40 anni e di cui sono stati poi accertati dopo un ventennio di
ricerche gli effetti cancerogeni .
Inoltre
viene ricordato il principio
affermato dalla Cassazione in alcune decisioni della libertà per il giudice di
fondare il suo convincimento su qualsiasi
elemento idoneo a motivare il giudizio nel caso specifico, nel senso che la pericolosità della
sostanza a recare nocumento alla salute pubblica può essere
provata con qualsiasi mezzo consentito,
disattendendo anche relazioni tecniche peritali, purchè ciò avvenga con motivazione adeguata e rigorosamente
logica, dando cosi ragione della decisione adottata
Altre pronunce hanno affermato la possibilità
di fondare il giudizio di pericolosità su parametri normativi, tutte le volte in cui esiste una disposizione (di
legge o di regolamento) che riconosce
una specifica pericolosità ( intesa come attitudine generica a ledere la salute) ad alimenti che si trovano in particolari
condizioni o che hanno certe
caratteristiche .
È
a questo punto che viene in
rilievo secondo il P M la questione del
significato giuridico da riconoscere
agli standards di qualità di un prodotto o di un alimento previsti da leggi speciali.
Dopo avere
fatto un elenco di quelli piu significativi – premesso che nel corso
degli anni le norme speciali sono
diventate molto numerose- e chiarito
che in tutti i casi elencati si tratta
di limiti imposti dal legislatore a tutela della salute umana , il cui
superamento comporta il verificarsi di una situazione che il legislatore stesso
considera –in base a dati scientifici- di rischio per la salute il P. M.
ricorda anche gli orientamenti
giurisprudenziali circa il valore che agli stessi viene attribuito, quanto alla
esistenza o meno di una presunzione di idoneità delle norme tecniche speciali a
garantire il livello accettabile di tutela
- e da atto del prevalere
dell’orientamento piu recente, secondo cui la responsabilità in sede penale
presuppone sempre la violazione degli standard, su altri orientamenti ,
secondo cui invece il giudice potrebbe ritenere sussistente la responsabilità
nonostante il rispetto degli standard – vedi in particolare la
sentenza della Corte Costituzionale n127/1990 e della Corte di Cassazione sez III n11295 del 1-10-1999 e sez I n5215
del 9-5-1995.
Tanto premesso
ritiene il PM che, tra tutti gli
standard di qualità normativamente imposti, debbano essere presi in
considerazione per valutare la
concretezza del pericolo nella
presente vicenda i valori di
concentrazione massima ammissibile fissati dal DPR 236/88 per le acque
destinate al consumo umano , limiti che meglio di altri consentono per il caso
di specie di essere utilizzati come
circostanze rilevanti ai fini del giudizio di pericolo concreto .
Viene quindi ricordato come in dibattimento sia stata fornita la prova della esistenza
,nell’area circostante il Petrolchimico ,di numerosi pozzi artesiani utilizzati
dai proprietari per il prelievo dell’acqua
da destinare al consumo umano - secondo la definizione contenuta nell’art
2 citato DPR - che non si limita a ricomprendere il solo consumo alimentare ,ma
che estende la tutela ad ogni genere di consumo dell’acqua fatto dall’uomo ( compreso l’uso igienico
–sanitario e quello irriguo)
La circostanza rileva per due
ordini di motivi .
In primo luogo perché smentisce la tesi difensiva della
inutilizzabilità dell’ acqua di prima falda – non utilizzabile perché inquinata precedentemente al Petrolchimico e
perché salata -in quanto l’acqua di
falda risulta utilizzata da un numero indifferenziato di persone che la usano
prelevandola dai pozzi artesiani .
In secondo luogo
perché consente di meglio apprezzare le implicazioni penalistiche delle considerazioni svolte dal prof Nosengo sulla contaminazione della falda
idrica e quindi dell’acqua attinta da pozzi e destinata al consumo umano .
Prima di
approfondire –in diritto tale specifica doglianza d’appello – il P.M. svolge
alcune considerazione in fatto dirette criticare la sentenza nella parte in cui
sottovaluta le conseguenze dell’inquinamento delle acque sotterranee, del
suolo e del sottosuolo .
Ritornando
quindi ai valori di concentrazione massima ammissibili per le acque destinate
al consumo umano stabiliti dal DPR 236/88, va innanzitutto precisato che,
secondo la direttiva comunitaria di cui la legge è esecuzione, gli standard o parametri contenuti nel citato DPR costituiscono il livello minimo per la tutela della salute
pubblica, al di sopra del quale sussiste pericolo di lesione, che non può
essere accettato dagli stati membri se non nei limiti rigorosissimi delle
condizioni a cui la direttiva subordina
la possibilità di autorizzare -per tempi limitati- il superamento della soglia
di rischio e che le eccezioni sono rigorosamente contenute e limitate a casi gravi e per breve periodo.
Viene quindi ricordato come la Corte di giustizia della unione europea con la sentenza del 22-9-88 abbia
stabilito due importanti
principi:
tutti i valori dei parametri
costituiscono una soglia di
pericolosità per la salute umana , soglia che non può e non deve essere
superata e deve essere interpretata in senso restrittivo;
le deroghe sono tassative e legittime, solo se applicate in condizione di stato di necessità , per effetto di un
evento grave e non imputabile al soggetto che autorizza la deroga e devono altresì essere limitate nel tempo.
Solo in questo
caso la esigenza di tutela della salute può giustificare il suo sacrificio alla
necessità di tutelare la incolumità pubblica, messa in pericolo dalla
situazione di emergenza
Ad eguali conclusioni si perviene esaminando
il regime delle deroghe ai valori massimi di concentrazione previste dal DPR
236/88.
L’art 17 del citato DPR ,nel disciplinare le
uniche due ipotesi in cui possono essere consentite deroghe , impone come
limite insuperabile che il superamento dei limiti di concentrazione non
presenti un rischio inaccettabile per
la salute pubblica .
Tutti i parametri individuati dalla norma
sono stati determinati con preciso riferimento a fattori di rischio per la
popolazione e si è inoltre ribadita la
necessità - oltre il principio della
equivalenza di tutti i parametri
contenuti nell’allegato, in funzione
della esistenza di un preciso fattore di rischio- che vengano controllati da
parte dell’autorità sanitaria anche altri parametri , diversi da quelli
contemplati nell’allegato , ma che comunque possano rappresentare un fattore di
rischio .
Accertato il collegamento tra i parametri di
cui sopra ed il pericolo per la salute dell’uomo e dell’ambiente si tratta di verificare in che modo i limiti normativi sopra richiamati possano venire in rilievo come circostanze
di fatto rilevanti per la formulazione del giudizio circa la prevedibilità di una lesione della incolumità pubblica.
Ciò non vuol significare la trasformazione
del reato da reato di pericolo concreto a reato di pericolo presunto, bensì
ricerca di affrontare e risolvere il problema
di individuare le circostanze di
fatto, in presenza delle quali possa ritenersi sussistente la
probabilità della lesione alla salute , come conseguenza della adulterazione
della sostanza alimentare, alla luce
del principio giurisprudenziale sopra
citato, che consente al giudice di rinvenirle in qualunque elemento ,anche di
carattere normativo ,non essendo egli vincolato agli esiti di dimostrazioni
scientifiche concrete del rischio
esistente e del suo livello.
Ciò non significa confondere il piano dei requisiti di qualità stabiliti
dalla normativa pertinente alla
edibilità con quello diverso e relativo
alle classi di esposizione suscettibili di essere ritenute ex ante capaci di
produrre effetti avversi o comunque indesiderati per la salute dell’ideale consumatore.
Sono infatti entrambi criteri pertinenti a
rendere l’informazione adeguata sulla caratterizzazione del rischio reale .
Peraltro anche la valutazione tossicologica
su base sperimentale ha sempre
carattere presuntivo e probabilistico dal momento che la valutazione viene fatta
su animali ,con una stima dei risultati operata in termini statistici e
quindi probabilistici.
La estensione
della sperimentazione condotta su cavie all’uomo è frutto di regola
generalmente accettata in campo scientifico che comporta necessariamente un
tasso di probabilismo essendo fondata sull’id quod plerumque accidit .
Bisogna comunque fare attenzione a non
confondere i due livelli-quello della astrattezza del pericolo e quello del
margine di astrattezza contenuto nella valutazione del pericolo da parte del
giudice- perché oltretutto in caso contrario il giudizio di pericolosità in
concreto si risolverebbe nella verifica del danno conseguente alla condotta
,ciò che la Cassazione ha escluso essere necessario per configurare il reato di
pericolo in esame .
Va ancora osservato come il bene tutelato
dalla norma sia la salute pubblica per cui è necessaria una diffusività del
rischio capace di incidere su di un valore collettivo come quello della salute
pubblica. Anche sotto tale profilo
la giurisprudenza ha precisato che
basta la mera probabilità di un contatto della sostanza adulterata con un
numero indeterminato di soggetti
Passando ad esaminare altri aspetti della
norma incriminatrice osserva il P.M. come l’espressione adulterazione
significhi alterazione della natura genuina di una sostanza destinata alla alimentazione,
attraverso un procedimento con cui si aggiungono o si sostituiscono elementi
nocivi per la salute.
Il temine corrompimento indica invece la
immissione di sostanze, che alterano l’essenza rendendo cosi nocivo l’alimento corrotto
Per quanto riguarda
il concetto di acque o sostanze destinate alla alimentazione deve ricordarsi che, secondo un orientamento
giurisprudenziale, per quanto riguarda l’acqua essa sarebbe sempre suscettibile
di destinazione alimentare ed in tal
senso ha disposto l’art 1della legge 5-1-1994 n36, che ha stabilito che tutte le acque superficiali e
sotterranee ,ancorché non estratte
dal sottosuolo sono pubbliche e
costituiscono una risorsa che va salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di
solidarietà.
Nello stesso senso è una sentenza della
Cassazione del 22-7-1997 n.7170, che ha ritenuto sussistente il reato di cui
all’art 440 c. p nel caso di sola
contaminazione di una falda idrica ad
opera del percolato fuoriuscito da una discarica illegittimamente gestita, senza
che fosse richiesta la attualità della utilizzazione della falda, essendo stata
ritenuta sufficiente la potenziale utilizzabilità dell’acqua, pur in assenza di qualsiasi opera per la sua diretta
o indiretta destinazione al consumo umano .
Si è cosi inteso proteggere le acque ancorché
non estratte dal sottosuolo in funzione del loro potenziale sfruttamento ad uso
umano , prescindendo dal loro effettivo attuale utilizzo (vedi sul punto anche la sentenza della
Cassazione del 29-6-85 n 6651), ciò che dimostra come sia erronea la decisione del Tribunale laddove ha ritenuto
non sussistere il reato di cui all’art 440 c. p sul presupposto delle
inutilizzabilità delle acque per il
consumo umano .cosi come erronea risulta la affermazione relativa alla immobilità
o eccessiva salinità delle acque di falda .
Per la
sussistenza del reato di cui alla art 439 c p non è quindi richiesta la potabilità dell’acqua , ma solo quella
della sua potenziale destinazione ad uso umano ed alla soddisfazione dei
bisogni alimentari di un numero indeterminato
di persone , ciò che può
avvenire nel caso di adulterazione
di acque di una
falda che alimenta direttamente i pozzi , in tutti i casi in cui si determini
un pericolo per la salute pubblica.
Il giudizio di pericolosità può poi essere
desunto,a prescindere dai parametri tossicologici sugli effetti derivati dalla
ingestione alimentare dell’acqua
prelevata dalla falda inquinata, dalla presenza effettiva delle sostanze
inquinanti descritte nella
imputazione e di cui è comprovata la tossicità
o per alcune anche la cancerogenità .
Nel caso in esame è provato dalle analisi eseguite da Acquater ne 1995 e nel 1996 che l’acqua di falda campionata da piezometri in prossimità del Petrolchimico è
fortemente inquinata da sostanze derivanti dalla sua produzione , al punto di
superare di gran lunga i limiti di CMA previsti per numerosi
parametri contemplati dal DPR236/88..
In particolare
per l’arsenico la presenza in quantitativo elevato consente di ritenere
dimostrato non tanto il reato di adulterazione quanto quello di avvelenamento,
attesa la idoneità della concentrazione
riscontrata in falda ad operare quale vero e proprio veleno per la
salute umana, ed analoghe
considerazioni valgono anche per il dicloroetano.
E questi risultati avrebbero dovuto portare
ad un ben diverso esito processuale ,essendo evidente la esistenza di concreti
elementi di pericolo .
La
assoluzione degli imputati non appare pertanto accettabile e consegue ad una
errata e sottostimata valutazione delle
prove.
Anche in questo caso viene accettato il
metodo della difesa , confrontando molluschi pescati in periodi stagionali
diversi e confrontando le concentrazioni degli inquinanti riferite al peso
edibile .
Ed invece i dati devono essere normalizzati
rispetto al contenuto dei lipidi per gli organici e al contenuto di sostanza
secca per i metalli cosi come
suggerito dagli studi e dalla procedura Epa
E normalizzando i dati le differenze
spariscono diventando i dati di Berlino per le sostanze di interesse
processuale addirittura di gran lunga superiori a quelli proposti dalla accusa.
Comunque utilizzando i dati di Berlino ,e confrontando
le concentrazioni di sostanze inquinanti
nei campioni bivalvi cresciuti nei sedimenti dei canali industriali con
quelle dei campioni cresciuti nei
sedimenti di S Erasmo , si rileva , con riferimento alla concentrazione sui
lipidi , che la tossicità nei bivalvi
dei primi campioni rispetto a quella dei secondi è 13 volte superiore per quella dovuta a PCDD/F e PCB e 38 volte
superiore quella dovuta a HCB.
E l’HCB( esaclorobenzene ) è un sottoprodotto
solo delle lavorazioni del ciclo del cloro,
per cui è evidente la contaminazione da quella specifica fonte di
inquinamento .
Quanti agli IPA che provengono anche dal
traffico marino e dalle combustioni
risultano 36 volte piu concentrati nei canali industriali .
Anche i dati dei
metalli ottenuti a Berlino ed espressi
sul secco evidenziano la loro maggiore concentrazione nei molluschi provenienti dai canali del Petrolchimico .
Il Tribunale poi nella motivazione ,di cui a pagina 804, utilizza per il suo giudizio i valori mediani – ciò che vuol dire
eliminare i valori massimi e
quelli minimi -ed in concreto il campione M6 pescato nel canale
industriale sud ,dove si svolge la maggiore attività di pesca abusiva.
In realtà
anche sulla base della analisi eseguita a Berlino si avrebbe che
ad un giovane di 40 kg basterebbero 24 grammi edibili per superare la DGA prevista dal WHO a causa della concentrazione di
PCDD/F e PCB ,mentre a S Erasmo la
stessa persona potrebbe mangiare 250 g cioè 10 volte di piu .
Per quanto riguarda il non superamento,
quanto alle diossine, dei valori limite stabiliti per le dosi giornaliera o settimanale, si osserva come i dati dovrebbero essere aggiornati
considerando l’aumento di fondo della esposizione a diossine attraverso la dieta nella popolazione del territorio dell’UE.
Viene infatti sottolineato nei documenti del
comitato scientifico europeo che
date le assunzioni medie di diossine o dioxin –like attraverso la dieta
nei paesi europei di 1.2 –3.0 p g
WHO-TEQ /KG p c per giorno, una percentuale considerevole della popolazione
europea dovrebbe superare il TWI indicato dal Comitato.
Risultando di
conseguenza già superati i valori di riferimento ,a seguito dell’inquinamento
di fondo per una parte di rilievo della
popolazione, ne consegue che ogni
esposizione aggiuntiva deve essere considerata alla luce della affermazione che
vi è gia di fondo una esposizione
critica .
Ribadisce
quindi il P.M. per chiarezza che i valori soglia si riferiscono a tutta la assunzione di diossine o composti
simili e non solo a quella
attribuibile ad uno specifico
componente della dieta e che nelle
valutazioni non deve dimenticarsi la assunzione di fondo delle diossine che
viene raddoppiata per pochi grammi (24 g) di vongole pescate nei canali
industriali
Viene ancora criticata la sentenza a pagina
811, laddove si dice che la
compromissione dei sedimenti delle acque dell’area industriale non è riferibile al Petrolchimico , mentre invece una
tale
affermazione risulta contraddetta dalla natura degli inquinanti,come ad esempio
l’HCB tipico della lavorazione del cloro e l’HCB si ritrova poi assieme a
diossine e dioxin –like proprio nei
molluschi .
Il Tribunale afferma
anche, a pagina 814 e 815 che, secondo la normativa pertinente , le quantità di
inquinanti rinvenute nei molluschi prelevati nei canali della
area industriale sono compatibili con quelle
che sono ammesse per legge ad essere distribuite per il consumo
umano , ma cosi decidendo trascura il
DLVO n530/92 secondo il quale per le
sostanze non regolate da concentrazioni
limite ci si deve riallacciare alla DGA.
Anche nelle pagine successive –816,817,818-
il tribunale insiste poi sui metalli e su alcuni parametri trascurando però quelli più tossici e operando cosi una selezione non corretta .In ogni caso con le vongole si supera la
DGA,senza contare l’effetto tossico sinergico (cumulativo) data da Cadmio
Piombo ,Mercurio. Arsenico,IPA, Diossine,PCB,HCB, sostanze tutte valutate
separatamente mentre invece vengono assunte insieme dal consumatore .
Le
considerazioni riportate nella sentenza
a pagina 825 che riguardano valutazioni del consulente del PM devono poi
ritenersi errate per difetto in quanto considerando pranzi e cene reali si
supererebbe la DGA di sei volte.
Cosi come errate devono considerarsi i
ragionamenti esposti a pagina 856
,dove si indicano i consumi del consumatore medio e del forte consumatore , considerando che in ogni caso il
forte consumatore che mangia 11 grammi al giorno con una concentrazione pari al valore massimo riscontrato – di 2,7
p g WHOTE/G- assume solo dalle
vongole un quantitativo di inquinanti
,che sommato al resto, supera di gran lunga la DGA.
Ed infine non si condivide il confronto
con le concentrazioni rilevate in altri
mari anziché il confronto con altre
zone della laguna come S Erasmo, né la affermazione secondo cui i carichi
inquinanti registrati nel biota di provenienza dell’area industriale sarebbero
normali, atteso che i confronti con l ‘area di S Erasmo hanno invece evidenziato le notevoli
differenze sopraindicate
3.9.2 I parametri di rischio disponibili per le
diossine e composti simili(PCDD PCDF e
PCB dioxin like
Nella sentenza
viene fatto spesso riferimento al TDI dell’OMS affermando anche che il comitato scientifico europeo utilizza lo
stesso riferimento.
Tale affermazione invece non corrisponde al
vero ,in quanto nel 2000 questa organizzazione indicava un parametro
inferiore cioè 1 pg WHO –TEQ/ kg peso corporeo giorno , anche se
recentemente il parametro è stato rivisto ed aumentato a 2 pg WHO-TEQ/ kg
, rimanendo però sempre inferiore a
quello indicato dall’OMS.
Va poi anche sottolineato che sia lo SCF che
l’OMS fanno riferimento a dosi o esposizioni a diossine e composti simili
espresse secondo il criterio WHO – TEQ ciò che implica la considerazione della esposizione oltre che a PCDD e PCCF anche ai PCB e dioxin like ,
nella definizione della concentrazione TEQ ( diossina equivalenti ), ai fini
della valutazione del rischio.
Va poi osservato come il documento del SCF
dica “ che l’uso della sola 2,3,7,8-TCDD come unica misura della esposizione a
PCDD e PCDF e PCB simili alla diossina porti ad una grave sottostima del rischio per l’esposizione umana per questi composti .
Inoltre il SCF mette in evidenza come pur
avendo alzato la dose tollerabile , considerata la assunzione media di
diossine attraverso la dieta nei paesi
europei- pari 1.2 –3.0 p g WHO – TEQ kg p .c /giorno- risulta che una percentuale
considerevole della popolazione dovrebbe superare il valore soglia indicato .
Ne consegue che se i valori soglia risultano
gia superati dai valori di fondo, nell’aggiungere ogni altra esposizione
bisogna considerare che quella di fondo è gia critica .
Ed ancora il CSF
non prende in considerazione gli elevatissimi rapporti che sussisterebbero tra
i livelli privi di effetto avverso e quelli della dose giornaliera.
Viene poi evidenziato come sempre venga fatto
riferimento, nella estrapolazione dei dati sperimentali dall’animale all’uomo,
al peso corporeo , ciò che è particolarmente rilevante, considerato anche che,
attesa la lunga durata della emivita della diossina , si verifica
nell’organismo un progressivo accumulo.
Secondo il CSF
il valore della dose soglia è inferiore
da 10 a 25 volte rispetto alle dosi per le quali è stato ritenuto
possibile un effetto avverso sull’uomo e inferiore di un fattore 5 rispetto alla dose stimata priva di effetto..
Tanto contraddice la affermazione del
Tribunale secondo cui invece la differenza tra la dose stimata priva di effetti
e la dose soglia sarebbe molto piu elevata.
Da ultimo viene
ricordato che secondo l’ US EPA (US Environmental Protection, Agency) che viene
citata nella sentenza come fonte di riferimento, per determinare la classe dei
forti consumatori, sussiste un incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di
1 su 1000 per un esposizione aggiuntiva
di 1 p g WHO - TEQ/kg peso
corporeo al giorno.
3.9.3 L’esposizione di fondo e il
contributo dei PCB –diossina simili ( dioxin –like) alla tossicità equivalente
Ricordata quella
che è la esposizione di fondo per gli adulti dei paesi europei ,secondo i
calcoli della SCF pari a 1,2 – 3,5 p g WHO - TEQ kg/ p c giorno ( esposizione risultante dalla sommatoria
dei due livelli inferiori pari a 0,4 e 0,8 rispettivamente per PCDD/F e per i PCB “dioxin like” e dei due
livelli superiori pari a 1,5 e 1,5 relativi ai medesimi inquinanti ) e
da cui risulta che il contributo dei PCB”dioxin like “ porta ad una esposizione
che è superiore rispetto a quella a
solo PCDD e PCDF di un fattore che
varia da 3 a 2 , viene poi riportata la
stima media del livello di fondo
secondo l’US EPA che la valuta in un 1 p g
WHO - TEQ/ kg peso corporeo a fronte di una precedente valutazione
nell’ordine invece di 3 p .g relativa gli anni precedenti periodo 1980 –1990.
La diminuzione della esposizione di fondo
deriverebbe da una serie di riduzione delle emissioni e contaminazioni.
L’esposizione comunque per il 95simo e 99simo
percentile della popolazione è stimata 2-3 volte superiore a quella media per
cui ,considerando questa variabilità, le stime non si differenziano di molto .
Si rileva poi come la stessa agenzia evidenzi
anche come la esposizione ai PCB dioxin like oltre che ai PCDD/F comporti un
incremento di un fattore sino a 2 .
Trattandosi di inquinanti che hanno diverse
fonti è comprensibile la diversità di dati in relazione alla diversità dei
contesti.
Rapporto
tra contributo di PCDD/F e PCB sulla
base di dati di misura relativi ai bivalvi della laguna veneta
Da studi
eseguiti risulta che la concentrazione tossicologicamente equivalente (PCDD/F e
PCB) espressa in WHO-TEQ (criterio OMS e UE)
è mediamente superiore di circa 50-60% rispetto alla tossicità
equivalente relativa solo a PCDD/F( criterio ITE).
Il rapporto tra
i due criteri risultava nei singoli campioni analizzati compreso tra circa 1,24 e circa 2 ,con una media di
circa 1,6 ,con la conseguenza che moltiplicando per un fattore di 1.6 la
concentrazione espressa in ITE si
otteneva una ragionevole stima delle concentrazione media espressa in WHO-TEQ.
Possibili
criteri per l’uso di dati relativi a
PCDD e PCDF( concentrazione I-TE) senza considerare i PCB ed evitare
sottostime del rischio
Le valutazioni che non includono il contributo
dei PCB portano ad una sottostima del rischio.
Per adeguare le valutazioni fatte con criteri
I-TE risulta ragionevole applicare il fattore sopraindicato di 1.6 che non
comporta una sovrastima eccessiva .
Tanto viene evidenziato in contrapposizione a
quanto risulta a pagina 826 della sentenza, in relazione alla valutazione del
consulente del PM Zapponi.
Ma contrariamente a quanto affermato dalla
difesa non è il consulente del PM. ad essere caduto in un errore esiziale,
bensì il consulente della difesa.
Risulta infatti ,contrariamente a quanto
ritenuto dal Tribunale, che il valore della concentrazione delle diossine viene
moltiplicato per il fattore 1.5 per la stima complessiva di PCDD/F e PCB e non per la stima della sola concentrazione
di PCB.
Lo stesso Tribunale peraltro da atto, in
altre pagine della motivazione, di condividere il criterio di adeguamento della
stima sopraindicato, laddove ad ogni stima relativa ai soli PCDD e PCDF senza i
PCB viene associata quella relativa a tutti predetti componenti, moltiplicando
la prima stima per un fattore 1,55 ovvero incrementandola del 55%.
Sulla base dei dati forniti dai diversi studi
,in assenza di dati specifici sui PCB ,l’uso di un fattore correttivo 1.6 da
applicare ai dati di concentrazione di PCDD/F può ragionevolmente evitare una
significativa sottostima della
esposizione complessiva (PCDD/F e PCB) e del relativo rischio.
Il fattore 1.6 è il più basso tra quelli
discussi ed è basato su dati sperimentali della laguna e non comporta evidentemente
sovrastime irragionevoli.
3.9.4
Il consumo di bivalvi , la resa ovvero la percentuale edibile rispetto al lordo
e le stime di esposizione
3.9.4.1
Conseguenze che derivano applicando ai dati dei consulenti della difesa
i parametri di resa ( rapporto tra la parte edibile ed il lordo) dell’Istituto
Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione)
Vengono di seguito riportate le tabelle
contenenti la indicazione per i diversi
alimenti del rapporto tra la parte edibile ed il peso lordo- secondo l’ente
sopraccitato- pari per le cozze al 32%, per l’ostrica al 12 %, per le vongole
al 25 %.
Applicando
questi dati a quelli riportati nella sentenza, per quanto riguarda i forti
consumatori, si hanno dei valori netti di consumo giornaliero pro capite di
vongole e cozze che risultano quasi
doppi rispetto a quelli indicati dal Tribunale, sia per i consumatori medi come
per i forti consumatori .
In particolare per quanto riguarda le vongole
il consumo medio e massimo sulla base di dati Coses e delle rese dell’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione risultano rispettivamente di 2.5 e19.75 grammi /persona /giorno
a fronte di valori di 1.4 e 11 grammi /persona
/giorno riportati per gli stessi parametri nella sentenza a pagina 855.
Ed analogamente
,per quanto riguarda i soli mitili, il consumo medio e quello massimo risultano
rispettivamente di 1.6 e 8.64 grammi/persona /giorno a fronte dei valori 1 e 4
grammi /persona7 giorno riportati per gli stessi parametri alla tabella a pagina 855 della sentenza .
Va anche rilevato come nel considerare la
assunzione di diossine e composti simili
il Tribunale abbia fatto riferimento
solo al consumo delle vongole,
tralasciando quello delle cozze
ciò che comporta una sottostima
dei consumi.
Per i forti consumatori, considerando il
consumo complessivo di vongole e cozze si ottiene un consumo globale di più di 28 grammi/persona /giorno( 19,75
grammi di vongole + 8,64 di mitili) valore che rientra tra quelli considerati
dal P. M .
E assumendo per i bivalvi un valore di
contaminazione medio, pari a quello risultante dalla perizie, ovvero di 1,85 p
g (I-TE) g limitatamente a PCDD e PCDF
senza considerare i P C B ed un consumo di 28 grammi /persona /giorno per un
individuo di 70 KG di peso corporeo risulta un assorbimento pari a
0.74 p g l TE /kg p c . giorno
Limitando per il momento il discorso ai
PCDD/F e considerando una esposizione di fondo molto bassa ,pari a 0,4 p g I-TE
/kg p. c giorno una esposizione aggiuntiva di 0,74 p g l -TE / kg p c/ giorno
porterebbe a una esposizione globale paria quasi 3 volte quella di fondo
ed invece nel caso di una esposizione
di fondo piu elevata porterebbe ad una
esposizione complessiva dell’ordine di
quasi volte quella di fondo .
Trattasi in ambedue i casi di incrementi elevati rispetto al fondo.
Ed estendendo la analisi all’insieme dei
composti simili alle diossine ,il valore di esposizione aggiuntiva di 0,74 p g
l T E/kg p c/giorno, se addizionato ai valori di fondo per l’Europa per tutti i
composti compreso tra 1,2 e 3,0 p g WHO - TEQ/kg ,porterebbe comunque ad un
aumento significativo
Sommando il valore aggiuntivo a quello minimo
si arriva ad un valore quasi pari a 2 pg
e ad un livello comunque superiore al valore minimo del TDI dell’OMS (
compreso tra 1 e 4 p g al giorno) Solo questo modo di procedere appare corretto
perché i parametri utilizzati dall’OMS
e dall’UE si riferiscono
all’esposizione globale per ingestione ,inclusa quindi anche quella di
fondo e non solo quella derivante dal peso specifico dell’alimento .
Il valore di
0.75 si riferisce poi solo al contributo di PCDD/F e non considera quello dei PCB e quindi è una sottostima
della esposizione .
Utilizzando il criterio di correzione per la
valutazione anche dei PCB che comporta un incremento del 50-60% il valore di
0.74 viene a corrispondere a circa 1.1.-1.2 e se, a questa esposizione, si aggiunge quella di fondo di 1.2- 30 si
supererebbe il limite di 2 p g .
3.9.4.2
I dati dell’istituto
nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione sui consumi medi
giornalieri pro capite di molluschi in
Italia
Va innanzitutto premesso che il predetto
istituto effettua una distinzione tra
il consumo medio totale pro capite ed il consumo pro capite medio per i soli
consumatori , considera cioè oltre la media
totale del consumo giornaliero pro –capite ,anche la media dei soli
consumatori , identificati come tali e diversi dai non consumatori o
consumatori sporadici.
Dagli studi effettuati risulta: un consumo
medio nazionale totale dei molluschi freschi di circa 4.2. grammi persona
giorno, un consumo medio di molluschi freschi dei consumatori – che
costituiscono circa l’11% della popolazione-
di circa 36 .0 grammi persona giorno; il rapporto tra le due medie è
dell’ordine di 10.
Lo stesso ente
precisa che il peso percentuale dei mitili nei molluschi freschi è del 29.6 %( quantità espressa al netto
degli scarti, parte edibile)
Per quanto concerne i mitili i dati diventano :ì consumo medio nazionale totale dei
mitili freschi di circa 1.2 grammi
persona giorno consumo medio di mitili freschi dei consumatori ( che costituiscono circa l’11% della popolazione) di
circa 10.6 grammi / persona giorno; per quanto riguarda le vongole i dati
indicano:consumo medio nazionale circa 0.334 grammi persona giorno
consumo medio molluschi freschi dei consumatori ( che costituiscono
circa il 2,2 della popolazione ) circa
15.0 grammi /persona / giorno.
Conclusivamente i dati statistici elaborati
dal predetto Istituto indicano per la popolazione italiana, per gli effettivi
consumatori di mitili e vongole un consumo medio giornaliero di circa 25.6
grammi / persona /giorno, stima che si può sicuramente assumere essere
inferiore rispetto al consumo da parte
dei consumatori medi di Venezia .
Anche nell’ambito di questa categoria, che
indica sempre valori medi ,si può assumere che vi siano individui che consumano
meno e individui che consumano di più.
Comunque il predetto quantitativo di consumi
-pari a 25.6- costituisce una sottostima rispetto alla realtà veneziana ed è
molto piu elevato di quello proposto
dalla difesa per i forti consumatori, mentre risulta compreso tra i valori
indicati dalla accusa .
Si tratta anche di una valore non molto
diverso da quello derivato dai dati Coses presentati dai consulenti della
Difesa ,considerando i fattori di resa dell’Istituto nazionale della nutrizione
e pari a circa 28 grammi persona giorno.
Dopo avere riportato i valori dei consumi
medi lordi indicati nelle tabelle
utilizzate dal Tribunale e relativi all’Italia , al Comune di Venezia ed ai forti consumatori , risulterebbe, che il consumo medio di
bivalvi nel Comune di Venezia è circa 6.5 volte superiore a quello medio
nazionale,mentre
il consumo dei
forti consumatori veneziani risulterebbe
circa 46 volte superiore a quello medio nazionale .
Per i consumi netti di vongole e cozze
riportati egualmente i valori di consumi medi relativi all’Italia, al Comune di
Venezia e ai forti consumatori risulterebbe che il consumo medio di questi
bivalvi nel Comune di Venezia è 8 volte maggiore di quello medio nazionale e
per i forti consumatori 50 volte maggiore di quello nazionale.
A parte l’esistenza
di alcuni errori – ad esempio il valore di 0,3 grammi /persona /giorno che
viene indicato come rappresentativo del consumo di vongole e cozze mentre invece risulterebbe corrispondere la consumo di sole vongole
secondo i dati dell’istituto nazionale per la Nutrizione – assumendo comunque
come valido- quanto indicato nelle tabelle utilizzate dal Tribunale -
risulterebbe che il rapporto tra i consumi dei forti consumatori veneziani ed
il consumo medio nazionale è dell’ordine
di circa 50 ( 46 per i lordo e 50 per il netto).
Considerato che
secondo l’istituto di cui sopra il consumo netto medio nazionale di mitili e
vongole è di circa 1.5 grammi persona giorno moltiplicando questo dato per 50,
il valore diviene 75 grammi persona giorno e questo dato può essere confrontato
con quello del consumo medio nazionale dei consumatori pari circa 25 grammi
persona giorno.
Le conclusioni che vengono tratte dal P .M
sono le seguenti: l’Istituto considera due categorie di consumatori quella
media totale della intera popolazione e
quella media degli effettivi consumatori;.il consumo medio dei consumatori
risulta per gli alimenti ittici superiore di almeno un ordine di grandezza
rispetto a quello medio totale .
Sulla base del
valore della resa calcolata dal predetto Istituto,e utilizzando i dati di
consumo dei forti consumatori, indicati nella sentenza ,si ottiene per questa
categoria un livello di consumo
complessivo di mitili e vongole dell’ordine
di 28 grammi / persona /giorno che
rientra tra quelli proposti da
piu consulenti del P. M con le conseguenze che ne conseguono.
Anche il livello indicato dall’istituto dei
consumi di vongole e cozze per la
categoria degli effettivi consumatori di circa 25,6 grammi persona giorno è certamente
in difetto rispetto alla realtà veneziana e comunque risulta compreso tra
quelli indicati dal PM.
Anche per il consumo medio giornaliero della
popolazione, applicando ai valori indicati dallo istituto dell’ordine di circa di1,5, grammi persona
giorno il fattore 50- che riguarda la differenza tra il consumo dei
forti consumatori e quello medio della
popolazione generale- si ottiene il valore di 75 grammi persona giorno che è dell’ordine di quelli
piu elevati ipotizzati dall’ accusa .
Le stime dei consumi riportate nella
motivazione sono invece significativamente piu basse ,e quanto sopra riportato,
mette invece in evidenza la ragionevolezza dei dati indicati dai consulenti del
PM..
3.9.5 Alcune considerazioni su”gli esiti
della valutazione tecnica correttamente operata –per il Tribunale dagli esperti
delle difese(relazione Pompa del 18-4- 2002)
relativamente alla comparazione con
i dati di altri paesi
A pagina 876
della motivazione sono riportate le concentrazione di inquinanti rilevate negli
organismi della laguna e quelle rilevate in altri paesi ( senza precisare il criterio di tossicità
utilizzato) e la concentrazione di
diossine riportata ,per le vongole dei canali industriali è di 1.2 p g TE/G.
Secondo la perizia Bonamin
invece la concentrazione media nei bivalvi campionati è pari a 1.85 pg l -TE/g
quindi superiore–benché valutata senza considerare il PCB - e quindi
certamente in difetto- e si trova al secondo posto in ordine di grandezza della
serie di 11 dati della figura a pagina 876 della motivazione, dopo il dato
relativo ai pesci svedesi .
Alla luce di
questo dato ritiene il P. M che non possa condividersi la affermazione del
Tribunale, secondo cui invece il valore di inquinamento dei bivalvi della laguna
veneziana risulta confrontabile con quello medio riscontrato nei pesci e
molluschi di altre aree, essendo invece i valori accertati nella perizia
Bonamin ben più elevati, se confrontati con quelli europei e soprattutto se
confrontati con quelli relativi ad altre
zone della laguna.
Di particolare
rilevanza si ritiene essere un documento dell’unione europea ,relativo alla
esposizione, per ingestione attraverso la dieta , a diossine e PCB correlati
,nei paesi membri.
Da tale
documento risulta che solo 5 su 49 campioni ,relativi ad alimenti ittici
europei ,sono superiori alla concentrazione media di 1.85 pg I-TE/g rilevata
dalla citata perizia.
Ne consegue che la contaminazione di bivalvi
nella laguna si attesta sulla fascia alta dei
valori europei.
3.9.6
Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia ,le
diossine e composti simili
Perizia tecnica Bonamin + altri del 1997 ,
consulenza tecnica Limonato + altri del 1998 ,indagine istituto superiore di
sanità Di Domenico + altri 1996
3.9.6
Microinquinanti tossici nella laguna di
Venezia: le diossine e composti simili
la perizia tecnica di V Bonamin, A Di Domenico,R Fanelli, Turrio
Baldassarri(1997), la correlata Consulenza tecnica di L Simonato ,L Tomatis , P
Vineise G.A Zapponi(1998) e l’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (A di
Domenico, Lturrio Baldassarri, G Ziemacki 1996)
3.9.6.1Premessa
Le predette indagini tecniche acquisita al
presente giudizio rilevano ,in quanto richiamate spesso anche dal Tribunale ,
dal quale però non sono state correttamente interpretate .
3.9.6.2
Inquinamento da microinquinanti nella
laguna veneta.Rapporto conclusivo dell’Istituto superiore della Sanità per il Ministro della sanità
21-1-1996(allegato 3 alla relazione di Perizia Bonamin et al 1997)
Va premesso che lo studio di cui sopra
riguardava i rischi relativi al consumo
di bivalvi e prodotti ittici nelle aree
in cui la pesca è consentita e che già all’epoca la pesca era invece vietata
nelle aree della zona industriale, con
provvedimenti di sanità pubblica successivamente reiterati ;
che i
rilevamenti fatti che riguardano i microinquinanti organici e d
inorganici sono state eseguiti su 20 campioni di biota raccolti in larga
maggioranza in zone della laguna, ufficialmente destinate all’allevamento e
alla pesca.
Tutti i campioni considerati in questo studio
sono stati inclusi nella perizia Bonamin e costituiscono circa la metà dei
campioni complessivamente esaminati .
Il P. M riporta quindi l’elenco dei campioni
prelevati in 6 aree, di cui solo le prime due non destinate ad allevamento e
pesca , e dalla analisi dei risultati emerge che le concentrazioni di diossine
sono molto basse ,con una media di concentrazione dell’ordine di 0.45 p g
I-TE/g o di pari circa 0.52 p g l- TE/g
–includendo anche i campioni provenienti dall’area industriale e dall’area
urbana- sovrapponibile a quella
relativa alle sole aree di allevamento
e pesca .
Le conclusioni
dell’accertamento sono nel senso di conseguenza che le concentrazioni rilevate
sono confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati in aree sotto
l’influenza di un impatto antropico diretto moderato o trascurabile
Nella successiva perizia Bonamin del 1997
sono presentate 41 determinazioni di PCDD/F (I-TE)12 delle quali relative
all’area 1 ( 9 su bivalvi, inclusa i dall’indagine del 1996 e 3 su pesci), 1
relativa all’area 2 , 7 relative all’area 3 ,12 relative all’area 4 , 2
relative all’area 5, e 7 relative all’area 6.
Secondo i consulenti della difesa le
conclusioni a cui perviene la perizia
Bonamin non sarebbero dissimili da quelle prese nel rapporto redatto per conto
dell’istituto superiore della sanità
Dalla lettura della consulenza risulta invece
che cosi non è, perché invece le conclusioni sono molto dissimili
3.9.6.3 Perizia tecnica di VBonamin , A Di Domenico,R Fanelli l Turrito Baldassari
L’indagine che
era finalizzata a verificare l’impatto del Petrolchimico su sedimenti lagunari
ed organismi bentonici e di valutarne
l’utilizzabilità di quest’ultimi a fine alimentare ,si è basata sugli
accertamenti di laboratorio eseguiti da tre diversi istituti ,e ha incluso la
determinazione degli idrocarburi policiclici
aromatici , delle diossine
,PCB,DDT esaclorobenzene e metalli pesanti
La discussione che segue riguarda invece solo
le diossine (PCDD/F)
Seguendo gli stessi criteri utilizzati prima dall’Istituto l’area è
stata divisa in 6 zone
Le misura
effettuate hanno rivelato la differenza tra il livello medio di contaminazione
di PCDD/F dei sedimenti nell’area industriale e nell’area adibita a pesca e
allevamento di in fattore dell’ordine di 100,pari circa 1 pgl-TE/g, ed
analogamente per il confronto con i livelli di fondo italiani ed europei.
Questa
differenza non è irrilevante e dimostra una condizione di inquinamento molto
elevato nell’area industriale della laguna .
Le analisi, eseguite nella consulenza
Bonamin, nel numero di 41, divise tra le 6 aree ,contengono una serie
abbastanza numerosa di dati e possono quindi fornire valutazioni affidabili
della contaminazione dei bivalvi che sono organismi stanziali e
sono quindi indicative delle condizioni del luogo in cui sono stati
prelevati.
Le misure effettuate sui sedimenti hanno
indicato un fattore dell’ordine di 100 tra il livello medio di contaminazione
da PCDD e PCDF sui sedimenti e il livello medio nell’area adibita a pesca
e allevamento pari a circa
1pgl-TE/G, differenza significativa che dimostra una condizione di
inquinamento molto elevato nell’area industriale dalla laguna .
Le concentrazioni nei bivalvi dell’area 1
variano da 0,52 p g- I-TE /g a 4.9 p g I-TE /g con una media di 1,85 p g
I-TE/g.
Il valore piu
elevato della serie di campioni risulta
dalla media di due determinazioni eseguite separatamente in due diversi laboratori e si riferisce a
campioni prelevati da un sito al centro del canale industriale sud ed è quindi rappresentativo di una area
piuttosto ampia .
Trattasi pertanto di un valore che
costituisce valido indicatore della contaminazione massima ,da considerare
nelle valutazioni di rischio ,in accordo alle procedure usuali in questo ambito
( che prevedono la indicazione del caso peggiore)
Le concentrazioni nei bivalvi dell’area 4
variano invece da 0,079 p g I-TE/g (
dato relativo alle vongole) a 0,63 p gI -TE/g(dato relativo su mitilo )con una media di 0,42 p g –I-TE
/G
È utile a questo punto rilevare come i valori
medi di concentrazione rilevati nei prodotti ittici provenienti da varie parti
dell’ Adriatico- espressi in termini di TCDD – equivalente siano compresi tra
0.11 e 0.24 p g I-TE/g sulla base di un ampio campionamento.
Trattasi di
valori ancora piu bassi perché relativi
ad aree senza impatto industriale .
La differenza tra i valori della area 1 e
quelli dell’area 4 è significativa e varia di un fattore 4-5- mentre quella tra i valori dell’area 1
e i valori della aree pulite dell’Adriatico
e superiore ad un fattore 10.
Va comunque a questo punto ribadito che è un errore considerare la perizia
Bonamin e altre del 1997 e volta la prima a definire l’inquinamento dell’area
industriale come sovrapponibile e
concordante con lo studio ISS del 1996
,volto definire l’inquinamento dei prodotti
della aree di allevamento e pesca.
3.9.6.4 La consulenza tecnica di L Simonato , L
Tomatis P Vineis e G.A Zapponi
del (1998)
Di questa
consulenza il Tribunale ha riportato
le conclusioni laddove si dice che non emergono elementi che comportino un rischio piu elevato nelle
popolazioni della laguna rispetto a quelle di terraferma e che non appaiono
tendenze costanti che consentano di individuare una delle due popolazioni come soggetta a rischi piu elevati .
Le frasi
riportate sono però parziali e le conclusioni complete sono invece nel senso
che ,pur non emergendo elementi che
depongano a favore di un rischio piu elevato nella popolazione lagunare
rispetto a quella di terraferma , che dall’insieme della crescita nel tempo di
alcune sedi tumorali emerge la necessità di indagini più approfondite , per
poter individuare eventuali fattori eziologici , tra i quali anche esposizioni
legate all’inquinamento della laguna.
Vengono quindi riportati i parametri epidemiologici
sui quali si basano le predette conclusioni, che evidenziano un aumento
significativo di tutti i tumori, ed in particolare per i tumori alla mammella
per i linfomi non hodgkin per il
periodo 1990-1994 per entrambi i comuni e per entrambi i sessi e l’accertato aumento è di fatto , secondo
le conclusioni dei consulenti ,compatibile con un aumento del rischio, anche se
la verifica della causa richieda ulteriore approfondimento
Conclusivamente risulta accertato che:
a) vi è stata
contaminazione della laguna veneta in gran parte a causa degli scarichi
industriali
b) sono state esaminate sostanze cancerogene
e tali sostanze sono state rinvenute nel sedimento e nel biota ove tendono ad
accumularsi
c)una
esposizione prolungata a livelli anche molto bassi a sostanze cancerogene
comporta un aumento di rischio di tumori, considerato anche l’effetto sinergico
dei vari componenti della miscela cancerogena
d) la
particolare situazione idrologica della
laguna ,caratterizzata dalla lentezza del ricambio e della
diluizione dei contaminanti rende l’inquinamento grave .
Il P. M riporta poi i provvedimenti da adottare secondo i suggerimenti dei consulenti .
Da pagina 1420 a pagina 1427 vengono poi
ripetute in modo sintetico tutte le
considerazioni svolte sub 3.9.6
Sul significato della contestata permanenza in atto
Immotivata e
contraddittoria assoluzione degli
imputati da tutte le contravvenzioni
loro rispettivamente contestate con
permanenza in atto
Viene
innanzitutto ricordato che la costruzione
della accusa in ordine ai
delitti di cui agli art 434,439,440 nella
forma di cui all’art 452 c.p. non è quella del reato permanente, bensì
quella di una pluralità di reati ad
eventi plurimi differiti rispetto alle condotte ,riunite dalla cooperazione
colposa e/o dalla continuazione, e che la condotta degli imputati viene
contestata a ciascuno per i periodi di rispettiva competenza
Dopo avere
premesso alcune considerazioni di carattere generale circa la figura del reato
permanente ed in particolare:
la sua compatibilità sia con la condotta commissiva come con la condotta omissiva ;
il suo accertamento sulla base delle risultanze processuali ;
la possibilità che venga rilevata anche
d’ufficio ;
la compatibilità
con la figura del concorso di persone e con la figura della cooperazione colposa di persone nel reato;
l’appello affronta il tema della legge
applicabile nel tempo.
Secondo la
giurisprudenza, nel caso di reato permanente ed in applicazione dei principi di
cui all’art 2 c .p. se la successione delle leggi comporta una sanzione piu
grave,dovrà applicarsi la norma piu
grave all’intero reato, perché sotto la vigenza di quest’ultima il reato ha
avuto sia una parte di esecuzione ,sia la fase terminale della consumazione .
Ne consegue che nella fattispecie ,con
riferimento alla normativa introdotta dal D .Lgs 152/1999 piu severa della precedente, le condotte costituite
dallo scarico senza autorizzazione da insediamenti produttivi e da scarico
superiore ai limiti tabellari di accettabilità, gia previste come reato
dalla art 21 della legge n319/76 ,anche se poste in essere prima della entrata
in vigore ma protrattesi nel tempo sino alla entrata in vigore della nuova disciplina , devono essere sanzionate
secondo la nuova e piu severa normativa .
Risultano
contestate e provate le seguenti violazioni sulla cui sussistenza si è
ripetutamente pronunciata la Corte di Cassazione.
art 17e 18 D.P.R 19-3-1956 n303 norme generali per
l’igiene del lavoro
E poiché non sono mai state nel caso di specie adottati mezzi efficaci per evitare i danni che potevano essere arrecati ai lavoratori ed alla ambiente il
reato sussiste tutt’oggi.
Per le violazioni ad entrambe le predette
normative la Cassazione si è pronunciata in senso positivo per quanto riguarda
la configurabilità del reato permanente .
DPR
10-9-1982 n915 in attuazione delle direttive europee relative allo smaltimento dei policlorodifenili e
policlorotrifenili e dei rifiuti tossico nocivi sostituito dal DLG.vo 5-2 1997
in attuazione delle direttive europee sui rifiuti pericolosi , L regione
Veneto 23-4-1990 n28 recante nuove norma per la tutela dell’ambiente
Relativamente a questa norme dopo la sentenza
delle Corte di Cassazione del 1994 che aveva ritenuto configurabile il reato di gestione di discarica abusiva solo nella forma commissiva, sono
intervenute successive decisioni di segno opposto che devono essere condivise
in quanto la legge
punisce non solo
la realizzazione della discarica ma anche il suo consapevole mantenimento o l’inerzia consapevole ( rilevante sul punto la sentenza della Cass
.pen 3-1-1995 n163 e Cass pen
21-05-1996 III sezione)
DL
27-6-1985 n312 convertito nella legge 8-8-1985 n431 recante disposizioni
urgenti per la tutela di zone di particolare interesse ambientale
Anche per questo tipo di reato ,consistente
nella esecuzione di opere senza la prescritta autorizzazione paesistica ,si
configura la permanenza dovuta al mantenimento consapevole della alterazione .
Dl vo
15-8-1991 n277 in attuazione delle
direttive europee e in materia di
protezione dei lavoratori dai
rischi derivanti da esposizione ad
agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro
L 15-3- 1963 n 366 nove norme relative alla laguna di
Venezia e Marano
L 16-4-1973
n171 “interventi per la salvaguardia di Venezia“
DPR20-9-1973 n962
recante norme per la tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli
inquinamenti delle acque
Per tutte queste
contravvenzioni è indubitabile che sia configurabile la realizzazione di una
condotta in forma permanente .
Il Tribunale
senza motivare ha assolto gli imputati da tutte le contravvenzioni pur avendo
in alcune parti della sentenza riconosciuto che erano state commesse .
3.11
conclusioni relative al secondo capo
d’accusa
Non è vero che l ‘accusa sia indeterminata
essendosi a ciascuno addebitata la condotta tenuta nel periodo di tempo per
ciascuno indicato nel capo d imputazione
Ad un primo gruppo di imputati –gruppo
Montedison -sono addebitate le condotte di cui al capo 2 lettera A ,ad un
secondo gruppo di imputati-gruppo Enichem – Enimont – sono invece addebitate le
condotte contestate al capo 2 lettera B ;
altri imputati
,che sono transitati da una azienda alla altra, devono rispondere di entrambe
le contestazioni
Parte quarta
Le società
Posizioni di garanzia
I ruoli
Le responsabilità
dei singoli imputati
Il Tribunale laddove ha riconosciuto
sussistere una responsabilità penale –pur dichiarando poi la prescrizione per
il relativo reato- ha individuato solo alcuni responsabili, senza motivare in
ordine alle ragioni per cui invece avrebbe assolto altri imputati che, per le
posizioni di garanzia rivestite avrebbero
dovuto essere egualmente ritenuti responsabili.
Il Tribunale non
affronta né approfondisce il problema della responsabilità legata alle
posizioni di garanzia.
Il Tribunale non ha egualmente affrontato la
questione dei rapporti tra società controllata e società controllante .
Segue da ultimo nell’atto d’appello la
esposizione delle vicende societarie con il passaggio della gestione degli
impianti di produzione del CVM/PVC
dalla Montedison alla Montepolimeri , alla Montedipe, a Riveda s.r.l alla società Enichem polimeri ,alla Enichem base ,alla Enichem
Anici a Enimont Anic a EVC Italia nonché l’esame della rilevanza del ruolo svolto dall ’ ENI nella
vicenda .
Richieste del PM
di rinnovazione del dibattimento e di riforma della sentenza di primo grado
La richiesta di rinnovazione ha per oggetto
solo la acquisizione di alcuni documenti e la audizione degli ufficiali di polizia
giudiziari della Guardia di Finanza in relazione ad alcuni accertamenti
risultanti dalle documentazioni che richiede di acquisire
Appellavano avverso
la sentenza del Tribunale anche le parti civili esponendo motivi d’appello sostanzialmente corrispondenti a
quelli indicati dal P.M.
Nel
proprio atto d’appello la difesa dell’avvocatura dello Stato introduceva
invece più specifiche critiche alla sentenza nella parte in cui
escludeva la responsabilità degli imputati
relativamente alle contravvenzioni
in materia di inquinamento idrico.
Osserva in particolare l’avvocatura come sia
provato il ripetuto superamento dei limiti di tollerabilità tabellarmente
fissati dalla legislazione speciale per
Venezia e dalle successive norme aventi valore su tutto il territorio
nazionale –legge 319/76 -in materia di scarichi idrici, in base alle analisi
che erano state fatte dallo stesso gestore dello stabilimento.
E poiché - come affermato dallo stesso Tribunale
-ogni superamento dei predetti limiti integra una violazione del
divieto e quindi della norma risultava incomprensibile e contraddittoria la
assoluzione di tutti gli imputati anche dalle contravvenzioni , oltre che dai
reati di avvelenamento e adulterazione .
Risultava
inoltre documentalmente provato che
veniva scaricata in fognatura l’acqua di lavaggio della pulizia della autoclavi
fortemente inquinata dalla presenza di CVM .
Tali scarichi
non erano e non potevano essere autorizzati attesa la loro provenienza e
contaminazione con una delle sostanze
indicate al punto 3.6 della tabella 1.3 contenuta nella Delibera del Comitato interministeriale di cui all’art 5 del DPR 10-9-1982 n 915 in
data 27-7-1984 ciò che comportava la
classificazione dei rifiuti liquidi come tossico nocivi o pericolosi.
Il Tribunale, nell’andare di contrario
avviso, aveva invece ritenuto che la citata delibera non introducesse un
principio di presunzione di tossicità del rifiuto in ragione della sua
provenienza e che l’onere della prova gravasse anche in questo caso sulla accusa.
Si osservava invece come in senso contrario si fosse ripetutamente
pronunciata la Suprema Corte.
Veniva poi
criticata la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto applicabile agli
scarichi delle acque di processo provenienti
dai reparti CV22/23 e CV 24/25 la disciplina relativa agli
scarichi,invece di quella relativa i rifiuti tossico nocivi o pericolosi
Innanzitutto
doveva essere premesso che le acque di processo, provenienti dai predetti
scarichi ,non si immettono direttamente nel corpo ricettore ma che confluiscono
nello scarico SM15 e successivamente
nell’impianto di trattamento SG31 ,gestito da soggetto diverso da quello
titolare del Petrolchimico , e che si tratta quindi di uno scarico indiretto
,per tale ragione escluso dalla disciplina dettata per gli scarichi idrici e
sottoposto alla disciplina relativa ai rifiuti .
Veniva
quindi esaminata in modo preciso la
disciplina normativa da cui dipendono i limiti di applicazione delle due leggi
fondamentali –quella che riguarda gli scarichi e quella che riguarda i rifiuti
:innanzitutto l’ultimo comma dell’art 2
D. P. R 915/82 che sub lett d) stabilisce
la non applicabilità del D.P.R agli scarichi disciplinati dalla
legge 10-5-1976; quindi il penultimo
comma della stessa norma fa salva la
normativa dettata dalla legge 10-5-1976 n.319 e successive modifiche e relative
prescrizioni tecniche per quanto
riguarda la disciplina dello smaltimento nelle acque , sul suolo e nel
sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all’art 2 lettera e)punti 2 e 3 della citata legge,
purchè non tossici e nocivi ai sensi
del presente decreto.
Ora con
riferimento a tali disposizioni viene innanzitutto evidenziato che la esenzione
viene fatta con una duplice previsione riferita agli scarichi e allo smaltimento; che il legislatore ha talvolta
usato il termine smaltimento come sinonimo di scarico benché il concetto normativo di smaltimento sia più
ampio di quello di scarico comprendendo fasi diverse dalla semplice immissione
del rifiuto nell’ambiente quali la
raccolta, il trasporto ,lo stoccaggio ; che il sesto comma ha
una formulazione più ampia di quella dell’ultimo comma e fa riferimento
ad una ipotesi di smaltimento di
liquami nelle acque , che non è invece prevista nell’art 2 legge 319/76 che riguarda solo lo
smaltimento nel suolo e nel sottosuolo per i liquami e lo smaltimento, nel suolo adibito ad uso agricolo e non ,nel
sottosuolo ed nel mare per i fanghi ;
che l’interpretazione condivisa dal Tribunale secondo cui la esenzione del sesto
comma esclude dalla disciplina dei rifiuti solo lo smaltimento dei liquami e fanghi di cui all’art 2 legge Merli , a
meno che non siano tossico nocivi , viene ad
individuare una disciplina speciale
, senza però individuare gli elementi specializzanti che permettano di distinguere le due fattispecie ; che la predetta
interpretazione comporterebbe delle
incongruenze in quanto consentirebbe di
versare nelle acque , seppure nel rispetto della legge 319/76 ,rifiuti tossico nocivi la interpretazione fatta propria dal Tribunale verrebbe poi a porsi in contrasto con il divieto,
stabilito con delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque
dall’inquinamento del 7-1- 86 di scaricare in mare rifiuti tossico
nocivi.
Doveva ancore evidenziarsi come sulla base
delle definizione normativa del termine liquami contenuta nelle delibera del
4/2 /77 allegato 5, nessuna distinzione poteva essere operata rispetto al
termine scarico, in quanto per liquame doveva intendersi qualsiasi sostanza suscettibile
di essere oggetto di scarico.
In base a queste
considerazioni doveva pervenirsi ad una interpretazione opposta rispetto a
quella sostenuta dal Tribunale e
ritenere che il limite di carattere generale si riferisca a tutti gli scarichi
disciplinati dalla legge 319/76 ,che sono esonerati dal rispetto della
normativa di cui al DPR 915/82 solo se non classificabili come tossico nocivi
ai sensi del citato D.P.R.
Ed infine la interpretazione che viene
ritenuta corretta dall’appellante
risulta conforme al contenuto delle direttive comunitarie in materia.
L’appellante cita quindi una serie di
decisioni della C. C dalle quali risulterebbe che l’esenzione contenuta nel
sesto comma dell’art 2 D. P R 915/82 ha carattere generale e riguarderebbe tutti gli scarichi indistintamente sia diretti che indiretti e
che , quando sono classificabili come tossico nocivi, verrebbero sottoposti
alla disciplina di cui al citato D.P.R.
Altra valutazione erronea è quella in base
alla quale il Tribunale ha escluso che le acque provenienti dai reparti abbiano
natura tossico nociva, risultando accertato il superamento dei limiti di cui
alla tabella allegata alla delibera del C. I del 1984 in sole
dieci volte in un lungo arco temporale
.
In vero, una
volta esclusa la qualificazione dei rifiuti come tossico nocivi in base alla sola loro provenienza da
determinate lavorazioni, doveva il Tribunale accertare se le acque contenevano
C .V.M. e nel caso positivo, se la loro concentrazione superava il limite
fissato dalla Tabella di cui alla delibera del 1984.
E la
dimostrazione che anche una sola volta la concentrazione di C. V . M. era
superiore al limite stabilito nelle
tabelle, comportava la classificazione del rifiuto come tossico nocivo, con il
conseguente divieto di smaltimento in
acqua attraverso un normale impianto di
depurazione, non autorizzato allo smaltimento dei rifiuti tossico –nocivi.
Il Tribunale
aveva poi ritenuto viziata da errori la consulenza tecnica del perito della
accusa dott Cocheo - senza consentire allo stesso di illustrare le ragioni di
quanto dallo stesso ritenuto, per cui veniva espressamente impugnata la
relativa ordinanza dibattimentale del
15-5-2001 chiedendo sul punto la rinnovazione del dibattimento.
Vengono quindi nell’atto di appello esposte le leggi scientifiche
utilizzate dai consulenti tecnici
delle parti, evidenziando i limiti e la
difficoltà di stabilire- secondo le leggi
di Henry o di Raoult- la concentrazione di C .V M nell’acqua partendo
dalla conoscenza di quella presente nell’aria, per concludere che un giudizio obiettivo avrebbe dovuto ritenere che non era possibile conoscere la reale concentrazione
del cloruro nelle acque scaricate in laguna
,in mancanza di un completo certificato di analisi ,che il
detentore dello scarico era tenuto ad
esibire per legge a dimostrazione che
non si trattava di rifiuto
tossico nocivo.
Ed era proprio per questa difficoltà che il legislatore aveva ritenuto di desumere la natura tossico
nociva del rifiuto dalla sua provenienza.
Il ritenere invece che nelle acque di
processo non fosse presente, se non in concentrazioni inferiore al limite
tabellare il cloruro è circostanza che si pone in contrasto con gli accertamenti fatti come ad esempio lo sversamento diretto in fognature del contenuto delle
autoclavi di polimerizzazione.
Non risultava
inoltre provata in alcun modo la affermazione del Tribunale, secondo cui non vi
era collegamento tra la fognatura dei reparti di produzione CVM/PVC e le vasche di neutralizzazione, al contrario la circostanza risultava
smentita dal fatto che il gestore dello stabilimento aveva posto proprio sopra
le vasche di neutralizzazione un gas cromatografo che doveva servire a misurare
la quantità di C V M presente nell’aria ,
a seguito di evaporazione dalle vasche.
Doveva quindi
ritenersi certa la presenza di C. V .M nell’acqua e per accertarne la attuale effettiva concentrazione era
stata richiesta una CTU che il Tribunale aveva rigettato e che veniva
riproposta in appello seppur in via subordinata.
Premesso quindi
che le acque provenienti dai reparti CV 22 e CV23 sono acque di processo che,
per il fatto di provenire da lavorazioni caratterizzate da elevata concentrazione di sostanze tossiche contengono rifiuti tossico nocivi , la cui
tossicità e pericolosità è pertanto desunta, per superare tale desunzione
,avrebbe dovuto il produttore dimostrare
che il refluo proveniente da a tale
reparto , prima di essere trattato nell’acqua , era privo di CVM o che
la concentrazione del gas era inferiore a quella prevista nella Tabella, mentre
invece nessuna della analisi chimiche eseguite dal produttore ha avuto per
oggetto la ricerca del CVM.
Ciò comporta la violazione degli articoli 16
e 26 del DPR 915/82 e della normativa
regolamentare di cui alla citata
Delibera del 27-7-84, essendo stati trattati come scarichi idrici dei
rifiuti tossico nocivi.
Le considerazioni svolte dal CT Cocheo ,con riferimento ai processi di
lavorazione e produzione del CVM, in
particolare il fatto che, affinché il cloruro di vinile possa emergere dalla
soluzione acquosa é indispensabile che questa sia saturata , dimostra al
presenza del CVM in misura superiore a
quella consentita dalla tabella ,perché
la saturazione del cloruro di vinile in
acqua si verifica quando la
concentrazione e pari a 1.100 mg/kg ovvero
a 2,2 volte la CL della tabella
1.1. della delibera del CI.
Il fatto che nelle analisi non risultasse la
presenza del CVM non può poi fare ritenere che tale sostanza non fosse presente bensì che non era stata ricercata , infatti quando una sostanza
non era presente, ma era stata ricercata, ne veniva fatta la relativa
annotazione .
Andava quindi evidenziato come per un
corretto smaltimento dei rifiuti ,ovvero per il loro incenerimento avrebbero
dovuto sostenersi dei costi pari ad 1.200.000-1.400.000 lire al metro cubo moltiplicati per il
numero di metri cubi smaltiti ogni anno e che secondo al stessa difesa
erano pari a 210.000 metri cubi
all’anno, spesa che il soggetto obbligato non aveva mai sostenuto e che
costituiva di conseguenza illecito profitto del trasgressore ai sensi dell’art
18-L349/86
Ed analoghe
considerazioni dovevano essere fatte con riferimento alle acque di processo provenienti dai reparti CV 24 e 25.
Appello incidentale dell’imputato Cefis.
In
conseguenza delle impugnazioni di cui sopra, ha proposto appello incidentale la
difesa dell’imputato Cefis Eugenio chiedendo assoluzione perché il fatto non
sussiste o per non aver commesso il fatto relativamente ai reati per i quali è
stata adottata diversa formula di proscioglimento, lamentando che in ogni caso
per detti reati elementi a suo carico sarebbero emersi dalle dichiarazioni di
coimputati contumaci rese in sede di indagine preliminare ed acquisite in
dibattimento senza che l’imputato Cefis avesse prestato consenso ad utilizzo
nei suoi confronti, onde, non utilizzabili tali elementi che avrebbero
comprovato una sua conoscenza e la consapevolezza dei problemi ambientali e
sanitari, non ne resterebbero altri sui quali fondare una qualunque prospettiva
di sua responsabilità, e si imporrebbe conseguentemente l’assoluzione con
l’ampia formula richiesta.
Tanto
premesso in ordine al deciso e argomentazioni del Tribunale in ordine al primo
ed al seconndo capo d’imputazione, ed ai relativi motivi di impugnazione degli
appellanti, va poi peraltro ancora ricordato che su tutti i predetti temi
controdeducono, con specifiche memorie depositate in cancelleria prima del
giudizio di appello ma riprendendo argomentazioni proposte già in primo grado
anche con specifiche memorie, i difensori degli imputati Smai, Pisani e Patron,
nonché dell’imputato Diaz, ed altresì la difesa degli imputati Grandi,
Trapasso, Belloni, Gaiba.
Oltre a
specifica contestazione e confutazione dell’attribuibilità alla lavorazione del
cvm delle patologie dei singoli lavoratori in particolare analizzate dalla
difesa in ultimo citata, con riferimento alle principali assorbenti tematiche
ripresentate con i motivi d’impugnazione dalle accuse appellanti si sostiene,
quanto al primo capo d’imputazione, in principalità l’assenza del nesso di
condizionamento, la cui prova mai sarebbe stata fornita dal P.M. che ancora nei
motivi d’appello non coglierebbe il punto focale del giudizio, ma altresì
l’oggettiva insussistenza dei reati contestati, l’assenza di colpa e la
tempestività ed adeguatezza degli interventi tecnologici ed impiantistici. Si
contestano altresì le argomentazioni tutte degli appellanti anche in tema di
cooperazione colposa, prescrizione, continuazione e permanenza.
Circa il
problema del rapporto causale tra l’esposizione a CVM e i singoli tumori e le
singole malattie contestati, premesse da parte della difesa quelle che ritiene
delle “verità” relative: all’idea di causa, rilevante per il diritto penale,
alla strategia accusatoria, che permea di sé anche i motivi di appello, fondata
su concetti di causa estranei al nostro ordinamento e da quest’ultimo
ripudiati, alla strategia della difesa, invece sempre fedele alle premesse
giuridiche sulla nozione di causa, estraibili dal codice penale, e ripercorse
la vicenda processuale di primo grado e quella che si ritiene puntuale
valutazione della sentenza del Tribunale di Venezia, si sostiene che questo
processo non doveva neppure avere inizio in quanto il comportamento degli
imputati non è configurabile come condizione sine qua non degli eventi lesivi,
e mai le diagnosi dei medici legali dell’accusa si sono espresse sull’esistenza
del nesso di condizionamento. Il giudizio dei medici legali ha sempre avuto per
oggetto l’idoneità dell’esposizione al CVM a provocare tumori e malattie,
idoneità rivelatasi, peraltro, inesistente.
Da ripudiare dunque la tesi dell’accusa che,
ignorando ostentatamente le prescrizioni in diritto, si è attestata su un
concetto di possibilità o probabilità della condizione necessaria estraneo a
quelli che dovrebbero essere i fondamenti granitici dell’amministrazione della
giustizia penale: per una sentenza di condanna non bastano neppure probabilità
della condizione necessaria assai elevate, quando non sono prossime a 100;
principio al quale sarebbe rimasto fedele il Tribunale di Venezia che, in un
paese democratico ove non è vero che auctoritas facit judicium mentre resta
vero che “lex facit judicium”, ha dato lo “jus” rispondente appunto alla legge secondo la quale “in tanto sussiste il
rapporto causale in quanto la condotta (azione od omissione) sia condizione
necessaria dell’evento lesivo”, e non condizione idonea o condizione
dell’aumento del rischio.
Sul punto, si contestano
nello specifico i motivi di appello del P.M. evidenziandone quelle che si
affermano essere dichiarazioni contrarie al vero: in primo la non veridicità
della coincidenza delle sue tesi sul nesso causale con i criteri enunciati
dalle Sezioni Unite della Corte Suprema.
Si osserva come, prima
della replica, il P.M., nel corso dell’intero dibattimento, aveva voluto che i
suoi esperti medico-legali intendessero la causa non come condizione
necessaria, ma come condizione idonea, e nella replica, aveva modificato la
propria posizione, sostenendo che la causa penalmente rilevante coincide con il
concetto di condizione necessaria, intesa però non come condizione necessaria
dell’evento lesivo, ma come condizione necessaria dell’aumento, o della mancata
diminuzione del rischio. Nei motivi di appello, contestando la rispondenza
della tesi del Tribunale sul rapporto causale con quanto esposto dalle Sezioni
unite, vi sarebbe il rilancio, da parte del P.M., della condizione idonea,
delle serie e apprezzabili possibilità, delle buone probabilità, della “molta
probabilità”, con approdo al concetto di condizione necessaria, come condizione
dell’aumento del rischio o delle probabilità
del verificarsi dell’evento, o della mancata diminuzione del rischio e
delle probabilità.
Le affermazioni del P.M.
sarebbero peraltro in insanabile contrasto con gli enunciati delle Sezioni
Unite relativi alla condizione necessaria dell’evento lesivo e al ripudio
dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio. Si analizza dunque quanto
abbiano sostenuto le Sezioni Unite, per capire se davvero la tesi enunciata
dall’accusa “combaci e coincida” con quella sostenuta dalla Corte Suprema,
coincidenza che si esclude, evidenziandola invece con i principi enunciati dal
Tribunale di Venezia. Premesso il forte richiamo, che si assume all’inizio
operato dalle Sezioni Unite, al concetto di causa penalmente rilevante, inteso
come condizione necessaria dell’evento lesivo, si osserva come le stesse
abbiano poi posto altro insuperabile paletto: il criterio dell’aumento o
mancata diminuzione del rischio di lesione del bene protetto, o di diminuzione
delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute,
ambiente) è un criterio estraneo al nostro ordinamento, che va perciò ripudiato
dai giudici.
Osserva dunque la difesa
che le Sezioni Unite rifiutano “un affievolimento dell’obbligo del giudice di
pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità” (p. 11), affievolimento
realizzato riconoscendo “appagante valenza persuasiva a serie ed apprezzabili
probabilità di successo (anche se limitate) e con ridotti coefficienti indicati
in misura addirittura inferiore al 50% dell’ipotetico comportamento doveroso
omesso”, e ciò sulla base delle pretesa che “quando è in gioco la vita umana
anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’intervento del
medico”.
“Le Sezioni Unite non
condividono questa soluzione” (p. 12), perché “con la tralaticia formula delle
serie ed apprezzabili probabilità di successo si finisce per esprimere
coefficienti di probabilità indeterminati, mutevoli, manipolabili
dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui” (p. 12).
Questa presa di
posizione delle Sezioni Unite, si accompagna all’altra, risoluta presa di
posizione sul ripudio del criterio dell’aumento del rischio come sostitutivo
della condizione necessaria dell’evento, e sul riconoscimento della fedeltà del
nostro ordinamento al criterio della condizione sine qua non o causa but for
per “le ragioni di determinatezza e di legalità della fattispecie di reato che
il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce”.
Su questi tre snodi – la
causa come condizione necessaria dell’evento lesivo, il ripudio del criterio
dell’aumento del rischio, il rifiuto di clausole indeterminate e manipolabili,
quali quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso
di condizionamento – si deve registrare una prima, assoluta convergenza tra la
sentenza del Tribunale di Venezia e
quella delle Sezioni Unite.
Sulla causalità,
infatti, il Tribunale di Venezia esordisce affermando che “secondo il codice
vigente, in tanto sussiste il rapporto causale, in quanto la condotta lesiva
(azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento” (sentenza, p.
128); questa individuazione della causa penalmente rilevante è poi accompagnata
dal ripudio del criterio dell’aumento del rischio: occorre “rifuggire – dice il
Tribunale di Venezia – dagli orientamenti che forzano il criterio causale per
ragioni di prevenzione generale, collocandolo nell’area dell’aumento del
rischio” (sentenza, p. 146).
Quanto al “passaggio dal
piano deterministico a quello probabilistico”, con l’uso della formula “serie o
elevate possibilità”, il Tribunale di Venezia afferma: “è ben vero che le
tendenze all’erosione del paradigma causale si sono manifestate con riguardo a
materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la
salute e la vita umana, ma ci si deve chiedere se queste specifiche esigenze di
giustizia possano condizionare una corretta ermeneutica del nesso causale, che
deve fondarsi su parametri logico-scientifici oggettivi. Infatti, perseguendo
questa strada, dominata dal criterio probabilistico di grado difficilmente
determinabile, ancorché qualificato alto o elevato, si incorre nel pericolo di
introdurre nell’accertamento della sussistenza del nesso causale il libero
convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare
esigenze ed attese di giustizia, che viene a sopperire la mancanza di certezze
scientifiche o comunque di consenso generalizzato della comunità scientifica”
(sentenza, p. 131).
Formule indeterminate e
indeterminabili, e quindi manipolabili, quelle relative al grado di
probabilità, ancorché definito alto: in questo modo, il Tribunale di Venezia
non fa che anticipare ciò che diranno poi le Sezioni Unite.
Un’altra basilare
anticipazione della sentenza delle Sezioni Unite è compiuta dai giudici di
Venezia quando riconoscono che la “responsabilità deve essere provata secondo
la regola di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio, regola che ormai fa
parte del nostro ordinamento” (sentenza, p. 148): le Sezioni Unite diranno che
“il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che, in base
all’evidenza disponibile, lo avvalorino nel caso concreto ... non può non
comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.
Errata sarebbe dunque l’affermazione del P.M.,
secondo la quale le Sezioni Unite non assumerebbero affatto il “modello
causale” invocato dal Tribunale di Venezia (p. 792), giacché, per i giudici di
Venezia, sarebbero rilevanti, per la spiegazione dell’evento, anche leggi
scientifiche di forma statistica, purché la frequenza consenta di inferire
l’explanandum con quasi certezza mentre, per le Sezioni Unite, sarebbero
sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità frequentista.
Qui, secondo il P.M.
starebbe il punto cruciale, perché, per le Sezioni Unite “è indubbio che
coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento,
rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia
della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella
fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal
positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più
aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso
di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere
utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di
condizionamento.
Sostiene però la difesa
che chi sappia capire, oltre che leggere, non tarderà a rendersi conto che i
giudici veneziani e quelli delle Sezioni Unite, a proposito delle leggi
statistiche, dicono esattamente le stesse cose: cosicché si può asserire che il
Tribunale di Venezia ha nuovamente anticipato le conclusioni delle Sezioni
Unite.
Infatti – dopo una
premessa di carattere generale, secondo la quale “il problema che si pone al
tribunale, al di là dell'individuazione del grado di probabilità o della
percentuale che si ritiene sufficiente ai fini dell'accertamento del nesso
causale, è piuttosto quello di
individuare un modello causale al tempo stesso compatibile con il nostro
ordinamento e idoneo a includere non
solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le
spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che
colloca l' approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la
ricerca e l'analisi di tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel): in tale modo anche le leggi
statistiche sarebbero in grado di
spiegare che un evento si è verificato a
patto che la frequenza consenta di inferire l'explanandum con quasi certezza
sulla base di una relazione logico-probabilistica” – il Tribunale di Venezia
non richiama più il criterio del coefficiente percentualistico vicinissimo a
100, ma si attesta, con decisione, sull’idea di “regola di natura
probabilistica” tale da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento
ricavabile dalla epidemiologia, dalla biologia molecolare, dalla tossicologia e
dalla medicina legale.
Il Tribunale avrebbe
d’altra parte tenuto conto dell’evidenza, della certezza processuale per operare
le verifiche “attente e puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi la
sentenza del Tribunale di Venezia risulta addirittura molto più chiara,
corretta e comprensibile della sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il
Tribunale di Venezia non considera inutilizzabili frequenze molto basse nella
successione di eventi singoli, come sono quelle relative alla successione tra
alte esposizioni a CVM e insorgenza dei singoli angiosarcomi, ma ciò che
dimostra quanto sia migliore, e più criticamente argomentata, la sentenza del
Tribunale di Venezia rispetto a quella delle Sezioni Unite, è l’individuazione
delle verifiche attente e puntuali: le Sezioni Unite non precisano quali siano
queste verifiche, pur ritenendole indispensabili; il Tribunale di Venezia lo
precisa, collegando la verifica attenta e puntuale al calcolo della forte
associazione tra rischio ed esposizione.
E facendo buon governo della regola, invece
fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole dubbio: regola probatoria e di
giudizio, propria di tutti i sistemi processuali dei Paesi democratici in forza
della quale se su una prova, sul riscontro di un fatto, su una conoscenza
scientifica (indispensabile per la sentenza di condanna) sussiste un dubbio
ragionevole, il giudice non ha alternative diverse dal proscioglimento. E
sarebbe altresì sfuggita al P.M. l’importanza della precisazione del Tribunale
in ordine alla necessità di verificare, sotto tale ottica, l’affidabilità di
una ipotesi scientifica (ad esempio, l’ipotesi formulata da IARC 1979 – 1987
sul legame causale tra CVM e i tre organi bersaglio diversi dal fegato). E’ un
problema non da poco, giacché, se il sapere scientifico di oggi può diventare
la favola di domani, il rischio di condannare degli innocenti è sempre
incombente quando, tra le prove di un processo penale, debba essere annoverato
anche il sapere scientifico.
Premesso quanto sopra in
diritto, la difesa sostiene che proprio in ordine alla condizione necessaria
l’accusa abbia proposto un “grande buco nero”, mai provando il nesso di
condizionamento tra malattie e tumori ed esposizione al cvm, atteso che le
stesse diagnosi individuali degli esperti medico-legali si sono limitate alla
idoneità lesiva, ancorate quindi alla causalità generale.
Ed ancora nei motivi non
esisterebbe neppure l’ombra di un accenno al nesso di condizionamento. Fallito
infatti anche il tentativo di ricostruzione della catena causale per
l’incertezza scientifica sul punto emersa dall’esame degli stessi consulenti
dell’accusa e soprattutto del dott. Simonato, il P.M. nei motivi butta lì, scritta in grassetto, l’affermazione delle
Sezioni Unite, secondo la quale “non potendo conoscere tutte le fasi intermedie
attraverso cui la causa produce il suo effetto, nè potendo procedere ad una
spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà
riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di
condizionamento tra condotta umana e singolo evento, soltanto con una quantità
di precisazioni” (p. 793).
Per la difesa il P.M.
dimostra però di non aver compreso detta affermazione avallando
un’interpretazione palesemente erronea del pensiero delle Sezioni Unite. La
loro sentenza, infatti, fa una osservazione ovvia e banale: non si può
pretendere che il giudice conosca tutte le fasi intermedie e tutta la serie di
eventi continui nel tempo e contigui nello spazio che collegano l’evento
iniziale con l’evento finale.
Dicendo “tutte”, però,
la Corte Suprema vuole dire che è sempre possibile, invece, l’individuazione di
alcune fasi intermedie, di alcuni anelli causali. E in effetti sarebbe sempre
possibile una spiegazione parziale del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma
sufficiente per l’attribuzione causale dell’evento lesivo. Ma nella specie
nessun esperto dell’accusa sarebbe riuscito a sostenere di aver individuato
“l’anello causale intermedio” che, attraverso una spiegazione parziale,
consente l’attribuzione della responsabilità.
E così, difettando la prova che l’esposizione
a cvm sia condizione necessaria delle patologie non riconosciute dal Tribunale,
è un falso problema quella della concausa ancora sostenuto nei motivi di
appello dal P.M. cui, si sostiene, sfugge completamente una nozione basilare
come è quella che concerne la relazione tra la nozione di condizione necessaria
e quella di causa sufficiente.
Né potrebbe sostenersi che il ruolo causale
del cvm sarebbe fuori discussione, avendo in ogni caso “accelerato i processi
patologici sfociati nelle malattie cancerose del fegato e del polmone”. Sarebbe
questa un’affermazione del tutto sfornita di prova, ennesima dichiarazione non
veritiera del P.M., così come sarebbero sfornite di elementi scientifici di
supporto i tentativi del P.M. di ricondurre l’asbesto e il CVM ad un unico
meccanismo di azione, e di contestare quanto recepito dal Tribunale in forza
dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM fosse un cancerogeno iniziante con
idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.
Ma, secondo la difesa,
lo sforzo massimo di distorsione della verità è compiuto dal P.M. sul tema della
causalità generale, cioè della idoneità lesiva del CVM.
La distorsione della
verità non risparmia nessuno dei capitoli trattati dal P.M., sotto la voce
“Causalità generale e casistica processuale”. Ancora ripercorrendo le emergenze
processuali si evidenziano gli assunti errori ed omissioni del P.M. in ordine
alla ricostruzione della epidemiologia e studi epidemiologici, sulle singole
patologie ed organi bersaglio, sul meccanismo d’azione del CVM e sulla
cancerogenesi, sull’effetto lavoratore sano, sul rischio CVM a basse dosi, sul
ruolo e conclusioni degli organismi internazionali, attestandosi
sostanzialmente la difesa sulle valutazioni e conclusioni del Tribunale del
quale nega altresì appiattimento alle tesi dei propri consulenti.
Quanto alla causalità
individuale ed allo specifico delle patologie riscontrate a Porto Marghera,
osserva la difesa come il P.M. abbia riproposto temi e problemi già trattati
precedentemente, sia in ordine alle patologie, epatocarcinoma, tumori ad organi
bersaglio diversi dal fegato, cirrosi epatopatie, sia in ordine al ruolo
concausale del CVM, alcol e virus B e C, sia in ordine agli effetti conseguenti
alle basse dosi di esposizione.
Quanto
all’epatocarcinoma, rimarca comunque la difesa la fallacia della tesi del P.M.
secondo la quale il rapporto Ward non avrebbe bisogno di conferma e la
necessità di una “sospensione di giudizio”. Osserva, richiamando anche
giurisprudenza degli Stati Uniti e la concezione induttivistica di Hempel, e quella antinduttivistica di Popper, che nella scienza non vi sono
certezze e che “le leggi della scienza sono null’altro che delle ipotesi di cui
non si saprà mai se sono vere o false” onde la domanda–chiave – così come
sostengono giustamente i giudici americani – cui rispondere quando si deve
stabilire se una teoria o una tecnica sia una conoscenza affidabile per il
giudice è se le ipotesi formulate possono essere confermate o falsificate, se
godono di un alto grado di conferma e se hanno superato ripetuti tentativi di
falsificazione.
Ora, se si valuta che i
casi di epatocarcinoma considerati nella relazione Ward sono solo 10 e, per
esplicita ammissione degli autori dello studio, si tratta della prima occasione
in cui è presente “una evidenza relativamente forte in favore di una relazione
dose-risposta con l’epatocellulare” (così il teste dell’accusa Boffetta: ud.
12.7.2000, p. 85), e che lo stesso Boffetta ha ricordato nel corso della sua
deposizione, che l’affidabilità dei dati del rapporto Ward sull’epatocarcinoma va valutata “con una serie di
limitazioni, soprattutto dovute al basso numero di casi confermati di
epatocellulare, che come dico sono 10, dopo tutte le verifiche che abbiamo
potuto fare” (ud. 12.7.2000, p. 86), e se pur è vero che Wong e
indirettamente Mundt del 1999, Weihrauch del 2000, nonchè Wong, Chen e altri del 2002,
suggeriscono la esistenza di una associazione tra CVM ed epatocarcinoma, va
osservato che, a parte l’incompletezza, limitazione e contraddizioni di tali
studi, nessuno degli stessi può essere considerato una conferma del rapporto
Ward, perchè in essi manca l’analisi dell’effetto dose-risposta, compiuta, come
dice Boffetta, per la prima volta dallo studio multicentrico europeo: e
l’analisi dose-risposta, come affermato anche da Simonato, è fondamentale per
rendere plausibile l’idea di un legame causale.
Ma, elemento essenziale ai fini della
valutazione e controllo del giudice in ordine all’affidabilità dell’ipotesi
scientifica, è che, tra gli studi che hanno affrontato direttamente il problema
degli epatocarcinomi, ve ne sono due che negano, in modo categorico l’esistenza
di una associazione: sono gli studi di Wu
(1989) e di Simonato (1991). La
presenza di questi studi è da sola sufficiente ad escludere la necessaria,
forte conferma che, come abbiamo visto, si raggiunge solo quando “ci sono un
gran numero di esempi positivi e nessun esempio negativo”; d’altra parte,
proprio l’esistenza dei due studi induce a pensare che siano indispensabili
ulteriori ricerche, volte ad appurare se il rapporto Ward sia in grado di
superare i tentativi di falsificazione. Quindi corretta la conclusione del
Tribunale che ha ritenuto che sul punto debba essere sospeso il giudizio.
Ancora, sul ruolo
concausale del CVM, dell’alcol, del virus B e C nell’insorgenza
dell’epatocarcinoma e nell’insorgenza della cirrosi, rimarca la difesa le idee non chiare del P.M. sul concorso di
cause, ribadendo che il problema dell’interazione, cioè del concorso tra due o
più antecedenti, può sorgere solo se ciascun antecedente può essere definito
condizione necessaria, e ciò può accadere solo se sia stata previamente provata
la sua idoneità lesiva.
Ciò significa che,
poiché, in mancanza della necessaria conferma scientifica, manca la prova della
idoneità del CVM a provocare cirrosi, il CVM non può diventare una condizione
necessaria: resterebbe perciò inesorabilmente sbarrata la strada al tentativo
di ipotizzare un concorso o una interazione tra CVM e alcol.
Analogamente si contesta
il P.M. in ordine alla relazione esposizione al CVM e tumori al polmone,
rimarcandosi l’inconcludenza sia dal punto di vista della biologia molecolare
che degli esperimenti sugli animali dell’idea della plausibilità biologica, e
così l’inapplicabilità, al processo penale, della “probabilità di causazione”,
criterio smentito in modo categorico proprio dai massimi esperti dell’accusa, a
cominciare da Vineis, cui il Tribunale si richiama (sentenza, p. 132 ss.), per
finire a Berrino, Comba, Bracci, Carnevale.
E si ricorda quanto
dichiarato da Berrino, confermato in dibattimento (ud. 14.12.1999, p. 90): su
3000 casi di tumore del polmone, sappiamo che circa 1000 casi non si sarebbero
manifestati senza l’esposizione lavorativa. Ma “non sappiamo quali.
Naturalmente tutti i nomi sono a disposizione del magistrato, ma cosa se ne
farebbe il magistrato? Tirerebbe a sorte?”.
Queste parole di Berrino
sintetizzerebbero il pensiero degli scienziati di tutto il mondo.
Secondo la difesa,
poi, non ha nessun senso pensare alla probability of causation se non vi è
alcuna associazione tra esposizione a CVM – PVC ed aumentata insorgenza di
tumori del polmone, se cioè la esposizione non possiede la qualità di causa,
sul versante della causalità generale.
D’altro lato, lo
strumento delle probability of causation potrebbe essere utilizzato solo in un
processo civile, in cui si adottasse la “versione debole” della regola di
giudizio del più probabile che no (Mastrangelo, in effetti, considera il 50%
come soglia del più probabile che no): nessuno spazio potrebbe essere riservato
a quel calcolo in un processo dominato,
come il processo penale, dalla regola dell’oltre il ragionevole dubbio o in un
processo civile in cui si seguisse la versione forte del più probabile che no.
Osserva d’altra parte la
difesa che lo studio caso-controllo di Mastrangelo, cui ha fatto riferimento il
P.M., sarebbe privo di validità per il fatto che, pur trattandosi di tumore del
polmone, Mastrangelo non ha tenuto conto dell’effetto del fumo, cioè non ha
tenuto conto del fattore che spiega oltre il 90% dei tumori polmonari che
insorgono nella popolazione. E ciò oltre agli assunti difetti metodologici
dello studio, ed alla mancata conferma delle cinque ipotesi, inventate da
Mastrangelo, sul meccanismo d’azione del PVC.
Irrilevanti sarebbero
poi i rilievi formulati dal P.M. relativamente agli “altri organi”, tumori del
laringe, del sistema emolinfopoietico e del cervello, nonché sui melanomi,
rispetto ai quali il P.M. non porta nessun argomento, nessun documento, nessuna
prova da cui si possa evincere una valutazione insufficiente da parte del
Tribunale . E non poteva essere diversamente: nella motivazione, a p. 152 ss.,
il Tribunale si fa carico proprio degli studi e delle conclusioni degli esperti
dell’accusa sui tumori del laringe, del sistema emolinfopoietico, dell’encefalo
e dei melanomi.
Quanto al riferimento
del P.M. al morbo di Raynaud di Terrin e Bortolozzo, in realtà vi sarebbe la
mancata prova della malattia.
In conclusione sul
punto, sostiene la difesa che il processo non poteva proseguire con l’appello,
perché il P.M. non era in grado di intrattenersi sul nesso di condizionamento e
sulla sua prova, perché nel processo di primo grado gli esperti medico-legali dell’accusa
si erano del tutto astenuti dal pronunciarsi sulla condizione sine qua non ed
avevano concentrato la propria attenzione sulla esposizione al CVM, intesa come
causa idonea, cioè in un modo che non riflette il concetto penalmente rilevante
di causa per il nostro ordinamento.
Nei motivi, in effetti,
il P.M. non ci ha mai intrattenuto sul nesso di condizionamento: questa è la
ragione che ha reso inutili tutti i suoi rilievi.
Non si esime peraltro la
difesa dei predetti imputati di trattare anche il tema della colpa. Sul punto,
premesso che alla serie di addebiti, che il
capo d’imputazione articola come addebiti di colpa, l’impostazione d’accusa
attribuisce una duplice valenza: parametri della asserita colpa con riguardo ai
delitti con evento di danno, e condotte costitutive del contestato delitto
doloso di cui all’art. 437 cp., la difesa innanzitutto rimarca che rispetto alle imputazioni di delitti con evento di
danno, la questione della colpa è assorbita dall'infondatezza oggettiva
delle accuse: acclarata l'inesistenza di nesso causale fra gli eventi di
morte/malattia e le condotte ascritte agli imputati EniChem, il problema d'una
loro colpa in relazione a quegli eventi, non da loro causati, non può nemmeno
essere posto. Peraltro anche relativamente a tali addebiti sostiene la difesa
l’insussistenza della colpa e la
conclusione della loro infondatezza è ragione autonoma e autosufficiente
d’infondatezza delle accuse di cui al capo I di imputazione. Rispetto invece
alla contestazione di cui all’art. 437, 1° comma, cp l’inesistenza di
violazione di regole di sicurezza significa inesistenza della stessa condotta
costitutiva di reato.
Anche
sul punto dunque la difesa ripercorre la storia del processo e le ragioni della
sentenza di primo grado che ha ritenuto infondata l’impostazione d’accusa e
specificamente l’infondatezza degli addebiti di colpa, analiticamente quindi
esaminando e contestando gli specifici rilievi svolti dagli appellanti nei loro
motivi. In particolare, vengono ribadite, in forza delle richiamate evidenze
processuale, le conclusioni cui è giunta la sentenza relativamente alla presa
di coscienza del problema CVM solo nei primi anni ’70 ed il relativo crollo
delle esposizioni, nonché la legittimità del sistema di monitoraggio
multiterminale in relazione ai criteri di cui alla normativa di cui al DPR
962/82 attuativo della direttiva CEE 610/78, ed il buon funzionamento del
sistema stesso anche in relazione alla ricerca e interventi sulle fughe, la
tempestività e adeguatezza degli interventi tecnologici e impiantistici già
peraltro analiticamente ricordati dal Tribunale nella sua sentenza, tema sul
quale controdeduce altresì ai relativi motivi di appello la difesa
dell’imputato Diaz. Rimarcano i difensori l’infondatezza degli specifici addebiti
di colpa connessi agli impianti, attesa la soluzione dei problemi relativi agli
ingressi in autoclave, agli organi di tenuta, agli aspetti gestionali relativi
alla manutenzione, mezzi di protezione individuali, sorveglianza sanitaria e
informazione e formazione dei lavoratori.
Già
all’esito del giudizio di primo grado aveva dunque concluso la difesa
sostenendo che la situazione era in regola con la legge e con le esigenze di
sicurezza. Gli interventi già effettuati dai primi anni ’70 da Montedison
avevano risanato gli impianti così presi in consegna da Enichem nel 1987: le esposizioni a CVM erano prossime allo zero,
largamente al disotto del valore soglia; era in funzione da oltre un decennio,
sotto gli occhi di tutti (comprese le autorità di controllo), un sistema di
monitoraggio mediante gascromatografo, la cui affidabilità non era in
discussione. Durante la gestione EniChem sono stati introdotti ulteriori
miglioramenti, sia impiantistici che gestionali.
E quanto
all’impostazione in diritto dell’accusa, che ha cercato di negare rilevanza al
valore soglia normativamente indicato, rileva la difesa che ovviamente non
compete alla sede giurisdizionale mettere in discussione la legge, alla quale
soltanto (art. 101 Cost.) il giudice è soggetto.
Specificamente poi la
difesa contesta i motivi d’appello del P.M. e dell’avvocato dello Stato
relativi ai reati previsti dagli articoli 437, co.1 e 2, 422 c.p., sostenendo
l’infondatezza delle accuse alla motivazione della sentenza. Intanto, sostiene
la difesa, l’infondatezza obiettiva degli addebiti di colpa di cui sopra
potrebbe chiudere il discorso relativo all’art. 437 cp in quanto le questioni
di merito concernenti tale reato si sovrappongono in gran parte a quelle
concernenti i suddetti addebiti. Vi sarebbero però ulteriori ragioni autonome e
autosufficienti d’infondatezza dell’accusa di delitto doloso.
Rispetto alle principali
critiche mosse dagli appellanti alla decisione sul punto del Tribunale, osserva
la difesa che:
a) L’evoluzione storica
delle conoscenze sulla tossicità del CVM non ha interesse per la posizione
degli imputati EniChem, entrati in scena a partire dal 1987, quando era ben
noto da tempo che il CVM ha effetti tossici.
b) Non è vero che il
Tribunale non avrebbe considerato, per finta o per ignoranza, che il CVM è un
epatotossico. Basti pensare alla affermazione di potenzialità causale
dell’esposizione a CVM rispetto all’angiosarcoma del fegato!
c) Non è vero che il
Tribunale abbia negato l'esistenza di norme a tutela della salute dei
lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, quali i D.P.R. nr. 547/55
e nr. 303/56. Ha, semplicemente, escluso che i fatti accertati ne costituissero
una violazione. L’appello sembra voler presentare come questione di diritto,
invocando norme che nessuno disconosce, la confutazione che il Tribunale ha
fatto relativamente agli assunti fattuali dell’accusa.
Quanto agli elementi
oggettivi dell’art. 437 cp, sostiene la difesa essere errata l’interpretazione
‘globalizzante’ fornita dal P.M.. Si osserva che il P.M. prende atto che il Collegio ha proceduto “ad una elencazione fondata sul
significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale”, e su tale
premessa ha escluso dalla fattispecie dell’art. 437 c.p., già in via di
astratto diritto, alcune fra le ipotesi contestate” -in particolare “tutti
quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte
omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non
rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel
concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”); tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata
individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non
correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici; tutte
quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità
operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica”-. Il
P.M. rimprovera dunque alla sentenza di avere fatto in tal modo tabula rasa
delle imputazioni, secondo una ricostruzione giuridica incomprensibile e senza
senso, dimenticando per strada “anche la fondamentale disposizione dell’art.
2087 c.c., pure contestata nel capo d’imputazione”, ed azzerando altresì
norme speciali quali l’art. 4 del D.P.R. 547/55 e l’art. 4 del D.P.R. 303/56,
che “contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore
di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la
salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o
danneggiate”.
Il PM propone dunque
un’interpretazione dell’art. 437 come fattispecie onnicomprensiva, che sanziona
come delitto qualsiasi violazione dolosa del dovere di sicurezza, sotto
qualsiasi aspetto.
Ma, secondo la difesa,
tale interpretazione ‘onmnicomprensiva’ dell’art. 437, riproposta negli atti
d’appello, è in contrasto non soltanto col significato lessicale della formula
legislativa, ma anche con la sua ratio, e non trova alcun conforto in posizioni
dottrinali o giurisprudenziali.
L’interpretazione
degli appellanti azzera del tutto i caratteri, pure esplicitati chiaramente dal
legislatore, della fattispecie tipica dell’art. 437, che incrimina violazioni
del dovere di sicurezza specificamente tipizzate, come si conviene a una norma
penale: il delitto consiste nella
omessa collocazione di apparecchi destinati a prevenire disastri o
infortuni sul lavoro. Non, dunque, in una qualsivoglia violazione del dovere di
sicurezza, diversa dall’omessa collocazione di apparecchi destinati a prevenire
disastri o infortuni sul lavoro.
Invero, dalla rilevanza
attribuita alla clausola generale
dell’art. 2087, circa l’individuazione dei doveri di collocazione di date
apparecchiature prevenzionali, l’accusa salta alla conclusione –viziata
logicamente- che verrebbero in rilievo, ai fini dell’art. 437, le violazioni di
qualsivoglia obbligo enunciato o desumibile nelle disposizioni generali.
Rimarca dunque la difesa
che, così argomentando, viene ignorato il dato normativo che per l’interprete
della norma penale dovrebbe essere decisivo, cioè, per l’appunto, il dettato
testuale della norma penale, che almeno su questo punto è inequivoco: l’art.
437 opera una selezione entro l’area generica dei ‘doveri di sicurezza’,
incriminando come delitto doloso soltanto una particolare categoria di
omissioni: cioè, testualmente, l’omessa collocazione di impianti apparecchi
segnali “destinati a ….”.
L’incriminazione come
delitto è cioè ristretta a tipi di violazione del dovere di sicurezza, che il
legislatore penale ha ritenuto più gravi. E questo, non altro, secondo la
difesa degli imputati avrebbe inteso ribadire il Tribunale, parlando di
“violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà”. Definendo
‘gratuita’ questa asserzione, gli appellanti mostrano di non averne capito (o
fatto finta di non capire) il senso: la ‘particolare serietà’, cui la sentenza
si riferisce, è quella che il codice penale ha ravvisato nella violazione di
obblighi di collocazione di apparecchiature prevenzionali. Viceversa
contra legem sarebbe la conclusione
d’accusa, che riconduce alla fattispecie obiettiva dell’art. 437 qualsiasi
violazione del dovere di sicurezza, che se mai potrebbe essere rilevante solo
come eventuale contravvezione a leggi
speciali, e comunque rilevante come criterio per la eventuale attribuzione di
colpa.
E non sarebbero in
contrasto con la sentenza del Tribunale neppure i criteri enunciati nelle
sentenze citate dagli stessi appellanti, criteri che fanno riferimento a
qualunque apparecchiatura necessaria per evitare infortuni sul lavoro, e
non (contrariamente ai motivi d’appello) a ciò che apparecchiatura non è.
Dunque, secondo la
difesa, l’azzeramento della tipicità della fattispecie di cui all’art. 437,
stemperata nel generico dovere di sicurezza, vizia in radice, già in puro
diritto, le applicazioni che, nei motivi d’appello, vengono proposte con
riferimento alla quasi totalità dei singoli addebiti contestati. Il problema
d’una ipotetica responsabilità ex art. 437 non può essere prospettato, se non
con riferimento ad addebiti che abbiano ad oggetto la omessa collocazione di
apparecchiature di prevenzione. Per tutti gli altri addebiti (e sono la quasi
totalità) il problema non sorge.
Sarebbero dunque
estranei alla problematica dell'art. 437 cp gli addebiti relativi ai
mezzi personali di protezione, che certo sono doverosi, ma la cui violazione
non rientra nella fattispecie delittuosa in oggetto non potendo essere
considerati “apparecchi”. Il dovere del datore di lavoro di fornire ai lavoratori,
ove prescritto, mezzi personali di protezione, è cosa diversa dal dovere
di ‘collocare’ apparecchiature di
sicurezza, cioè di apprestare, collocandoli là dove devono svolgere la loro
funzione, elementi strutturali del sistema di protezione dell’ambiente di
lavoro.
Altresì estranei
all’art. 437 sarebbero gli addebiti relativi alle modalità operative. Tale
ipotesi di accusa, ripresa nei motivi di appello, annovera cumulativamente
ipotesi fra loro eterogenee: gli addebiti di omissione relativi al blocco degli
impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli
impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la
salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla
segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine
alla sostituzione degli organi di tenuta. A parte l’infondatezza in fatto, ne
sostiene la difesa la non pertinenza in diritto, quale corollario dei principi
giuridici correttamente ricostruiti e applicati dal Tribunale che ha ritenuto
tali addebiti “palesemente non correlabili alla nozione di collocazione di
apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque di prevenzione”.
Infondati
sarebbero altresì gli addebiti relativi al monitoraggio, anche nella prospettiva dell’art. 437 cp. Secondo la difesa
si può ragionevolmente dubitare che il
sistema di monitoraggio rientri nelle tipologie considerate dall’art. 437.
D’altra parte, l’ipotesi d’accusa relativa al monitoraggio non è di omessa
collocazione, ma di avere installato e tenuto in esercizio un sistema
asseritamente imperfetto. Il PM contesta il
“mancato monitoraggio di zone di lavoro come l’insacco, lo stoccaggio e
l’essiccamento, ritenute dall’azienda zone non a rischio”. Le zone di lavoro,
cui il PM si riferisce, non sono zone in cui vi fosse esposizione a CVM, sì
invece a polveri di PVC. Il monitoraggio in continuo non era obbligatorio, ed
alle esigenze di prevenzione e controllo del rischio polveri si è adeguatamente
provveduto in altro modo. Il sistema di
monitoraggio è stato anche controllato da pubbliche autorità (cfr. testi
Gregio, Iagher: ud. 18.4.00), che, limitandosi a impartire prescrizioni
(prontamente eseguite) di adeguamento limitatamente ad un aspetto specifico del
monitoraggio nel reparto CV22/23 (periodicità delle analisi), hanno preso atto
della idoneità complessiva del sistema. Quanto ad eventuali, occasionali
malfunzionamenti, proprio le segnalazioni di problemi da risolvere confermano
l’attenzione che al monitoraggio del CVM veniva dedicata. Quando si
presentavano, i problemi venivano affrontati e risolti.
Quanto al dolo,
l’infondatezza oggettiva dell’imputazione ex art. 437, avvia a soluzione anche
il problema dell’elemento soggettivo. Sul problema del dolo d’altra parte gli
appellanti avrebbero operato un travisamento facendo leva sulle conoscenze
degli imputati quasi ad identificarle con il dolo.
In realtà, secondo la
difesa, la questione del dolo è concettualmente distinta da quella della
conoscenza o non conoscenza degli obblighi statuiti dalla normativa, da parte
del soggetto obbligato. Avuto riguardo alla struttura del reato omissivo in
esame, il dolo del reato di cui all’art. 437 cod. pen. richiede congiuntamente:
a)
la consapevolezza da parte del garante dei presupposti fattuali dell’obbligo,
cioè d’una specifica situazione di rischio non schermata;
b)
la conseguente consapevole volontà di astenersi dal collocare impianti o
apparecchi o segnali, positivamente rappresentati come necessari a
neutralizzare la conosciuta situazione di rischio.
Sul piano probatorio,
trattandosi appunto di provare uno stato psicologico sulla base di dati
esterni, l'accento deve essere posto sulla consapevolezza della situazione
tipica (di pericolo non schermato) che costituisce il presupposto fattuale
dell’obbligo di attivarsi, e sulla conseguente rappresentazione di un attivarsi
possibile in quella data situazione.
Lasciando da parte ogni
questione sulla infondatezza obiettiva delle accuse, per la difesa a proposito
del dolo è sufficiente osservare che i motivi d’appello non trattano
l’essenziale, ciò che è specifico al profilo soggettivo dell’ipotesi
accusatoria. Hanno continuato a discutere del dovere di sicurezza e di doveri
di diligenza, senza minimamente preoccuparsi di chiarire in che cosa consista
l’oggetto del dolo, avuto riguardo alla struttura del fatto omissivo tipizzato
nell’art. 437. In buona sostanza, i motivi d’appello sembrano confondere con il
dolo – che è conoscenza e volontà d’un concreto fatto di reato - la (doverosa)
consapevolezza astratta dei doveri legali!
In tal modo nei motivi
d’appello dell’accusa il problema del dolo dell’art. 437 non sarebbe nemmeno
stato posto.
Sostiene poi la difesa che
vi sarebbe un’ulteriore, autosufficiente ragione d’infondatezza dell’accusa,
vale a dire l’inapplicabilità dell’art. 437 al di fuori del campo della
prevenzione di infortuni, al quale soltanto la lettera della legge si
riferisce.
Si osserva che il concetto
di infortunio ha un ben preciso fondamento normativo nel DPR 1124/1965, e già
prima nel RD 17 agosto 1935 n. 1765, che si riferiscono a una “causa violenta
in occasione di lavoro”, cioè – come afferma concorde la dottrina – a un
“evento traumatico” avvenuto in un determinato tempo e luogo.
L’utilizzazione,
nell’art. 437, del termine tecnico “infortunio” – implicante un chiaro
riferimento alla normativa di settore – non può ritenersi casuale. Il
legislatore ha inteso delimitare la fattispecie delittuosa alla prevenzione
degli infortuni in senso tecnico, lasciando ad altri strumenti normativi la
tutela preventiva da rischi diversi da quello d’infortunio, e in particolare
dal rischio di malattia professionale non derivata da causa violenta o evento
traumatico.
In tal senso si
sarebbero espressi gli autori (Fiandaca e Musco, Vaudano, Nappi, Zagrebelski,
Corbetta) che si sono occupati del tema, e questa delimitazione della
fattispecie emergerebbe dalla pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n.
232/83, Riv. giur. lav. 1983, 403), che in merito alla questione di legittimità
costituzionale dell'art. 437, con riferimento al principio d'uguaglianza,
proprio sulla premessa interpretativa che la norma penale non comprende gli
apparecchi di protezione da malattie, e che da tale esclusione deriverebbe una
ingiustificata diversità di trattamento, ha dichiarato l’inammissibilità “non essendo consentito chiedere alla Corte
"una pronuncia dalla quale scaturirebbe una nuova fattispecie
penale".
La pronuncia di inammissibilità
della questione, con la motivazione che ne è stata data, sottenderebbe, secondo
la difesa, l’accettazione, da parte del giudice di legittimità delle leggi,
della premessa interpretativa del giudice a quo. Altrimenti sarebbe uscita con
una pronuncia interpretativa di rigetto.
Quanto all’aggravante
del disastro, osserva preliminarmente la difesa che nel presente processo la
trasposizione del ‘disastro’ nell’ottica dell’art. 437 può essere teoricamente
prospettata soltanto per quegli aspetti dell’accusa di disastro che attengono
ad ipotizzate conseguenze delle condotte contestate come violazione dell’art.
437. Può riguardare, cioè, soltanto il ‘disastro’ contestato con riferimento
alla gestione dei reparti CVM. Del tutto irrilevante, sotto questo profilo,
sarebbe la modifica dell’imputazione con cui il PM ha formalmente inserito nel
capo 1 l’intero ‘disastro’ descritto nel capo 2, e così unificato l’accusa di
disastro per gli imputati di entrambi i capi. La distinzione deriva dalla
struttura logica dell’accusa, anche dopo la sua riformulazione, ed esclude ogni
nesso fra la contestazione ex art. 437 e gli aspetti del supposto ‘disastro
ambientale’ delineati nel capo 2, il cui contenuto è diverso ed autonomo dal
problema della esposizione a CVM e dei relativi obblighi di sicurezza.
Sostiene poi la difesa
che l’accusa di disastro innominato
nasce priva di un contenuto fattuale specificamente enucleato. Il PM avrebbe gettato l’art. 434 del codice
penale, mescolato a tanti altri, senza specificare quali siano, nella complessa
ipotesi d’accusa, i fatti cui egli ritenga pertinente la qualificazione
giuridica di disastro.
Ma è la tesi in diritto
che vieppiù, secondo la difesa, è da criticare, osservandosi che il discorso
del PM procede per slittamenti successivi: comincia con l’accettare (a parole)
l’esigenza di caratterizzare il disastro come evento di danno; dopo di che,
esclude che occorra un danno a persone o a cose, tagliando fuori in tal modo le
ipotesi di danno delle quali il diritto penale normalmente si interessa, ed
aprendo la strada alla riduzione del cosidetto ‘evento di danno’ a “stato di
fatto che renda possibile il danno”. Con una serie di giochi di parole, il
requisito del danno si scioglie senza residui nel pericolo: “la valutazione del
disastro arriva al pericolo e lì si deve fermare”, scrive il PM in neretto.
L’evento di danno, che
pacificamente viene richiesto dalla dottrina e dalla giurisprudenza perché
possa dirsi integrata la fattispecie ex artt. 434, 2° comma, nell’impostazione del
PM viene semplicemente azzerato, con tentativo, altresì, di scardinamento del
principio di responsabilità personale, in quanto l’asserita responsabilità
degli imputati che hanno rivestito posizione di garanzia dopo il 1973 sarebbe
fondata su fatti che riguardano altri, in ragione di eventi lesivi, connessi ad
esposizioni ante 1973, non riconnessi alla loro condotta.
Circa la questione della
configurabilità in diritto della strage colposa coltivata ancora con specifico
motivo dall’avvocato dello Stato, ed invece abbandonata dallo stesso P.M.,
ritiene la difesa inconsistente la tesi per la chiara volontà del legislatore,
espressa esplicitamente nella relazione sul progetto preliminare del codice
penale e per la chiara lettera della legge che fa riferimento all’incendio ed
agli altri disastri che seguono nel capo I del titolo VI.
Parimenti la difesa
ritiene palesemente infondata, oltre che inammissibile per carenza di
interesse, l’impugnativa della predetta parte civile dell’ordinanza 7/4/98 con
la quale il Tribunale, decidendo sull’ammissibilità delle costituzioni di parte
civile ha “tracciato il solco dei c.d. periodi di pertinenza”. Lo scopo di tale
impugnativa viene ipotizzato dalla difesa nel tentativo di superare la
considerazione atomistica dei singoli eventi, intesa a collocare i singoli
eventi dentro o fuori del periodo di competenza di uno o altro imputato. Da ciò
il collegamento anche con la strage colposa relativamente alla quale la
predetta parte civile non avrebbe parimenti interesse. Ma, sostiene la difesa,
il tentativo sarebbe assurdo in riferimento ai principi basilari della civiltà
del diritto (in particolare il principio di personalità della responsabilità).
Specificamente,
quanto all’imputazione di disastro, la difesa di Smai, Pisani e Patron,
ripercorre ancora il processo dalla formulazione dell’accusa alla sentenza di
primo grado, ricordando che inizialmente la contestazione del disastro si era
articolata in due diverse figure che si snodano nei due capi d’imputazione,
figure poi trasformate in un unico disastro permanente con la modifica
dell’imputazione di cui all’udienza del 13/12/2000.
Sostiene dunque la
difesa che, quanto all’accusa di disastro di cui al primo capo d’imputazione,
l’infondatezza emergerebbe dall’insussistenza di elementi essenziali della
fattispecie incriminatrice: il danno a cose, neppure individuato nel capo
d’imputazione, ed il danno a persone rivelatosi insussistente per come
evidenziato trattando del rapporto causale, ma anche il pericolo reale e
concreto per la pubblica incolumità, inteso come“un numero indeterminato di
persone che, nel loro insieme, valgono a comporre la collettività”, la cui
assenza sarebbe comprovata dall’assenza di danni alle persone, danni che non
solo non si sono verificati, ma, secondo la difesa, neppure nei periodi di
gestione Enichem avrebbero potuto verificarsi, sia all’interno che all’esterno
dello stabilimento, così come comproverebbero le relazioni degli esperti della
difesa Dragani e Zocchetti sulla “Assenza di pericoli reali durante la gestione
EniChem dello stabilimento di Porto Marghera”, e una seconda Relazione del
prof. Foraboschi sulla “Assenza di pericoli reali nell’attività dello
stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera, nel periodo di gestione EniChem”
depositate all’udienza del 20 aprile 2001.
Inevitabile e aderente
alle risultane dunque, secondo la difesa le conclusioni del Tribunale,
sull’accusa “simbolo” di questo processo - ovvero quella di aver cagionato un
“disastro”, ritenuta infondata prima di tutto in fatto e poi anche in diritto.
Ma il P.M., osserva la
difesa, anche nei motivi di appello ignora pervicacemente il fatto e si limita a
contestare la lettura che il Tribunale avrebbe dato del “suo” capo di
imputazione. Questo costituirebbe l’unico motivo di appello rispetto all’accusa
di aver provocato un “disastro”: tanto per quanto riguarda il primo capo di
imputazione che per quanto riguarda il secondo, tanto che si abbia riguardo al
disastro di cui all’art. 434 c.p. o che si rivolga l’attenzione a quello
configurato dall’art. 437 co. 2. Per il resto vi sarebbe l’assoluta mancanza di
qualsiasi argomentazione che sia fondata sulle prove e sui fatti, come emersi
dal dibattimento che in alcun modo evidenziano essersi verificato quell’evento
di danno, diffuso e di vaste proporzioni, per persone e cose, che costituisce
l’essenza di questo reato. Non una riga sarebbe poi dedicata nei motivi d’appello
in specifico all’evento di disastro ambientale.
Osserva al riguardo la
difesa che il P.M. parla di “compromissione ambientale” della laguna
prospiciente Porto Marghera, parla di “contaminazione del suolo, del sottosuolo
e delle falde”, ma sempre con riferimento ai reati di avvelenamento e di
adulterazione, senza dedicare una sola riga a spiegare in che modo questa
“compromissione” o “contaminazione” verrebbe ad assumere i connotati del supposto “disastro”. In
sostanza, la strategia dell’accusa sarebbe manifestamente quella di negare ogni
elemento di fattispecie tipico del disastro – l’evento di danno “disastroso” in
particolare – riducendo questo reato ad un mero pericolo per la pubblica
incolumità interamente sovrapponibile al pericolo per la salute pubblica
previsto dall’art. 440 c.p., ma togliendo altresì ogni “concretezza” al
pericolo per la pubblica incolumità richiesto dalla fattispecie di
adulterazione e quindi – nella logica del P.M. – dal disastro.
Sostiene però la difesa
che tutte le argomentazioni che i motivi affastellano in tema di avvelenamento
e di adulterazione non riescono in alcun modo a superare la
secca conclusione del Tribunale secondo cui i due reati non sussistono, perché
manca in radice ogni pericolo per la pubblica incolumità. Conclusione, questa
del Tribunale, inconfutabile, dalla quale discende l’insussistenza dei delitti
di avvelenamento e di adulterazione, ma anche, a maggior ragione,
l’insussistenza del disastro “ambientale”. Lineare e inappuntabile il
ragionamento del Tribunale che, nella logica dell’accusa che riferisce il
pericolo per la pubblica incolumità/salute pubblica esclusivamente al pericolo
“alimentare” legato al possibile consumo delle risorse idriche (falde) o del
biota edibile, una volta emerso invece che questo pericolo “alimentare” – che è
l’oggetto delle accuse di adulterazione e avvelenamento - non sussiste, ritiene
a fortiori insussistente anche il disastro. Il disastro, infatti, richiede
anch’esso il pericolo (reale) per la pubblica incolumità, in aggiunta
all’ulteriore elemento specifico del grave danno alle cose e alle persone.
Il P.M., dunque, non
sarebbe riuscito a fornire alcuna prova della sussistenza del pericolo
astratto, proprio dell’avvelenamento, o del pericolo concreto richiesto dall’adulterazione,
e neppure avrebbe tentato di provare l’evento di danno unito a pericolo
concreto per la pubblica incolumità, che costituisce il connotato tipico del
fatto di disastro.
Nello specifico delle
contestazioni di avvelenamento e adulterazione, trattati in sé ma anche per il
collegamento con il reato di disastro nella costruzione “a grappolo” del
secondo capo d’imputazione, sostiene poi la difesa l’inconsistenza del tema del
“danno genetico” introdotto dal P.M., ricordando che la
presenza di addotti al DNA, nell’uomo come nei molluschi, è interpretata, in
tutta la letteratura internazionale, come indice di esposizione e non di danno.
Questo sarebbe un dato talmente pacifico, nella comunità scientifica, che la
stessa esperta dell’accusa Venier, nel corso della sua deposizione (ud.
17.10.2000, p. 65), non ha potuto fare a meno di confermarlo, dicendo che
“l’addotto viene considerato esposizione avvenuta”.
Vieppiù
azzardato sarebbe poi l’ulteriore passaggio del P.M. che, dato per scontato il
danno genetico nei molluschi, afferma che ragionevolmente “un rischio analogo
di modificazione genetica sussista anche per la collettività umana esposta,
direttamente o indirettamente, alle stesse sostanze tossiche”, rifugiandosi
dietro espedienti verbali quali “non impossibilità del danno genetico”,
“risposte biologiche possibili”, “principio di precauzione”.
Quindi la
non impossibilità del danno genetico e di risposte biologiche non provate che
si sostituirebbe al pericolo reale, senza peraltro neppure una risposta alla
domanda in ordine a che modo l’uomo potrebbe subire un aumento degli addotti al
DNA posto che la trasmissione con la dieta alimentare è scientificamente
insostenibile.
Inconsistente la tesi
del danno genetico, sostiene altresì la difesa l’infondatezza delle
argomentazioni del P.M. in tema di pericolo alimentare. Dai dati della realtà,
emersi nel corso del processo di primo grado e dopo la chiusura del
dibattimento, emergerebbe in modo incontestabile come di avvelenamento e/o di
adulterazione del biota lagunare non si possa neanche parlare. Sostiene infatti
la difesa che tutti i tentativi del P.M. si infrangono contro lo scoglio della
totale assenza di pericolo per la pubblica incolumità, confermata
dalle ricerche sugli effetti osservati nell’uomo e nell’animale, dal mancato
superamento dei valori massimi di concentrazione (CL) dei contaminanti,
ammissibili per la edibilità dei molluschi – o dei valori ritenuti normali in
tutti i Paesi del mondo, per quelle sostanze non disciplinate attraverso la
previsione di una concentrazione limite (CL) – nonché dal mancato superamento
dei valori di TDI (tolerable daily intake-dose giornaliera accettabile).
E destinato
a naufragare sarebbe altresì il tentativo del P.M. di sostenere, anche se solo
per le diossine, che i valori riscontrati nelle vongole dei canali industriali,
non potrebbero essere considerati normali. Ancora una volta deporrebbero il
contrario i dati della realtà che hanno portato, dopo la fine del processo, a
falsificazione dell’ipotesi prospettata (con sorprendente parallelismo con la
falsificazione operata dall’OMS, agenzia IARC di Lione, delle ipotesi
prospettate nella monografia IARC dell’87 circa i pretesi effetti cancerogeni
del CVM sui tre organo bersaglio diversi dal fegato): nel luglio 2002, è
diventata operativa, nelle Comunità Europee, una legge (vd. regolamento CE n.
2375/2001 del 29.11.2001, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità
Europea come L. 231/5 del 6.12.2001) che individua la concentrazione limite
(CL), proprio per le diossine (PCDD + PCDF), ammesse nei prodotti ittici, ai
fini della loro edibilità e della loro libera commercializzazione, nell’ambito
dei Paesi UE, in 4 pg/WHO TEQ/g di prodotto fresco, concentrazione che è più di
4 volte superiore a quella media, riscontrata dagli esperti dell’accusa, nelle
vongole dei canali industriali.
Di ciò non
avrebbe tenuto conto nei motivi di appello il P.M. che parimenti non
dedicherebbe neppure un cenno ai risultati delle ricerche compiute da Pompa
ancor prima dell’emanazione della nuova legge, culminanti nella dimostrazione
della assoluta normalità delle concentrazioni di diossina dei molluschi dei
canali industriali, e delle ricerche compiute da Vighi sulla comparabilità
delle concentrazioni delle diossine nei molluschi pescati nei canali
industriali, con le concentrazioni riscontrabili nei pesci del mare Adriatico e
degli altri mari. E osserva ancora la difesa che i motivi d’appello pure
tacciono della recente Raccomandazione della Commissione Europea (emanata il
4.3.2002 e pubblicata il 9.3.2002 sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee), relativa alla riduzione della presenza di diossine e furani nei
mangimi e negli alimenti, che, sostiene la difesa, assesta un altro colpo
mortale all’impianto accusatorio faticosamente messo insieme dal P.M..
La
Raccomandazione, infatti, suggerisce (senza peraltro imporlo) un approccio
innovativo per affrontare il problema delle concentrazioni di diossine negli
alimenti: tale approccio si basa sull’introduzione di una nuova classe di livelli
di concentrazione delle diossine negli alimenti, che prendono il nome di
“livelli d’azione”, la quale si distingue dalla classe di valori, ben
superiori, presi in considerazione per la edibilità dei prodotti (definiti
“livelli massimi”).
Alla luce della
bipartizione introdotta, il documento della Commissione Europea raccomanda,
qualora le concentrazioni di diossine negli alimenti superino i “livelli
d’azione”, l’avvio di indagini per individuare la fonte di contaminazione
dell’alimento, in modo da adottare i provvedimenti necessari per risolvere il
problema. In ogni caso, l’alimento resta comunque edibile e commerciabile fino
a quando la concentrazione di diossine non supera il “livello massimo”.
Ebbene, per
le diossine nei prodotti ittici, il livello d’azione è fissato in 3 pg/g di
prodotto fresco.
Ciò
significa che il “valore d’azione”, che già è ben lontano da quello che
determina la edibilità del prodotto, è circa 3 volte superiore a quello medio
riscontrato nelle vongole dei canali industriali (1,0 pg/g), mentre è quasi 7
volte superiore alla concentrazione media (0,45 pg/g) di diossine presente in
tutti i molluschi raccolti in laguna (canali industriali compresi).
Per i
parametri europei, quindi, le vongole raccolte nei canali industriali di Porto
Marghera non solo sono edibili, ma la quantità di diossine in esse presenti è
tale da non consigliare nemmeno l’adozione di provvedimenti urgenti per la
bonifica dei siti di provenienza. E nonostante il ricorso ad espedienti
pretestuosi introdotti nei motivi, il P.M. non è riuscito neanche a dimostrare
il superamento dei valori di TDI, previsti dalle agenzie chiamate a regolare il
rischio alimentare.
Quanto agli scarichi del
Petrolchimico, contesta la difesa il tentativo, nei motivi, di rilanciare le
tesi di Cocheo, che nulla hanno a che fare con l’accusa di “disastro”, tesi secondo la quale i reflui
del Petrolchimico dovrebbero essere sottoposti alla disciplina dei rifiuti e
smaltiti come tali.
Sostiene la difesa che
al di là dell’inesistenza della supposta contaminazione da CVM delle acque,
sedimenti, falde e fauna e quindi del solo immaginario pericolo per la pubblica
incolumità, il tema è altresì irrilevante rispetto all’imputazione di disastro
o di avvelenamento e di adulterazione: non c’entra nulla con queste contestazioni. Non c’entra nulla perché non vi è – e
non vi può essere – alcuna contaminazione da CVM dell’ecosistema lagunare:
perché il CVM è assente, ma anche se ci fosse non si accumulerebbe né nelle
acque della laguna, né nei sedimenti e nemmeno nel biota. Ricorda al riguardo
la difesa quanto lo stesso esperto dell’accusa Cocheo aveva pacificamente
ammesso nel giudizio di primo grado: e cioè, che il CVM “ovviamente” non si
accumula nei sedimenti, nei pesci e nelle acque: il CVM “è un gas che ha una
vita abbastanza breve. Nella stessa acqua in realtà, avendo l'emivita breve,
dopo un certo periodo di tempo sparisce”.
Parimenti contesta la
difesa il tentativo nei motivi di appello di rilanciare le tesi di Carrara.
Sarebbe infatti insostenibile il riferimento ai superamenti istantanei
risultanti dai bollettini interni e la perseveranza nel non considerare il
carico inquinante. La tesi per la difesa è infatti priva di rilevanza rispetto
al reato di disastro o a quelli di avvelenamento e di adulterazione, dopo che
il prof. Foraboschi ha dimostrato, bollettini di analisi alla mano, che, nel
periodo di gestione EniChem, gli scarichi del Petrolchimico hanno avuto un
impatto ambientale sul corpo recettore inferiore (di gran lunga inferiore) a
quello che avrebbero prodotto scarichi che si fossero sempre mantenuti entro i
limiti tabellari.
Al riguardo si sostiene
che dal dibattimento di primo grado è comunque emerso che:
-
nessuno delle migliaia di bollettini di analisi
prodotti proprio dall’accusa attesta anche un solo episodio che sia
lontanamente vicino a costituire un pericolo per l’ecosistema;
-
tutte le discipline di settore sono
concordi nell’affermare che l’unico criterio valido per valutare l’accettabilità
dei contributi di contaminanti attraverso scarichi idrici è la stima del carico
inquinante (D.P.C.M. 27.12.1988; D.Lgs.
152/1999; Quaderno 100 dell’IRSA “Metodi analitici per le acque”, 1994, p. 44),
che si basa sull’individuazione di carichi massimi ammissibili rispetto ai
corpi idrici (D.M. 23.4.1998 sulla tutela della laguna di Venezia; la
competenza è affidata alle Regioni, cui spetta fissare la quantità massima per
unità di tempo, per ogni inquinante o famiglia di inquinante, D.Lgs. 152/1999).
Criterio del carico inquinante del quale non vi
sarebbe menzione nei motivi d’appello. Questo per l’ovvio motivo che il
riferimento non poteva che portare ad una conclusione: l’assoluta irrilevanza
non solo dei bollettini interni, ma di tutto il tema degli scarichi idrici
rispetto alle accuse.
Rimarca infine la difesa
di Smai Pisani e Patron comunque, in relazione ai periodi di competenza ed agli
specifici ruoli svolti, l’estraneità degli stessi sia relativamente al primo
che al secondo capo d’imputazione rispetto ai cui fatti in ogni caso non
avrebbero dato alcun contributo causale.
Sui medesimi temi
relativi al secondo capo d’imputazione controdeduce ai motivi di appello
altresì la difesa degli imputati Morrione, Marzollo, Fabbri, Cefis, Grandi,
Porta, Gatti, Lupo, D’Arminio Monforte, Calvi, Trapasso, Diaz, Breichenbach,
Sebastiani, Fedato, Gaiba, Belloni, Gritti e Bottacco, nonché del responsabile
civile Montedison S.p.A.., specificamente confutando, in forza dell’esame delle
emergenze processuali le singole doglianze degli appellanti. In particolare sul
tema delle discariche e acque di falda sottostanti, ricordando come la
ricostruzione accolta dal Tribunale sia aderente alle risultanze dibattimentali
ove la sostanziale consonanza delle voci dei consulenti tecnici e gli studi
condotti da enti pubblici, quali il Magistrato delle Acque, il Comune di
Venezia e la Regione Veneto, avvalorerebbero le considerazioni accolte in tema
di stratigrafia e idrogeologia dei suoli e dei sottosuoli, di andamento di falda,
di velocità di deflusso delle acque di falda e del coefficiente di ritardo con
il quale si muovono gli inquinanti in essa eventualmente presenti, di
irrilevanza del trasferimento orizzontale degli inquinanti nella laguna e nei
canali industriali.
Ma altresì
sull’inutilizzabilità delle acque di falda, sugli scarichi idrici, sul biota e
sull’assunzione delle sostanze rinvenute nel biota dei canali industriali,
nonché sull’accertamento di assenza di rischio per l’incolumità pubblica. Ed
anche in diritto, sostanzialmente in conformità alle argomentazioni della
difesa di Smai, Pisani e Patron di cui prima si è detto, viene rimarcata
l’insostenibilità dei rimproveri degli appellanti alla sentenza con riferimento
alla interpretazione e applicazione delle norme incriminatrici; sostenendo
altresì l’inesistenza di normae agendi in materia di gestione di rifiuti in
epoca anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. 915/82, l’inesistenza di un
obbligo di bonifica o messa in sicurezza di siti contaminati da terzi antecessori
in epoche pregresse, l’inammissibilità della qualificazione come “rifiuti”
delle acque di processo provenienti dai reparti CV.
Controdeduce
infine la difesa degli imputati, e contesta, le argomentazioni, oggetto di
specifici motivi d’impugnativa, con le quali il P.M. sostiene la cooperazione
colposa fra tutti gli imputati, la continuazione fra tutti i reati contestati,
la permanenza delle contravvenzioni di cui al II capo d’imputazione e
l’insussistenza della prescrizione dei reati contestati, argomentazioni delle
quali preliminarmente la difesa rileva la strumentalità per creare un collegamento fra le imputazioni
individuali, per tenere in qualche modo insieme fatti e responsabilità sparsi
nell’arco di un trentennio di vita di due diversi gruppi industriali. Una
strategia unificante –massificante- che si sarebbe mossa in due prospettive che
si intersecano e si alimentano reciprocamente nella spasmodica ricerca di uno
spostamento in avanti del tempo di commissione dei reati:
a)
da un lato, in senso ‘orizzontale’, l’inserimento di un numero ampissimo di
imputati (ventotto sui trentadue complessivi), dirigenti sia di Montedison che
di Enichem, in una gigantesca
cooperazione colposa, maturata nel corso di tre decenni;
b)
dall’altro, sulla ‘verticale’ dello sviluppo temporale delle azioni e delle
omissioni, l’inclusione di tutti i
reati attribuiti a ciascuno degli imputati nelle figura del reato continuato
(la continuazione ‘esterna’ fra i reati dei due capi funzionerebbe tramite il
trait d’union del disastro) e/o – limitatamente agli imputati coinvolti nel
secondo capo d’imputazione - l’attribuzione del carattere ‘permanente’ alle
contravvenzioni ivi contestate.
Sostiene
al riguardo la difesa, quanto all’ipotizzata cooperazione colposa tra tutti gli
imputati, che la tesi non regge già all’assunto con costanza ribadito dalla
giurisprudenza in forza del quale “la cooperazione nel delitto colposo di cui
all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una data
autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella
produzione dell’evento non voluto” (sent. del 25.11.1998, ric. Loparco).
Ora,
il solo accingersi nell’impresa di individuare “reciproche consapevolezze” fra
soggetti che si sono alternati, in contesti organizzativi e normativi diversi,
con ruoli diversi, addirittura in
gruppi industriali diversi, in un trentennio di gestione di una realtà
industriale gigantesca, avrebbe causato, dopo un iniziale senso di vertigine,
moti di incredulità. Non sorprende, quindi, per la difesa, che nel processo di
primo grado l’esistenza di un qualche legame conoscitivo fra gli imputati,
avente ad oggetto i rispettivi
contributi causali, non sia stata oggetto di alcun tentativo di dimostrazione
da parte dell’accusa, pubblica o privata che sia.
Osserva
poi la difesa come il tentativo del P.M. nei motivi di appello, di superare
l’ostacolo cercando di liquidare il predetto requisito della consapevolezza
reciproca, sostenendo essere una restrizione estranea all’istituto, sarebbe
un’assurdità ben colta dal Tribunale che in modo stringente ma con insuperabile
logica ha disatteso la tesi.
Quanto
all’ipotizzata continuazione tra tutti i reati contestati, osserva la difesa
come il P.M., a fronte dell’esclusione da parte del Tribunale in termini
generali della configurabilità della continuazione fra reati colposi, in
considerazione del requisito dell’identità del disegno criminoso, ritenuto
compatibile solo con una pluralità di reati dolosi, sostenga che “la colpa è
senz’altro interna e compatibile con la volontà e la consapevolezza dell’agire
economico, delle scelte d’impresa, ecc.: in breve, con un agire finalistico
funzionale ad obiettivi (il profitto, la massimizzazione della capacità
produttiva, il risparmio di costi, ecc.) non coincidenti certo con eventi
lesivi od i fini immediatamente vietati e puniti dal diritto penale, vale a
dire con il dolo in senso proprio delle singole fattispecie”. Onde, secondo
l’accusa, “è senz’altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se
‘cosciente’, la presenza di un unico ‘disegno criminoso’, realizzato dalle
diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé finalistiche, anche se
non tecnicamente ‘dolose’ rispetto ai singoli fatti tipici che poi lo integrano”.
Sostiene
in contrario la difesa l’erroneità della tesi, osservando che la verità è che
nel contesto dell’art. 81 cpv., i termini “azioni” ed “omissioni”, posti in
essere in “violazione di leggi”, vanno necessariamente intesi come equivalenti
di “reati”. Ne consegue una conclusione ovvia: la continuazione può esistere
solo fra reati dolosi, posto che la mancanza di volontà dell’evento – che
caratterizza tutti i reati colposi – è logicamente incompatibile con la
presenza di un unico disegno criminoso, quale che sia l’ampiezza che si voglia
riconoscere a tale nozione.
D’altra parte, rileva
ancora la difesa, l’inapplicabilità dell’istituto della continuazione ai reati
colposi è stata più volte affermata in giurisprudenza, tanto da potersi dire che
sul punto si è formato – come in tema di cooperazione colposa - un indirizzo
assolutamente univoco. E nel senso dell’incompatibilità argomenta pure la
dottrina maggioritaria.
Richiamare oggi i
finalisti tedeschi sarebbe pertanto un’operazione totalmente anacronistica, e
d’altra parte neppure avrebbe individuato il P.M. gli specifici disegni
criminosi che avrebbero animato le condotte degli imputati.
Quanto all’ipotizzata
permanenza delle contravvenzioni contestate nel secondo capo d’imputazione,
sostiene la difesa che l’operazione è, ancora una volta, totalmente priva di
fondamento giuridico. Premesso al riguardo che il secondo capo d’imputazione è
incentrato sulla contestazione, con tempo di commissione “fino all’autunno del
1995”, dei delitti di avvelenamento, adulterazione e disastro, e che al suo
interno vi trovano menzione anche numerosi riferimenti normativi che evocano
fattispecie contravvenzionali, perlopiù in materia ambientale, anche se senza
una specifica descrizione di condotte corrispondenti alle contravvenzioni
richiamate, sostiene la difesa che con la modifica dell’imputazione il P.M. ha
chiaramente fatto intendere, così come riconosciuto dal Tribunale con
l’ordinanza del 23/1/2001, che i detti riferimenti e quelli nuovi di cui alla
modifica, costituivano mera indicazione di profili di colpa specifica, e che
l’aggiunta della contestazione della permanenza fino al dicembre 2000 era da
riferire solo al disastro.
Dunque, per la difesa,
il riferimento alla “permanenza in atto”, riferito alle contravvenzioni di cui
al capo d’imputazione originario, costituisce nulla più che un maldestro e
tardivo tentativo di sollecitare una pronuncia giudiziale su imputazioni mai
‘coltivate’ dal P.M. durante l’istruttoria dibattimentale ed in ogni caso riferite
a reati abbondantemente prescritti. Ed una volta che si è verificato l’effetto
estintivo, nessuna correzione in corsa dei temi d’accusa, nessuna improbabile
‘spiegazione’ di contestazioni irrimediabilmente pasticciate e ambigue può far
rivivere realtà ormai irrilevanti per il mondo del diritto.
Che,
del resto, il Pubblico Ministero non possa strumentalizzare l’istituto delle
nuove contestazioni per far ‘risuscitare’ a
proprio piacimento reati ormai prescritti, è un principio che la
giurisprudenza ha avuto modo tempo
addietro di riscontrare, ritenendo che l’accusa non ha questo potere: ritenere
diversamente significherebbe infatti non tenere conto della “natura costitutiva
della contestazione dell’accusa, quale espressione della volontà punitiva dello
Stato” (Cass. 3.11.1987, Cass.pen. 89, 1233; Cass. 19.6.1981, ivi 83, 311).
In
conclusione: tutti gli ipotetici reati suscettibili di rientrare nelle ipotesi
contravvenzionali di cui al capo 2) originario, debbono ritenersi prescritti in
quanto – alla stregua dello stesso capo d’imputazione – si sono esauriti,
istantanei o permanenti che siano, prima dell’autunno del 1995.
Nelle specifico delle
fattispecie contravvenzionali, osserva la difesa che quanto a quella di
discarica abusiva il riconoscimento del carattere permanente del reato di cui
all’art. 25 d.p.r. 915 / 1982, scontato in dottrina e in giurisprudenza. Questo
non può però bastare: la permanenza esiste finché perdurano realizzazione e
gestione delle discariche, e nella specie il funzionamento delle discariche era
terminato ben prima del periodo di gestione Enichem.
Né potrebbe essere
condivisa l’interpretazione fornita dal P.M. in netto contrasto con
l’insegnamento delle Sezioni Unite (sent. del 5/10/1994, ric. Zaccarelli) che
ha precisato essere estraneo al reato “chi sia subentrato e si ritrovi l’area
con i rifiuti ammassativi da quegli che in precedenza vi aveva gestito la
discarica.
All’attuale detentore
non è fatto alcun obbligo di controagire
e cioè di intervenire per la rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella
sua disponibilità…”. E l’insegnamento delle Sezioni unite è stato seguito in
termini pressoché letterali da successive pronunce (Cass. sez. III, 11.4.1997,
Riv.pen. 98, 264, e, nella giurisprudenza di merito, Pret. Terni, 31.1.1995,
F.it. 95, II, 347).
Quanto alla tutela delle
acque, il Pubblico Ministero ha invocato una pretesa natura permanente della
contravvenzione relativa ai limiti tabellari di cui all’art. 21 III co. l. 319
/ 1976. Questo sulla base di una massima giurisprudenzale, ancora una volta isolata, che ha agganciato
l’individuata natura permanente ad una singolare presunzione: che “il prelievo
dei campioni evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica”, con
la conseguenza che “è compito dell’imputato offrire la prova che la permanenza
è cessata per avere gli compiuto atti idonei a tale scopo” (Cass. 21.7.1988, citata a p. 1439 dei
motivi d’appello).
In realtà come
perentoriamente affermato dalla Corte regolatrice, il reato di cui all’art. 21
III co. l.Merli, che consiste nel superamento dei limiti di accettabilità
prescritti, “non può essere ritenuto di natura permanente, a meno che non si
provi in concreto che lo scarico extratabellare sia continuo, e cioè che
l’alterazione della accettabilità ecologica del corpo recettore si protragga
nel tempo senza soluzione di continuità per effetto della persistente condotta
volontaria del titolare dello scarico” (così Cass. sez. III, 16.11.1993, Riv.pen.
94, 889). E nella specie l’accusa non avrebbe fornito detta prova.
Quanto
all’asserita insussistenza della prescrizione dei reati contestati, contesta
innanzitutto la difesa le argomentazioni in ordine al “disastro eventualmente
progressivo”, osservando comunque che se il danno alle persone non è elemento
costitutivo del disastro, lo spettro della prescrizione è destinato
inesorabilmente a materializzarsi; se invece ne fa parte, la prova della sua
sussistenza del tutto impossibile.
Erronea sarebbe poi la tesi per cui l’inosservanza dolosa di
cautele antinfortunistiche aggravata dal disastro sarebbe un reato autonomo.
Sostiene la difesa trattarsi di delitto aggravato dall’evento: la conseguenza non può che essere la
consumazione del reato al momento della condotta, attiva od omissiva, descritta
nel primo comma dell’art. 437, ed il decorrere della prescrizione da quel
momento (nel senso che il verificarsi della circostanza non segna mai il
momento consumativo del reato).
Quanto infine alla ritenuta mancata
prescrizione degli omicidi e delle lesioni colposi, rinvia la difesa a quanto
già sostenuto sia relativamente alla singolarità della concezione del capo
d’imputazione, sia all’inconsistenza della tesi per cui sarebbe configurabile
la continuazione fra reati colposi ed anche fra reati dolosi e reati colposi,
siano questi caratterizzati da colpa incosciente o anche cosciente.
In conclusione si
sostiene che i motivi d’appello redatti dal Pubblico Ministero e dai difensori delle
parti civili sono totalmente infondati, una ingenua richiesta al giudice di
scardinare i termini più elementari del rapporto fra aspirazioni di politica
criminale e regole del diritto penale il cui accoglimento potrebbe passare solo
attraverso il sovvertimento dei principi basilari del diritto penale liberale.
Con nuovi
motivi depositati il 31/1272003, la parte civile Medicina Democratica ripropone
censure alla sentenza di primo grado in merito al punto relativo alla
responsabilità personale degli imputati che si assume esclusa con motivazione
inesistente, omettendo il tribunale di incontrare la responsabilità degli
imputati con riferimento agli uffici ricoperti nei gruppi societari di
appartenenza, formati dalla società di controllo (holding) e dalle società
controllate (società operative). Si sostiene al riguardo che anche in assenza
di una relazione obbligatoria tra amministratori della capogruppo e
amministratori della società controllata si pone la questione di sanzionare
l’abuso della direzione unitaria facendo ricorso all’istituto della
responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 CC; responsabilità che, si
sostiene, potrebbe nel nostro caso essere assimilata a quella di cui all’art.
2395 CC degli amministratori nei confronti dei terzi direttamente danneggiati
dagli amministratori stessi.
Propone poi
ancora detto appellante doglianze in merito alla conclusione del Tribunale che,
escludendo il patto di segretezza tra le industrie chimiche, sostiene che dalla
stessa documentazione prodotta dal P.M. risulterebbe che il rischio oncogeno
era ignorato in tutte le industrie di produzione sia statunitensi che europee.
Secondo il predetto appellante tale conclusione sarebbe invece contraddetta dai
documenti in atti, e, a supporto allega documenti aventi ad oggetto la
ricostruzione dei fatti operata da studiosi americani.
Infine,
ancora si dilunga il predetto appellante sul tema della causalità generale
richiamando i contributi sul tema del proprio consulente tecnico, prof. Giorgio
Forti e sostenendo totale incomprensione dell’argomento da parte della difesa
(specificamentre dell’avv. Stella).
Nuovi motivi
aggiunti vengono altresì presentati dal P.M. con atti depositati il 3 ed il 5
gennaio 2004 con i quali si richiede rinnovazione del dibattimento per l’acquisizione
di studi scientifici e documenti (elencati negli atti stessi), pubblicati
successivamente al novembre 2001 ed all’ottobre 2002, che si riferiscono ai
dati ed alle conoscenze scientifiche sul CVM, che sarebbero rilevanti
nell’ambito della presente vicenda giudiziaria.
In merito a
tali motivi aggiunti e richieste di rinnovazione dibattimentale, controdeduce
ancora, con specifiche memorie depositate il 17/1/2004, la difesa degli
imputati Smai, Pisani e Patron. In proposito, premessa l’eccezionalità della
rinnovazione del dibattimento in appello che sarebbe ancorata alla decisività
anche qualora si indichino prove sopravvenute alla sentenza di primo grado, si
sostiene che un tale requisito difetterebbe nella specie laddove i nuovi
elementi forniti dal P.M, riguardano solo alcuni punti specifici e
circoscritti, fra i tanti che la sentenza del Tribunale ha esaminato: le basi
probatorie della decisione, rappresentate dalla miriade di prove testimoniali e
documentali, e da confronti a tutto campo fra i consulenti dell’accusa e della
difesa, non sono messe rimesse in discussione, e sono solo vagamente sfiorate
in alcuni punti.
Non
potrebbero dunque i selezionati documenti e studi recenti su presunti effetti
del CVM, che non riguardano le condizioni di lavoro nei reparti CV e gli eventi
specifici di cui all’imputazione, essere considerati indispensabili ai fini
della decisione, cosa sulla quale neppure si è dilungato il P.M. nell’avanzare
la richiesta, neppure illustrando il contenuto dei documenti elencati. Ma se
già inaccoglibili sotto il predetto profilo sostanziale, le nuove richieste
istruttorie del P.M. sarebbero altresì inammissibili in rito in quanto carenti
della necessaria illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di
fatto che le dovrebbero, appunto a pena di inammissibilità dei motivi, e quindi
anche di quelli aggiunti, supportare, rilevandosi altresì la tardività dei
nuovi motivi depositati il 5 gennaio 2004, senza il rispetto del termine libero
di 15 giorni prima della data del giudizio di appello che varrebbe anche per le
prove sopravvenute. Nel merito comunque detta difesa esamina e contesta le
conclusioni cui il P.M. vorrebbe pervenire sulla scorta dei nuovi documenti.
Infine rimarca come nessun valore potrebbero avere, anche in tal caso per
difetto di decisività, i documenti allegati ai nuovi motivi dalla parte civile
Medicina democratica che neppure ha formulato richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale, onde gli stessi vanno senz’altro esclusi.
Aperto il
giudizio di appello, si procedeva preliminarmente a correzione dell’errore
materiale relativo alla rubrica della sentenza di primo grado. Venivano quindi
decise da parte della Corte, come da relative ordinanze in atti cui si rimanda,
la preliminare eccezione avanzata dalla difesa del responsabile civile Edison
S.p.A. con adesione da parte delle altre difese degli imputati,
d’incostituzionalità del potere di appello di P.M. e Parte Civile a seguito di
sentenza assolutoria, questione dichiarata manifestamente infondata, nonché,
dopo la relazione e mutazione del collegio conseguente ad, accolta, ricusazione
di uno dei suoi componenti, le richieste, preliminarmente discusse, di
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con relative questioni in fatto e
in diritto, richieste integralmente rigettate per i motivi esposti
analiticamente nella relativa ordinanza che qui deve intendersi integralmente
riportata e ribadita.
Si procedeva
dunque a finale discussione nel corso della quale gli appellanti concludevano
per l’accoglimento dei motivi d’appello, mentre i difensori degli imputati e
responsabili civili insistevano per la conferma dell’impugnata sentenza.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Va innanzitutto
dichiarata l’estinzione dei reati ascritti nei confronti degli imputati Cefis
Eugenio e Sebastiani Angelo a sensi degli artt. 531 cpp e 150 cp, estinzione
che esime da valutazione di merito. Invero, i predetti, come risulta dai
relativi certificati in atti, sono deceduti nelle more del giudizio di appello,
il Sebastiani in data 27/8/2003, ed il Cefis in data 25/5/2004.
Quanto
al merito delle impugnazioni, osserva preliminarmente la Corte che circa la
doglianza del P.M. di NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA per
avere il Tribunale omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in
particolare la corretta formulazione dei capi d’imputazione come modificati con
le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze
dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000, la stessa, atteso
che la sentenza, sia nel dispositivo che nella motivazione era rispondente alle
finali contestazioni, evidenzia sostanzialmente un mero errore materiale della
rubrica della sentenza di primo grado, che anziché riportare le imputazioni
come appunto modificate ex art. 517 cp dal P.M., riportava le originarie
imputazioni di cui al decreto che disponeva il giudizio. Alla relativa
correzione questa Corte, giudice competente ex art. 130 cpp, ha provveduto
preliminarmente in udienza nel contraddittorio tra le parti con ordinanza dettata
a verbale.
Nella
disamina dei motivi d’impugnazione è poi ancora utile affrontare separatamente
le questioni relative ai reati di cui al primo capo d’imputazione e quelle
relative al secondo capo.
I°
CAPO D’IMPUTAZIONE
Si tratterà
delle problematiche dirimenti rispetto agli specifici motivi di appello,
evidenziandosi fin d’ora che la sentenza del Tribunale deve intendersi qui non
solo conosciuta, così come tutti gli atti di causa, ma altresì integralmente
trascritta, sì che possa ritenersi fatta propria da questa Corte nelle parti
specificamente non oggetto di diversa ricostruzione e/o valutazione. Con
l’obiettivo di consentire, così come nello scopo della motivazione della
sentenza secondo la previsione normativa –artt. 190, 1° co., 546, lett. e,
cpp-, la comprensione da parte dei soggetti del processo delle ragioni in fatto
e in diritto che logicamente portano alla decisione enunciata nel dispositivo.
Lungi ogni velleità di rifare riassunti di atti e prove ovvero non richieste
ennesime ricostruzioni dottrinarie e giurisprudenziali di istituti giuridici,
laddove invece sarà sufficiente enunciare, sempre funzionalmente al controllo
del processo logico decisionale, il fatto ritenuto con riferimento alla fonte
probatoria e la tesi in diritto cui ci si ispira, che può coincidere con quella
sostenuta da una delle parti, onde la regola della concisione ben può imporre
richiamo piuttosto che prolissi tentativi di ridire diversamente le stesse
cose.
La
disamina dei motivi di gravame passerà attraverso la valutazione della
sussistenza o meno, nei suoi elementi oggettivi e psicologici, dei reati
contestati e degli istituti invocati dagli appellanti, che ovviamente assorbirà
ogni specifica doglianza, muovendo dalla prioritaria questione relativa alla
causalità in ordine ai reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose
che, strettamente connessa alle caratteristiche di pericolosità e concreta
nocività del CVM e del PVC, è funzionale poi alla valutazione anche dei
restanti reati contestati nel primo ma anche nel secondo capo d’imputazione.
I REATI DI
CUI AGLI ARTT. 589 – 590 C.P. : problematica
della CAUSALITA’.
Circa i
reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della causalità, si
sono già ricordati, ma giova qui richiamarli per il necessario confronto con le
tesi sostenute dagli appellanti, controdedotte a loro volta dalle ampie
argomentazioni della difesa degli imputati, i principi di diritto ai quali il
Tribunale si ispira, assumendo di uniformarsi ai più recenti e più rigorosi
orientamenti della giurisprudenza della S.C. così enucleandoli dopo excursus
anche relativo alla giurisprudenza nordamericana:le esigenze di certezza e
garanzia, il rispetto dei principi di legalità e personalità della
responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un
rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o da
leggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da leggi di
copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.
Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione
dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire
l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione
logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che
l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla
condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di
consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a
criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché
qualificato “alto” o “elevato”.
Il ricorso
a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale
un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di
soddisfare esigenze ed attese di
giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può
prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze
causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e
corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza
scientifica;
2) l'affidabilità delle
conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono
modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che
riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica
nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo
dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una
"corroborazione provvisoria ";
3)
le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo
evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la
coerenza complessiva del risultato raggiunto ;
4) l’incertezza
scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del
rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la
regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il
ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro
ordinamento;
5) la
causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre
certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare
il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e
l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può
essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del verificarsi
dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il piano
soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità dell’evento
lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;
7)
gli studi epidemiologici, avendo ad
oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della
salute pubblica, non sono assolutamente in grado di spiegare la causalità
individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli
comportamenti.
Già in merito
a questi principi si è visto come specifiche censure all’interpretazione del
nesso causale fornita dal Tribunale siano mosse dagli appellanti ed in
particolare dal P.M., che, a seguito della sentenza
n. 30328 del 10.7/11.9.2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sopravvenuta nelle more, sostiene come proprio tale citata
pronuncia permetterebbe di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza
impugnata.
Contesta conclusivamente
il P.M. il modello assunto dal Tribunale secondo il quale di fronte
all’incertezza scientifica non resta che ricorrere alla regola di giudizio che
la responsabilità deve essere provata oltre
il ragionevole dubbio, conclusioni che sarebbero erronee e che non possono
essere accettate prima di tutto e proprio alla luce del criterio offerto dalle
SSUU della Corte di Cassazione che non assumono affatto il modello causale
invocato dal Tribunale di Venezia, potendosi invece, secondo il P.M., così
schematizzare il ragionamento seguito dalla Suprema Corte:
5)
il processo penale, passaggio cruciale e
obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, è sorretto da
ragionamenti probatori di tipo inferenziale induttivo che partono dal fatto
storico, rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della
conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, essendo dipendenti da
ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse;
6)
lo stesso modello condizionalistico
orientato secondo leggi scientifiche non può, d’altra parte, spiegare in via
deduttiva la causalità, perché è impossibile per il giudice conoscere tutti gli
antecedenti causali e tutte le leggi pertinenti;
7)
il giudice ricorre, invece, nella
premessa minore del ragionamento ad una serie di “assunzioni tacite”,
presupponendo come presenti determinate “condizioni iniziali” e “di contorno”
non conosciute o solo congetturate sulla base delle quali mantiene validità
l’impiego della legge stessa;
8)
non potendo conoscere tutte le fasi intermedie
attraverso cui la causa produce il suo effetto, né potendo procedere ad una
spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà
riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di
condizionamento tra condotta umana e singolo evento soltanto con una quantità
di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un
diverso ed alternativo decorso causale;
9)
ove si ripudiasse la natura
preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse
comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo,
secondo criteri di utopistica “certezza
assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del
diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni
primari;
10)
tutto ciò significa che il giudice è
impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di
“certezza processuale” conducenti ad un giudizio di responsabilità enunciato
dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o
“probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.
A questo punto si può
già rilevare, secondo il P.M., il netto distacco tra la tesi sostenuta dal
Tribunale (viziata da gravi errori di interpretazione) e i principi espressi
dalle Sezioni Unite del Giudice di legittimità che afferma come “non è
sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento
necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che
esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”,
quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al
singolo evento”.
Qui, si sostiene, il
punto cruciale enucleato dalla Suprema Corte: “E’ indubbio che coefficienti
medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla
legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza
scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma
nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio,
condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri
fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il
riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.
Viceversa,
livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da
leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra
eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi,
pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo,
insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone
quindi l’”attendibilità” in riferimento al singolo evento e all’evidenza
disponibile.
Ecco
allora, secondo il P.M. appellante, il distacco del Tribunale di Venezia dal
principio enunciato dalle Sezioni Unite. Si osserva infatti che la sentenza impugnata
sostiene che l’incertezza scientifica va provata oltre il ragionevole dubbio,
ma così facendo si ferma ad un passaggio precedente, che priva il suo
ragionamento proprio di quella natura rigorosa che voleva attribuirgli, e non è
in grado di arrivare alla conclusione decisiva che le Sezioni Unite
raccomandano: quella per cui è l’incertezza del riscontro probatorio che va
provata oltre il ragionevole dubbio.
Il Tribunale si sarebbe
fermato al riscontro scientifico e non avrebbe valutato il riscontro probatorio
dell’istruttoria dibattimentale, mancando comunque di verificare i dati delle
scienze con i riscontri probatori del processo.
Sostiene il P.M. che
mentre per il Tribunale il giudizio finale di probabilità causale in presenza di
una legge statistica con coefficiente medio-basso deve essere risolto secondo
la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, per le Sezioni Unite una legge
statistica con coefficiente medio-basso può costituire legge di copertura se
corroborata dal positivo riscontro probatorio.
Controdeducendo su tutti
i predetti temi, i difensori degli imputati sostengono peraltro, così come pure
sopra ricordato, l’assenza del nesso di condizionamento, la cui prova mai
sarebbe stata fornita dal P.M. che ancora nei motivi d’appello non coglierebbe
il punto focale del giudizio; da ripudiare essendo la tesi dell’accusa che,
ignorando ostentatamente le prescrizioni in diritto, si attesterebbe su un
concetto di possibilità o probabilità della condizione necessaria estraneo al
principio imperante secondo il quale “in tanto sussiste il rapporto causale in
quanto la condotta (azione od omissione) sia condizione necessaria dell’evento
lesivo”, e non condizione idonea o condizione dell’aumento del rischio.
Contesta nello specifico
la difesa degli imputati l’asserita coincidenza delle tesi di accusa sul nesso
causale con i criteri enunciati dalle Sezioni Unite della Corte Suprema,
osservando che l’approdo al concettodi condizione necessaria, come condizione
dell’aumento del rischio o delle
probabilità del verificarsi
dell’evento, o della mancata diminuzione
del rischio e delle probabilità sarebbe in realtà in insanabile contrasto
con gli enunciati delle Sezioni Unite relativi alla condizione necessaria dell’evento
lesivo e al ripudio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio,
criterio estraneo al nostro
ordinamento che rifiuta altresì clausole indeterminate e manipolabili, quali
quelle relative alle serie o elevate probabilità dell’esistenza del nesso di
condizionamento.
Sostiene ancora la
difesa che quanto al “passaggio dal piano deterministico a quello
probabilistico”, improprio deve appunto considerarsi, come riconosciuto dal
Tribunale che avrebbe sul punto anticipato l’insegnamento delle SS.UU., l’uso
della probabilità logica o credibilità razionale con riguardo a materie in cui
sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita
umana, così erodendo però il paradigma causale che deve fondarsi su parametri
logico-scientifici oggettivi, e non su formule indeterminate e indeterminabili,
e quindi manipolabili, quali quelle relative al grado di probabilità, ancorché
definito alto.
E parimenti
anticipatoria rispetto alla sentenza delle Sezioni Unite è l’affermazione per
la quale “la responsabilità deve essere provata secondo la regola di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio, regola che
ormai fa parte del nostro ordinamento” (sentenza, p. 148): le Sezioni Unite
diranno che “il plausibile e ragionevole
dubbio, fondato su specifici elementi che, in base all’evidenza
disponibile, lo avvalorino nel caso concreto ... non può non comportare la
neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa”.
Errata sarebbe dunque l’affermazione del P.M.,
secondo la quale le Sezioni Unite non assumerebbero affatto il “modello
causale” invocato dal Tribunale di Venezia (p. 792), giacché, per i giudici di
Venezia, sarebbero rilevanti, per la spiegazione dell’evento, anche leggi
scientifiche di forma statistica, purché la frequenza consenta di inferire
l’explanandum con quasi certezza mentre, per le Sezioni Unite, sarebbero
sufficienti coefficienti medio bassi di probabilità frequentista.
In realtà, sostiene la
difesa, il Tribunale avrebbe cercato proprio di individuare un modello causale
al tempo stesso compatibile con il nostro ordinamento e idoneo a includere non solo le spiegazioni
nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le spiegazioni offerte
dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l' approccio
nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l'analisi di
tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel):
in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire
l'explanandum con quasi certezza
sulla base di una relazione logico-probabilistica” – il Tribunale di Venezia
non richiama più il criterio del coefficiente percentualistico vicinissimo a
100, ma si attesta, con decisione,
sull’idea di “regola di natura
probabilistica” tale da consentire una generalizzazione sul nesso di
condizionamento ricavabile dalla epidemiologia, dalla biologia molecolare,
dalla tossicologia e dalla medicina legale.
Il Tribunale avrebbe
d’altra parte tenuto conto dell’evidenza, della certezza processuale per
operare le verifiche “attente e puntuali” richieste dalle Sezioni Unite. Anzi
la sentenza del Tribunale di Venezia risulta addirittura molto più chiara,
corretta e comprensibile della sentenza delle Sezioni Unite. Infatti anche il
Tribunale di Venezia non considera inutilizzabili frequenze molto basse nella successione di eventi singoli, come
sono quelle relative alla successione tra alte esposizioni a CVM e insorgenza
dei singoli angiosarcomi, ma procede necessariamente all’individuazione delle
verifiche attente e puntuali: le Sezioni Unite non
precisano quali siano queste verifiche, pur ritenendole indispensabili; il
Tribunale di Venezia lo precisa, collegando la verifica attenta e puntuale al
calcolo della forte associazione tra
rischio ed esposizione.
E facendo buon governo della regola, invece
fraintesa dal P.M. dell’oltre il ragionevole dubbio: regola probatoria e di giudizio, propria di tutti i sistemi
processuali dei Paesi democratici in forza della quale se su una prova, sul
riscontro di un fatto, su una conoscenza scientifica (indispensabile per la
sentenza di condanna) sussiste un dubbio ragionevole, il giudice non ha
alternative diverse dal proscioglimento. E sarebbe altresì sfuggita al P.M.
l’importanza della precisazione del Tribunale in ordine alla necessità di
verificare, sotto tale ottica, l’affidabilità di una ipotesi scientifica (ad
esempio, l’ipotesi formulata da IARC 1979 – 1987 sul legame causale tra CVM e i
tre organi bersaglio diversi dal fegato).
E’ un problema non da
poco, giacché, se il sapere scientifico
di oggi può diventare la favola di
domani, il rischio di condannare degli innocenti è sempre incombente quando,
tra le prove di un processo penale, debba essere annoverato anche il sapere
scientifico.
Premesso quanto sopra in
diritto, la difesa sostiene che proprio in ordine alla condizione necessaria
l’accusa abbia proposto un “grande buco nero”, mai provando il nesso di
condizionamento tra malattie e tumori ed esposizione al cvm, atteso che le
stesse diagnosi individuali degli esperti medico-legali si sono limitate alla
idoneità lesiva, ancorate quindi alla causalità generale.
Ed ancora nei motivi non
esisterebbe neppure l’ombra di un accenno al nesso di condizionamento. Fallito
infatti anche il tentativo di ricostruzione della catena causale per
l’incertezza scientifica sul punto emersa dall’esame degli stessi consulenti
dell’accusa e soprattutto del dott. Simonato, il P.M. nei motivi butta lì, scritta in grassetto, l’affermazione delle
Sezioni Unite, secondo la quale “non potendo conoscere tutte le fasi intermedie
attraverso cui la causa produce il suo effetto, nè potendo procedere ad una
spiegazione fondata su una serie continua di eventi, il giudice potrà
riconoscere fondata l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di
condizionamento tra condotta umana e singolo evento, soltanto con una quantità
di precisazioni” (p. 793).
Per la difesa il P.M.
dimostra però di non aver compreso detta affermazione avallando un’interpretazione
palesemente erronea del pensiero
delle Sezioni Unite. La loro sentenza, infatti, fa una osservazione ovvia e
banale: non si può pretendere che il giudice conosca tutte le fasi intermedie e tutta la serie di eventi continui nel
tempo e contigui nello spazio che collegano l’evento iniziale con l’evento
finale.
Dicendo “tutte”, però,
la Corte Suprema vuole dire che è sempre possibile, invece, l’individuazione di
alcune fasi intermedie, di alcuni anelli causali. E in effetti
sarebbe sempre possibile una spiegazione parziale
del “meccanismo del fenomeno”, parziale ma sufficiente per l’attribuzione
causale dell’evento lesivo.
Ma nella specie nessun
esperto dell’accusa sarebbe riuscito a sostenere di aver individuato “l’anello
causale intermedio” che, attraverso una spiegazione parziale, consente
l’attribuzione della responsabilità. E così, difettando la prova che
l’esposizione a cvm sia condizione necessaria delle patologie non riconosciute
dal Tribunale, è un falso problema quella della concausa ancora sostenuto nei
motivi di appello dal P.M. cui, si sostiene, sfugge completamente una nozione
basilare come è quella che concerne la relazione tra la nozione di condizione
necessaria e quella di causa sufficiente. Né potrebbe sostenersi che il ruolo
causale del cvm sarebbe fuori discussione, avendo in ogni caso “accelerato i
processi patologici sfociati nelle malattie cancerose del fegato e del
polmone”. Sarebbe questa un’affermazione del tutto sfornita di prova, ennesima
dichiarazione non veritiera del P.M., così come sarebbero sfornite di elementi
scientifici di supporto i tentativi del P.M. di ricondurre l’asbesto e il CVM
ad un unico meccanismo di azione, e di contestare quanto recepito dal Tribunale
in forza dell’evidenza processuale, e cioè che il CVM fosse un cancerogeno
iniziante con idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni.
Ora, queste
le posizioni delle parti rispetto ai principi espressi dal Tribunale in ordine
alla problematica in oggetto, osserva la Corte come il Tribunale in ordine alla
causalità ha seguito pedissequamente la costruzione dogmatica, ma altresì le
linee interpretative ed i percorsi di studio dipanatisi anche sull’esperienza e
principi ricavabili dalla giurisprudenza, penale e civile, nordamericana,
proposte dalla difesa Pisani (non vuole ovviamente essere questa una censura
sul metodo motivazionale, atteso che se convinto della bontà di un certo
argomentare il giudice può ben farlo proprio e come tale riproporlo, salvo la
continenza in relazione alla funzione della motivazione della sentenza che
dovrebbe sempre guidare senza indugiare nei percorsi che le tesi dottrinarie
riproposte hanno, queste sì legittimamente per la funzione didattica di ampio
respiro anche comparativistico, seguito nelle relative opere). Ne dà immediata evidenza
la stessa massimazione operata relativamente all’estratto della sentenza di
primo grado pubblicata sulla rivista Cassazione Penale (anno 2003, pagg. 267 e
segg.), dalla quale si ricavano, praticamente alla lettera, proprio i principi
espressi in materia nelle opere dottrinarie fornite, insieme alle memorie,
dalla suddetta difesa.
Ed ecco allora che in tale costruzione si
comincia con il distinguere la causalità generale dalla causalità individuale.
Ora, osserva la Corte, non è che si vuole dare un particolare peso a tale
distinzione quasi a volerla ritenere concettualmente non corretta. Ben se ne
comprende la ratio di fondo che è certo condivisibile; ma tant’è, nel nostro
ordinamento, come ha puntualizzato nella sua arringa il Maestro Marcello Gallo,
la causalità, ai fini penali, è una:
quella in forza della quale si può dire,
ex artt. 40 e 41 c.p., che una determinata azione od omissione, ha determinato,
è conditio sine qua non dell’evento dannoso o pericoloso da cui dipende
l’esistenza del reato; il nesso di
condizionamento che collega il comportamento, contestato all’imputato,
all’evento integrante il reato.
Si vuole
subito ovviamente rendere giustizia anche alla difesa Pisani che ha insistito
proprio sulla necessità di provare detto nesso di condizionamento, ma tanto si
è voluto precisare perché la Corte parlerà meramente di causalità, di nesso di
condizionamento, ben essendo coscienti che punto
di partenza, per la verifica della sussistenza di tale elemento, è la verifica
dell’idoneità (la causalità generale della difesa Pisani e del Tribunale) del CVM ad arrecare le conseguenze lesive
che integrano i reati contestati, idoneità che, ancora come giustamente ad
oltranza ribadito dalla difesa Pisani, non
è poi esaustiva per attribuire le conseguenze di tal genere, che nella specie
interesserebbero le parti offese individuate in imputazione, alle azioni od
omissioni degli imputati, se non si prova che proprio dette azioni ed omissioni
abbiano determinato l’azione dell’effetto nocivo, nella specie, del CVM, e che
di fatto proprio quest’effetto nocivo sia specificamente causa degli eventi
dannosi considerati, che per avventura, nella loro specificità e peculiarità,
potrebbero essere imputabili ad un diverso fattore causale neppure
collegato al CVM. Questi, sinteticamente, i concetti che si ritengono rilevanti
e di applicazione nel caso di specie; e questo dunque il punto di approdo della
Corte che nulla di originale elabora, onde non occorre certo in questa sede
dilungarsi nelle teorie del diritto, tesi ed approcci dottrinari e
giurisprudenziali che lo giustificano.
Il problema è invece
l’accertamento a livello probatorio di detto nesso di condizionamento.
Ricordato (ovviamente con una certa approssimazione, giusto per quanto è
funzionale allo sviluppo del discorso, ma ben avvertiti che i concetti che
seguono hanno ben altri approfondimenti e distinguo) che nella causalità
commissiva all’accertamento si perviene con la formulazione di un solo giudizio
ipotetico, chiedendosi se senza l’azione l’evento si sarebbe verificato
ugualmente, mentre nella causalità puramente omissiva (che è una costruzione
giuridica nella quale interferisce altresì l’obbligo di garanzia per cui, per
espressa previsione di legge –art. 40, 2° co., c.p.-, si risponde dell’evento solo
se si aveva l’obbligo giuridico di impedirlo, con necessità quindi di
selezionare ed individuare i titolari della posizione di garanzia con criteri
che siano rispettosi dei principi di legalità in materia penale) si formula un giudizio doppiamente ipotetico,
perché ci si domanda se, senza l’omissione, l’evento si sarebbe verificato
ugualmente, e poi se il compimento dell’atto dovuto avrebbe scongiurato
l’evento lesivo (secondo un ragionamento detto “controfattuale”, aggiungendo
cioè mentalmente l’azione comandata ed in realtà non eseguita), soccorrono poi
al riguardo, ai fini appunto del concreto accertamento, altri principi,
peraltro già ben enucleati dalla giurisprudenza della Suprema Corte che si è
interessata della problematica anche a sezioni unite.
Anche al riguardo,
ampiamente sviluppata la tematica sia dal Tribunale che dalle parti che hanno
cercato, in relazione all’interesse coltivato, di ampliare specifici concetti
anche al di là del significato che avevano nel contesto del ragionamento della Suprema
Corte, ovvero di smorzare sul nascere
quelli che si ritengono tentativi di fallacie ed anarchie metodologiche
coltivate da una serie di sentenze della IV sezione della Corte di Cassazione
successive alla pronuncia delle Sezioni Unite, ritiene questa Corte
territoriale utile un mero richiamo dei principi espressi dalla variamente
citata sentenza Franzese (n. 30328 del 10/7/2002 depositata il 11/9/2002) ai
quali si ritiene di rifarsi pienamente.
Diventa dunque poco utile, essendo, si
ribadisce, lo scopo della motivazione della sentenza quello di far conoscere il
processo logico motivazionale del giudice, discutere sia del percorso
dottrinario e giurisprudenziale che ha portato a tale arresto, sia del fatto se
sia vero che le sentenze Loi, Orlando, Ubbiali e poi anche Macola, tutte
successive alla pronuncia delle Sezioni Unite siano da considerare eretiche nel
riproporre un modello, asseritamente, da queste ripudiato (non lo si ritiene,
emergendo in realtà un mero approfondimento di concetti già espressi dalle
Sezioni Unite, ma tant’è non interessa, una volta che si dice che questa Corte
si richiama non alle assunte peculiarità delle sentenze Loi, Orlando, Ubbiali o
Macola ma ai puri principi, per tutti, accusa e difesa, sacrosanti nella loro
ortodossia rispetto al modello di causalità costruito dal legislatore,
letteralmente espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza Franzese).
Si vuole soltanto
ricordare che la pronuncia delle Sezioni Unite ha intanto avuto come primo
rilevante risultato quello di ridare dignità ed autonomia, nell’ambito
dell’accertamento del reato quando questo dipende dalla realizzazione di un
evento, all’individuazione del nesso eziologico tra le accertate condotte e
l’evento stesso, argomento molte volte trattato marginalmente dopo lunga
disamina delle condotte tenute ed esposizione di quelle che si ritenevano
dovute, e quindi del profilo di colpa (quando invece tale aspetto, relativo
all’individuazione dei profili di colpa degli imputati, dovrebbe rilevare solo
nel momento in cui si riterrà l’evento causalmente collegato alle condotte
degli imputati stessi).
Modo di procedere, non a caso ben
stigmatizzato dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte, che per “la
presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della
causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla
posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui
inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione
di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla
spiegazione del nesso eziologico”, con conseguente erosione nei reati omissivi
impropri, del paradigma causale stesso, giustificata da difficoltà probatorie
in uno con gli interessi primari in gioco, che si arresta alla mera verifica
dell’aumento del rischio; ma con erosione altresì delle garanzie costituzionali
di legalità e tassatività delle ipotesi di reato e della personalità della
responsabilità penale. Indirizzo giurisprudenziale peraltro superato proprio
dal filone della ormai neppure più recente giurisprudenza della IV sezione
della Suprema Corte avallata dalla citata pronuncia a sezioni unite che, in
relazione appunto all’accertamento del nesso causale individua i seguenti principi di diritto validi anche nel
caso che ci occupa:
a)il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio
controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o
di una legge scientifica –universale o statistica-, si accerti che, ipotizzandosi
come realizzata dal medico la condotta a doverosa impeditiva dell’evento hic et
nunc, questo non si sarebbe verificato;
b)non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di
probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi
accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve
verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del
fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento
probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi,
risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta
omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto
o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’;
c)l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro
probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio,
in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della
condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi
prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
Ecco allora che
l’insegnamento delle Sezioni Unite appare chiaro e non può essere “tirato per
la giacchetta” con il mero richiamo di passaggi che vanno letti nell’insieme,
con la fortuna che l’interpretazione viene letteralmente fornita dalle Sezioni
Unite stesse con la formulazione dei detti principi che sintetizzano
coordinandoli i singoli passaggi argomentativi.
E se certo ne emerge che
la Suprema Corte non solo ha confermato la necessità che la spiegazione causale
dell’evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibile “giudizio controfattuale condotto sulla base
di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica
–universale o statistica-“ che consenta di affermare, secondo un modello
causale idoneo a includere le
spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, che l’antecedente può
essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle
condizioni che le indicate leggi di “copertura” (tra le quali a tutto diritto
può rientrare anche la semplice regola di esperienza che non è il senso comune
inteso come generale credenza pur priva di razionale fondamento ma, come ben
coglie la difesa Pisani, espressione abbreviata e familiare di leggi
scientifiche) consentono di ritenere aver provocato l’evento, ma, non
ritenendo comunque “ sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del
condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle
statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè
alla “certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e
omessa rispetto al singolo evento”, ha altresì riconosciuto l’utilizzabilità di
un modello statistico-induttivo espressamente osservando che seppure
“coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento,
rivelati dalla legge statistica, impongano verifiche attente e puntuali sia
della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella
fattispecie concreta”, peraltro “nulla esclude che anch’essi, se corroborati
dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della
più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel
caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere
utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di
condizionamento” laddove al contrario “livelli elevati di probabilità
statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale,
pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità
o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne
accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso
concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’”attendibilità” in
riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile”.
Conclusivamente in
ordine al modello causale proposto dalle Sezioni Unite, si può citare un passo
di un opera di Federico Stella, fornita in atti dal medesimo nella sua veste di
difensore, che appare felice sintesi (onde si prende in prestito per non
sforzarsi di diversamente dire e magari male la stessa cosa) di quanto sopra
esposto:“la causalità non può essere amputata del suo elemento costitutivo, la
condizione necessaria, e perciò va ripudiato, come estraneo al nostro
ordinamento, il criterio del rischio (del suo aumento e della sua mancata
diminuzione); il nesso di condizionamento va accertato ricorrendo al sapere
scientifico e alle sue leggi, quando risulti pertinente al caso concreto;
possono essere utilizzate anche nude statistiche con frequenze medio-basse,
allorché vi sia il riscontro probatorio della sicura esclusione di altre cause;
il complessivo assetto probatorio relativo alla causalità…deve risultare immune
da ragionevoli dubbi.”
Tenendo quindi in
considerazione i principi e modello causale di cui sopra, va poi operata la
verifica della bontà o meno, in relazione alle doglianze degli appellanti, del
giudizio espresso dal Tribunale in merito al nesso causale tra le contestate
azioni od omissioni degli imputati e le conseguenze lesive che nella specie
interesserebbero le parti offese individuate in imputazione e che integrano i
reati contestati di omicidio colposo e lesione personale colposa, se cioè dette
conseguenze lesive possano essere state determinate dagli effetti nocivi del
CVM a loro volta consentiti o non impediti dalle azioni od omissioni degli
imputati.
Tenendo quindi in
considerazione i principi e modello causale di cui sopra, va poi operata la
verifica della bontà o meno, in relazione alle doglianze degli appellanti, del
giudizio espresso dal Tribunale in merito al nesso causale tra le contestate
azioni od omissioni degli imputati e le conseguenze lesive che nella specie
interesserebbero le parti offese individuate in imputazione e che integrano i
reati contestati di omicidio colposo e lesione personale colposa, se cioè dette
conseguenze lesive possano essere state determinate dagli effetti nocivi del
CVM a loro volta consentiti o non impediti dalle azioni od omissioni degli
imputati.
Si è già ricordato come
il Tribunale, dopo avere premesso che nella specie proprio la causalità
generale da esposizione a clorulo di vinile è stata utilizzata dall’accusa ai
fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per
indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole,
associata all'esposizione, ritiene, però, che dagli stessi studi
epidemiologici, tossicologici e sperimentali risulta una causalità generale
debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno
pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma
addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante sempre e comunque assunta come ineludibile presupposto della causalità
individuale anche di fronte a fattori
di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che sono stati valutati come concausa della
malattia e mai come fattori causali di per sé sufficienti e necessari.
Si è pure già
analiticamente sopra ricordato come il Tribunale supporti dette conclusioni con
disamina approfondita di studi, valutazioni dei consulenti di tutte le parti
processuali anche messe a confronto, testimonianze e documenti afferenti la
specifica situazione del Petrolchimico di Porto Marghera e dei singoli
lavoratori parti offese, disamina cui ci si può senz’altro rifare in quanto
puntuale e rispondente alle risultanze processuali. Giova solo, ai fini della
comprensibilità del discorso, richiamare solo sinteticamente detto percorso
valutativo nei punti di arresto. Ha osservato in particolare il Tribunale, dopo
disamina dello sviluppo e degli studi in materia e dei tempi in cui si sostiene
essere stata acclarata la cancerogenicità del cloruro di vinile monomero
(questione che rileverà ai fini della valutazione dell’elemento psicologico dei
reati) che punto di partenza per le
imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM sono le conclusioni di IARC
1987, che indicavano una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato
(angiosaromi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali,
tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi.
Ma le stesse
hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte
incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo ( Wong 1991;
Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e
ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali studi,
considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto
Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività
dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato
diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le
malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti epidemiologici dell’accusa (si cita l’ultima
relazione presentata dai consulenti
Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità
in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei
tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe
aggiungere anche del tumore della laringe.
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla base
degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più perentorie conclusioni cui erano pervenuti
gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del
successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi
che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della
idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che
l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi
(e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare
l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una
associazione forte tra esposizione a c v m e
angiosarcoma epatico e eccessi di rischio nello svolgimento di talune
mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per
l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le altre associazioni, pure
ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento IARC, non sono state
confermate.
Ma il PM
non ne avrebbe tratto le logiche e
conseguenti conclusioni, limitandosi ad eliminare solo tutti i tumori
gastrici e del pancreas che erano stati associati alla esposizione a
dicloroetano, ed altresì le broncopatie
e le broncopneumopatie (87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione
a PVC e, soprattutto, quest'ultime indicate come predittive del tumore
polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella
mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM
che anche IARC 1999 concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità
nell'uomo". Le altre
patologie (neoplastiche e non )
siano state ritenute o non sussistenti a seguito della esame della
documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non
correlate all'esposizione.
Né, secondo
il Tribunale, la debolezza delle evidenze epidemiologiche può essere supplita,
come ha tentato di fare il P.M. facendo ricorso alla biologia molecolare, che
pur puntualmente esaminata nei contributi di studi offerti dalle parti, si
rtiene offrire allo stato risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi,
né ancora potrebbe essere supplita sostenendo, come ha fatto l’accusa, la tesi
dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo )
e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause
potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la
concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che
se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la
veste di concausa. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa,
metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del
processo metabolico del cvm e dell'alcol, si ritiene invero che non sussistano
dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della asserita
interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche
ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita dai
consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero a
determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.
Osserva
dunque il Tribunale che se l'evidenza epidemiologica e sperimentale
indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta, la
sua considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni
di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la
rilevanza causale delle esposizioni
successive al 1974.
Infatti in tutte le
coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati
e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro che hanno
svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno
svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad elevate o
elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60 e primi
anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza.
E si citano al
riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt, ma anche
Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme e
assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, in
ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del
fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in
lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e
successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.
Ulteriore conferma
deriverebbe dal recente studio di Rozman e Storm (1997) dal quale emerge che
" fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu
riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli
Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a
partire dal 1968 ", traendone la conseguenza che " la riduzione delle
esposizioni entro il range di 0, 5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora
adeguatamente protettiva".
In particolare, ricorda
il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti
recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental
Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm
come media giornaliera - nel contratto collettivo di data 12/12/1969 si
raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31 ottobre 1972 viene
indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm come valore limite di
soglia riferito alla media delle concentrazioni per una giornata lavorativa di
7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore viene adottato anche nel
contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se la definizione di un
valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è in corso di
individuazione . Solo con il contratto collettivo del 23 luglio 1979 il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in
5 ppm .
Tale valore è definito
come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata lavorativa di 8
ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono
essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa
inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e
sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una raccomandazione di non
superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di riferimento tendenziale. E
solo con la direttiva CEE n° 610/78
recepita con DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come
media annuale.
In
relazione dunque a tali conclusioni in ordine alla nocività, ed alla soglia di
nocività del CVM, evidenzia il Tribunale come il primo e fondamentale dato di
fatto, che confuta in radice l’accusa, è che, come è documentato in atti, la concentrazione di CVM nei luoghi di lavoro,
misurata con i gascromatografi installati nei reparti CV fin dal 1975, è sempre
risultata inferiore al valore soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla
direttiva 78/610/CE, recepita in Italia col DPR 962/1982.
Circostanza
questa di estremo rilievo se si considera che dagli stessi dati rilevati e riportati
in tabella dal consulente del P.M. prof Diego Martines nello studio
caso-controllo sui lavoratori della coorte di Porto Marghera affetti da
angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica e epatopatia cronica si
evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce
gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza
bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente
sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei
lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto
ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi
di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori
che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.
Seppur dunque,
si evidenzia da parte del Tribunale, l’Unione Europea e l’Organizzazione
mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie
per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale
ha assunto identica posizione, (la
ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici
deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose di regola è lineare con la dose e la probabilità
che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al
numero di molecole presenti), la stessa OMS stima il rischio cancerogeno anche
sulla base di dati epidemiologici e a
tal fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il
rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta, e
dunque, può concludersi, così come fa il centro tossicologico e ecotossilogico
europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro
di vinile, che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente
livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza
presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai
livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm comporti rischi significativi per la salute".
E lo stesso
professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza del
Consiglio e Ministero dell'Ambiente, pur partendo dalla premessa che non può
essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo
possibile definire un livello senza effetto,
passando poi in rassegna le principali stime, su dati epidemiologici e
su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, trae l’indicazione
che che una esposizione lavorativa
presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare
a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a
soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di
livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine
di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che
assumono l'assenza di soglia.
Ed evidenzia dunque
il Tribunale che seppure le scelte politiche portano a opzione di default
utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti
problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino
in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la
salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul
livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare
i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli
teorici, operando scelte precauzionali, in realtà nella comunità scientifica e'
messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi;
ed in proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia
molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la
scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza
chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una
cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così
aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi
di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate
"esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né
per gli uomini né per i roditori".
Onde nella
comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che
superi il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è
sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse
dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti
delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto
per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta
essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che le esposizioni normativamente imposte e
osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997).
In conclusione
secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla
base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default,
che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è
pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini
precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Invero, dagli studi
epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui
risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun
angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal
1968, gli autori pervengono alla conclusione che la riduzione delle esposizioni
entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente protettiva.
Da parte del
Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili
con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia
e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non
hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità
in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione
scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni
epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio perché convergenti hanno una loro rilevanza sotto il profilo
probatorio della presenza di una soglia di non effetto del cvm o di una sua
idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual certa entità e che vengono
individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi analizzati
non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti
successivamente alla conoscenza della
oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su incidenza,
latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Sulla scorta dei
dati e studi di cui sopra posti in relazione ai principi in diritto sopra
ricordati ritenuti fondanti il modello causale applicabile, il Tribunale
procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione, ricordando e
premettendo che comunque la causalità generale, anche là dove ritenuta, non può
bastare perché suggerisce inferenze
eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli
individui; affermazione sulla quale concordano tutti i consulenti anche
dell’accusa pubblica e privata.
Si osserva poi che se si
considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un
angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a
circa 28 ppm circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle
esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più
alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti
dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente
al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei
gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In
tal senso sarebbero convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi
che pure individuano un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli
esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di
sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata una idoneità lesiva del c v m.
Evidenzia il Tribunale che gli stessi consulenti del
pubblico ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle
bassi dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli
sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può
escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono
osservati tumori non è una soglia
effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che
dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente
piccolo".. (Berrino); “attualmente
una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze genotossiche è troppo confusa per offrire
linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire
dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul
rischio e quindi accettare che non vi è
una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco
a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire
assolutamente nulla " (Martines).
Resterebbe il fatto, e
questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva
infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi
riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e
nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza
del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica,
si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni
50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate
antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun
tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto
Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il
periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte
medio-alte rilevate.
Conseguentemente si può
trarre una prima incontestabile conclusione:
alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva del
c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle
esistenti dal 1974 in poi.
Le incertezze della
scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni
cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori
approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in
ambito processuale dove ci si deve
attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le
sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale,
traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle
imputazioni agli imputati tutti tratti
in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli
eventi.
Infatti le
condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974. Mentre
per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di
tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti
imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli
stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di
impresa), non si ravvisano neppure condotte
cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.
Per il Tribunale
dunque, tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici
e aggiornati, valutati complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la
valutazione critica, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera,
dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia
molecolare con approfondimento delle caratteristiche nosologiche e morfologiche
delle neoplasie alla luce dei contributi
dei consulenti medico-legali e anatomo patologi, non consentono di
ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi
dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e
l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio.
E conclude
conseguentemente il Tribunale ritenendo non individuati fattori di rischio
professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa
proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori
del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi,
ma anche per i tumori del polmone che gli ultimi studi avrebbero ritenuto non
correlabile all’azione del CVM e per i quali, rispetto ai casi in specie
contestati, sarebbero emersi fattori di confondimento per la ricorrenza in 11
casi su 12 di una causa nota quale quella del tabagismo, e, quanto al fegato,
per l’epatocarcinoma per le incertezze scientifiche non ancora diramate e per
la ricorrenza di diversi fattori di spiegazione causale.
Osserva infatti
il Tribunale, quanto a tale ultima patologia, che intanto all’osservazione
epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato un associazione
forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il
fegato appare come l’unico organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie
hanno interessato lavoratori esposti ad elevate concentrazioni di cvm,
risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le mansioni di addetti
alle autoclavi.
Precisa tuttavia
che le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa
incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di
fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’
epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo
una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di
conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato. Altresì per
quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è
noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che
interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente
viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione
plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie
nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso
organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello
sperimentale.
Pertanto trovano spiegazione
causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
In
relazione alle suddette conclusioni del Tribunale si pongono le censure degli
appellanti di cui agli specifici motivi sopra analiticamente ricordati,
sostenendosi sostanzialmente, come motivo assorbente, che il Tribunale ha
gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed esclusivamente alle
dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e
di valutare tutto il materiale probatorio acquisito, dal quale emergerebbe
invece la tossicità e cancerogenicità del CVM con riferimento a tutti gli organi
indicati dall’accusa e quindi, secondo
il modello proposto dal P.M. appellante peraltro in parte discordante come
sopra visto con le stesse indicazioni delle Sezioni Unite cui pur dichiara di
rifarsi, la sussistenza del nesso di causalità in questione, per la gran parte
negato dal Tribunale.
Ma oltre
all’applicazione dei principi sulla causalità, si è visto come in particolare
il P.M. lamenti, seguito anche dalle parti civili appellanti, l’erroneità della
valutazione dei presupposti di fatto, storici e scientifici per giungere ad
affermare la penale responsabilità degli imputati consistono nella disamina di
epidemiologia e studi epidemiologici, metodologia epidemiologica, studi
epidemiologici sul CVM, studi epidemiologici
a Porto Marghera, effetto lavoratore sano rilevato nella coorte di Porto
Marghera, cancerogenesi, influenza delle esposizioni a basse dosi,
cancerogenesi e organismi internazionali.
Brevemente
ricapitolando quanto sopra già analiticamente esposto in ordine ai motivi di
doglianza in merito a tale problematica proposti dal P.M., si osserva che,
circa il primo punto, sostiene l’appellante che le conclusioni in merito alla
cancerogenicità di una sostanza
fatta da organismi internazionali non
potrebbero essere messe in discussione dai risultati di singoli studi, essendo
le prime il risultato di un processo di ricerca del consenso nell’ambito di un
gruppo di esperti che si raggiunge attraverso procedure standardizzate ed
esplicitate, che hanno come oggetto l’esame delle conoscenze scientifiche
disponibili al momento della formulazione della valutazione… ed i risultati di
singoli studi non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi
contribuiscono all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro
qualità.
Onde non sarebbe
corrispondente a realta’ (Pg. 27) l’affermazione generale che: “Le conclusioni
cui era pervenuta IARC nel 1987 sono state poste in discussione dagli studi epidemiologici successivi . In
particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da
Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong
(1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward
(2000) e da Mundt (1999)”. I nuovi studi, per quanto ampi, sarebbero una parte
del tutto che si inseriscono nell’alveo di quelli precedenti e di per sé non
portano a modifica della precedente valutazione, essendo necessario tutto un
meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione (o
riclassificazione) di una sostanza.
Quanto
alla seconda questione, sostiene il P.M. che la sentenza sarebbe gravemente
viziata per non avere dato contezza delle manchevolezze dello studio Mundt 2000
fondato su carente database del “filone principale” U.S.A., nonostante che in
dibattimento i vari consulenti tecnici del P.M. (Berrino, Comba, Pirastu,
Mastrangelo) si siano ampiamente soffermati su tale problematica.
Quanto
alla terza questione sostiene il P.M. che i tentativi di ridimensionare le
evidenze epidemiologiche relative alla cancerogenicità del CVM presenti nella
letteratura scientifica sarebbero conseguenza del ruolo svolto dall’industria
nella diffusione delle conoscenze sulla cancerogenicità del CVM, nello
specifico quella statunitense, ma anche Enichem, con il supporto di noti e ben
pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato
mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente
associato con l’esposizione a CVM.
E così,
riguardo alla metodologia epidemiologica, sostiene il P.M. l’erroneo utilizzo
da parte del Tribunale, in uno stesso studio di livelli di confidenza diversi
per diverse cause di morte, e non sarebbe accettabile in assoluto
nemmeno l’ulteriore affermazione e decisione del Tribunale, che esclude sempre e per partito preso
le situazioni con limitata significatività statistica: a questo proposito
richiama ancora l’appellante la recente sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (nr.27 del 2002: pag.15), dove viene scritto che “coefficienti medio bassi di pericolosità ….
impongono verifiche attente e puntuali …. Ma nulla esclude che anch’essi, se
corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze
tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale …. possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del necessario nesso di condizionamento”. Riscontro probatorio
secondo il P.M. per il caso dei tumori professionali possono essere le evidenze
sperimentali sugli animali e su altri modelli di laboratorio.
Lamenta
poi il P.M. errori ed errate valutazioni da parte del Tribunale in merito alle
conclusioni assunte relativamente ai tumori diversi dall’angiosarcoma con
riferimento agli studi epidemiologici sul CVM, sia di corte europea coordinato
da IARC (Ward 2001), sia USA (Mundt 2000), ritenendosi invece che una esatta
proposizione dei dati stessi porterebbe a diversa conclusione, in particolare
relativamente al carcinoma epatocellulare, al tumore al polmone ed alla
cirrosi.
Richiamando poi il P.M. gli studi epidemiologici a Porto
Marghera, lamenta che il Tribunale, pur citando una serie di dati prodotti dai
Consulenti Tecnici del PM, che dimostrano come nella coorte di Porto Marghera,
oltre all’eccesso degli angiosarcomi epatici,
vi sia stato un significativo eccesso di altri tumori epatici, in
particolare per gli autoclavisti, nonché, come emergerebbe dall’aggiornamento
1999, un significativo eccesso di tumori polmonari per i lavoratori che avevano
svolto mansioni di insaccatori.
E si
sostiene da parte dall’appellante, in tema di causalità generale da esposizione
a cloruro di vinile, che, alla luce di quanto scritto, e sopra accennato, in
merito agli studi epidemiologici sul CVM, non è assolutamente condivisibile
l’affermazione del Tribunale relativa
“all'assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche della
idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone , il carcinoma epatocellulare e la cirrosi riconoscendo
solo la sua associazione causale con l'angiosarcoma , con tipiche epatopatie e
con la sindrome di Raynaud”. Lamenta il P.M., che per affermare ciò, il
Tribunale avrebbe dovuto prima di tutto affrontare e criticare quanto esposto
dall’accusa in senso contrario, esaminando le relazioni finali depositate dal
P.M., criticandone l’eventuale metodologia, la logica e le conclusioni.
Analogamente,
sarebbe del tutto arbitraria l’affermazione del Tribunale secondo la quale
“tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e
aggiornati, valutati complessivamente,
non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra
CVM-PVC e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la
sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti
l'endotelio”.
Nello specifico delle
singole patologie, sostiene l’appellante, richiamando in particolare gli studi
dei propri consulenti, che, quanto al tumore al polmone, “nelle coorti che
hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccattori, definiti come
"solo addetti all'insacco" e " addetti all'insacco "si sono
identificati incrementi di mortalità. Pertanto la persuasività scientifica
della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a
polveri di PVC è elevata”.
Quanto ai tumori del fegato –angiosarcoma
a bassa esposizione sostiene l’appellante
che neppure avrebbe ben compreso il Tribunale i dati emergenti dallo studio
europeo WARD 2001, che pur ritiene fondamentale, dati dai quali, contrariamente
a quanto ritenuto dal Tribunale, emergerebbe un rischio di angiosarcoma anche a
bassa esposizione, non avendo d’altra parte il Tribunale considerato che era
stato discusso dal P.M. un caso di angiosarcoma per un operaio assunto dopo il
1973 (Dalla Verità Domenico, assunto nell’aprile del 1974), ed avendo pure
rigettato la richiesta del P.M. di acquisire della documentazione attestante
un’altra morte per angiosarcoma a causa del CVM, verificatasi negli USA, per
bassissime esposizioni.
Quanto al carcinoma epatocellulare si
richiamano ancora gli studi e conclusioni dei propri consulenti che suggeriscono
che “l’esposizione a CVM può essere
associata anche con questo tumore”. Si ricorda inoltre che valutazioni
dell’associazione causale intercorrente fra esposizione a CVM e carcinoma
epatocellulare sono state formulate, oltre che da IARC, anche da EPA. Onde
anche nel caso secondo il P.M. i criteri di causalità esposti dal Tribunale a
pag. 42 siano stati adeguatamente verificati e, quindi, anche in questo caso va
affermata la sussistenza del nesso causale.
E così per la cirrosi relativamente alla
quale se è vero che nella coorte generale di Porto Marghera la mortalità per
tale patologia è inferiore all’attesa, va peraltro rilevato che essa è
superiore all’attesa fra gli autoclavisti.
Così non avrebbe
adeguatamente valutato il Tribunale l’effetto lavoratore sano nei termini e per
gli effetti già sopra esposti, che renderebbe invece possibile rilevare che:
a -
non c’è alcuna diminuzione di rischio
per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo trascorso dall’assunzione;
b -
gli assunti in anni più recenti non
hanno ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia
(soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di
latenza può essere molto lungo);
c -
non vi è alcuna evidenza empirica che
gli assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di
salute rispetto agli assunti negli anni precedenti;
d - i soggetti esposti nelle mansioni a rischio
(autoclavisti e insaccatori) manifestano una mortalità per tutte le cause
aumentata e questo rischio appare crescente al crescere della durata di impiego
nella mansione a rischio.
Così non avrebbe
compreso il Tribunale le questioni relative alla carcinogenesi. E riproponendo
l’appellante i concetti di genetica molecolare sostiene la correttezza
dell’ipotesi di accusa per la quale il CVM è cancerogeno non solo iniziante,
come riconosciuto dalla sentenza, ma altresì promovente, onde non può parlarsi della presenza di una
" soglia di sicurezza”.
Quanto poi
alle patologie riscontrate a Porto Marghera, ricorda ancora il P.M.,
contrariamente alle diverse conclusioni del Tribunale, che secondo vari
organismi e organizzazioni internazionali, tra cui IARC ed EPA in primo luogo,
devono essere considerati come principali organi – bersaglio del CVM il fegato,
il polmone, il cervello, il sistema emolinfopoietico. Inoltre, sulla base di
singoli studi, devono essere attribuite all’azione del CVM alcune altre patologie,
come il tumore del laringe, nonché – come ampiamente illustrato anche nel
capitolo 2.3 – il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi.
Nello specifico, si
sottopongono a critica anche alcune conclusioni del Tribunale quali
l’esclusione della presenza dell’angiosarcoma epatico per Simonetto Ennio su
asserito unanime giudizio di tutti i consulenti, quando invece tra i consulenti
vi era contrasto sul punto (ma, osserva la Corte, su questo punto neppure si
tornerà in quanto la doglianza è frutta di sicura svista dell’appellante atteso
che il suddetto caso è tra gli otto casi di angiosarcoma riconosciuti dal
Tribunale integranti oggettivamente, per la sussistenza del nesso causale, i
contestati delitti di omicidio colposo, esclusi solo per carenza dell’elemento
psicologico del reato -si cita il relativo capo di sentenza: “Assolve i
predetti imputati dai reati di "omicidio colposo" per angiosarcoma
epatico in danno di Agnoletto Augusto, Battaggia Giorgio, Faggian Tullio,
Fiorin Fiorenzo, Pistolato Primo, Simonetto
Ennio, Suffogrosso Guido e Zecchinato Gianfranco, perché il fatto non
costituisce reato”).
Quanto
all’epatocarcinoma, lamenta l’appellante travisamenti ed erronei apprezzamenti dei
contributi scientifici, e dopo aver ancora ribadito la tesi, sostenuta dai
propri consulenti, dell’azione sinergica del CVM con gli abusi di alcol e le
infezioni da virus B e C, sostiene che
in forza degli atti del processo il carcinoma epatocellulare può essere
ascritto all’esposizione a CVM.
Analogamente, anche relativamente alla cirrosi epatica contesta il P.M.
come già accennato, le conclusioni del Tribunale, ritenendole, così come sopra
nella disamina dei motivi già ricordato non basate sulla realtà dei dati e
sulle logiche considerazioni che ne
sarebbero dovute scaturire, come ampiamente presentato in dibattimento.
Sempre con riferimento
all’organo bersaglio fegato, sostiene infine il P.M. che trattando delle
epatopatie riscontrate nei lavoratori del PCV-CVM di Porto Marghera, il
Tribunale continua a far confusione tra tossicità e cancerogenicità del CVM.
Sostiene dunque l’appellante, dopo richiamo alla già ricordata differenza
concettuale e sostanziale tra tossicità e cancerogenicità, e dopo riproposizione
dei casi dei lavoratori le cui epatopie sono state escluse dal Tribunale come
causate dall’esposizione a CVM, che al riguardo la sentenza ha ripetutamente
invocato (fin da pag.9) l’elevato consumo di alcol come “giustificata soluzione
alternativa” all’eccesso di tumori del fegato, di cirrosi e di epatopatie. Ma,
sostiene l’appellante, l’eccesso osservato negli operai di Porto Marghera è
troppo elevato per poter essere spiegato da un eccessivo consumo di alcol.
Lamenta altresì il P.M.
che il Tribunale abbia assolto gli imputati amministratori Montedison del
periodo 1969 – 1973, non meglio individuati, perché il fatto non costituisce
reato, dai cinque casi di epatopatia (Poppi Antonio, Bartolomiello Ilario,
Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe e Sicchiero Roberto) riconosciuti come causati
dal CVM. Non convincenti secondo l’appellante le motivazioni per l’esclusione
dell’elemento soggettivo, atteso che il CVM era un noto epatotossico (lo si
sapeva dagli anni cinquanta-sessanta e lo si insegnava all’università). Ed a
questo proposito e in relazione all’art.437 c.p. (malattie derivate da
omissioni del “datore di lavoro”) nulla ha risposto il Tribunale.
Si lamentano, infatti, ripetute omissioni in fatto rilevate in motivazione;
incompletezza grave nell'esame di tutti gli elementi probatori sottoposti
dall'accusa all'esame del Tribunale; distorsione di quanto scritto e segnalato
dai consulenti tecnici dell'accusa; accettazione acritica e totalmente
immotivata delle tesi della difesa degli imputati.
Conclude, infine, sul punto il P.M. contestando altresì l’esclusione
delle patologie degli altri "altri organi" bersaglio del CVM-PVC
(laringe - sistema emolinfopoietico -encefalo). Anche al riguardo, ci si
lamenta che le motivazioni della sentenza sono del tutto insufficienti e non
affrontano nemmeno tutti i dati, gli studi scientifici, le relazioni tecniche e
le dichiarazioni dei consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili offerti
all'esame e alla valutazione del Tribunale.
E una situazione analoga si presenterebbe anche per i melanomi, per i
quali sono emersi "eccessi", nonché relativamente alla sindrome di
Raynaud per la quale il Tribunale oltre a fornire dati numerici sbagliati
rispetto ai casi introdotti dal P.M. nel processo, fa poi confusione sul numero
dei casi da lui stesso ammessi, si è completamente dimenticato di Terrin, non
ha considerato che il certificato di diagnosi di RAYNAUD per Gabriele
Bortolozzo è del 1995, ed inoltre, si è dimenticato dell’accusa di cui all’art.
437c.p..
A fronte delle suddette
doglianze sul punto, sostanzialmente analoghe quelle proposte dalle parti
civili a quelle del P.M. che, più analitiche, si sono citate, ritiene la Corte,
richiamata la ricostruzione degli elementi probatori analiticamente operata dal
Tribunale e sopra già riportata, ma che comunque deve intendersi qui
integralmente trascritta e fatta propria da questa Corte in quanto rispondente
a corretta riproposizione di tutte le risultanze rilevanti ai fini della
valutazione e giudizio sul punto, che altresì condivisibili sono le
valutazioni, che pure si fanno proprie e debbono qui intendersi riportate, e le
conclusioni cui in forza delle stesse il Tribunale è pervenuto nell’individuare
gli eventi, tra quelli contestati, che sarebbero causalmente collegati
all’azione nociva del CVM con riferimento al periodo temporale fino a tutto il
1973 e quindi alle contestate azioni ed omissioni di chi tra gli imputati, pure
correttamente individuati, aveva determinato quelle condizioni di lavoro
favorevoli all’aggressione del CVM (profilo, questo, di causalità commissiva),
ovvero aveva omesso di intervenire con strumenti prevenzionali e con modifiche
di procedure, con opere di risanamento degli impianti e quant’altro idoneo ad
evitare le alte concentrazioni di CVM superiori alle soglie di nocività.
Solo, diversamente dal
Tribunale, si ritiene, atteso quanto poi si dirà, sul punto specifico
riformando la sentenza del primo giudice, in ordine alla sussistenza altresì
dell’elemento psicologico onde l’impossibilità in ordine ai ritenuti reati di
omicidio colposo e di lesioni personali colpose di pervenire ad assoluzione
sotto tale profilo, che le ipotesi di reato ex art. 590 c.p. per epatopatie
siano da ampliare rispetto ai casi riconosciuti dal Tribunale, attesa la
soluzione giudiziaria cui si perviene, che è quella della prescrizione ormai da
lustri già intervenuta e che va immediatamente dichiarata attesa la mancanza di
evidenza di ipotesi assolutoria che interessa certo gli specifici casi di
epatopatie individuati dal Tribunale (in ordine alle quali non vi è gravame
circa la riferibilità obiettiva alle condotte degli individuati imputati
ritenuta dal Tribunale che assolveva poi per difetto di colpa), ma anche gli
ulteriori casi individuati dalla Corte che concernono similari patologie
contratte altresì nel periodo di riferimento (fino a tutto il 1973) nel quale
gli ambienti di lavoro erano
interessati da alte concentrazioni di tale sostanza e per le quali non può
senz’altro escludersi l’azione del cloruro di vinile monomero.
Infra comunque meglio si
specificherà in ordine a tale statuizione, così come in ordine alla
condivisibilità del giudizio del Tribunale in ordine alle altre epatopatie per
le quali non vi sono elementi idonei a suffragare l’ipotesi accusatoria e
dunque vi è evidenza di insussistenza del chiesto nesso causale e
conseguentemente dell’oggettiva insussistenza del reato.
Infondate dunque le
specifiche doglianze di cui sopra relative appunto all’individuazione del nesso
causale in relazione alle ipotesi di reato per le quali invece non veniva
riconosciuto dal Tribunale, giova peraltro osservare, in relazione ai punti
salienti di gravame, che parziale è la lettura offerta dagli appellanti che,
nel lamentare omissioni e difetto di valutazione da parte del Tribunale di
specifiche circostanze o punti argomentativi, si sono ancorati a tale asserite
omissioni dimenticando invece tutto il resto nel cui contesto scarsa valenza
probatoria avevano le circostanze stesse. Contrariamente invece il Tribunale ha
fondato il suo convincimento sul risultato complessivo dell’evidenza probatoria
correttamente colto e riproposto e che integralmente viene fatto proprio da
questa Corte, per la evidente, tra l’altro, infondatezza delle singole censure.
Ed invero, intanto va
pur sempre ricordato che comunque, a prescindere anche dalla soluzione della
problematica in ordina alla nocività del CVM ed alla sua idoneità a cagionare
le patologie contestate, peraltro con ricorrenza frequentista non certo alta
rispetto al numero delle persone che possono esservi venuti a contatto, il
nesso causale tra l’esposizione e le patologie stesse per come nella
specificità insorte in capo alle parti offese indicate in imputazione sarebbe
ancora tutto da provare.
A parte infatti le
patologie ed i casi riconosciuti compiutamente dal Tribunale e quelli che, per
come si vedrà, per la mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria, possono
portare a declaratoria di prescrizione che si impone con immediatezza senza
compiuta disamina degli elementi sia oggettivi che soggettivi del reato, nella
specie il nesso di condizionamento tra condotte contestate ed eventi lesivi
individuati non risulterebbe neppure provato per difetto di idonei elementi
esaustivi non solo medico legali, ma anche indiziari tali che, collegati
all’astratta idoneità lesiva della sostanza, possano portare a ritenerne la
sussistenza oltre ogni ragionevole dubbio. La prova, si è detto, non può
consistere nella mera esposizione al rischio.
Ma tant’è le censure sul
punto relativo alla specifica ricorrenza della causalità in merito alle ipotesi
di reato contestate sono infondate anche in fatto.
La lunga ed articolata
istruttoria dibattimentale ha invero messo in luce, ora su una patologia ora su
l’altra, insanabili contrasti tra gli stessi consulenti e testimoni qualificati
dell’accusa con il risultato che questa ala fine non avrebbe adempiuto
all’onere probatorio non solo in merito alla condizione necessaria dei singoli
eventi ma già dell’idoneità della sostanza incriminata a cagionare quelle
determinate patologia.
Intanto contrasti in
merito all’individuazione degli organi bersaglio diversi dal fegato: il
polmone, il sistema emolinfopoietico e il cervello. Se al riguardo Berrino resta fermo nelle conclusioni cui a seguito
dei primi studi era giunta IARC, di diverso parere appare l’altro consulente
epidemiologo dell’accusa Carnevale per il quale negli studi successivi all’87,
non c’è più evidenza di una associazione con i tre organi bersaglio.
Nello specifico poi dei singoli
organi, di mera possibilità di un nesso eziologico tra CVM o polveri di PVC e tumore al polmone parlano, ancora in
contrasto con Berrino ed altresì con Mastrangelo (che peraltro nella relazione
depositata il 19.2.2001 asserisce che, per il ruolo svolto dall’esposizione
alle polveri di PVC dei dipendenti delle cooperative, sarebbe eziologicamente
rilevante solo il periodo di esposizione fino al 1975 in quanto successivamente
al situazione sarebbe migliorata), i consulenti Comba e Pirastu in relazione
proprio allo specifico studio di coorte su Porto Marghera, evidenziandosi tra
l’altro nell’esame da detti consulenti
che se dallo studio fossero stati esclusi i soci delle cooperative che
avevano una età, all’ingresso, estremamente elevata, e costituiscono una
popolazione che non è sovrapponibile molto facilmente ad altre popolazioni di
lavoratori dipendenti, essendo il dipendente di cooperative uno che lavora “in
più siti diversi” onde “non c’è la possibilità di sovrapporre la coorte con la
fabbrica”, per gli insaccatori
dipendenti Montedison ed EniChem non emergerebbe alcun eccesso, come ancora
puntualizzato da Comba nel suo esame, che precisa in sostanza che nessun
elemento nello studio di coorte poteva portare ad affermare con certezza il
ruolo eziologico del CVM o del PVC in relazione al tumore al polmone, ruolo
eziologico che si limitavano detti autori a “suggerire”, a ritenere “possibile”
“perchè, di fatto, si disponeva solo di uno studio americano”, cioè dello
studio di Waxweiler del 1981, ben
citato già dal Tribunale, che prospettava l’ipotesi, mai confermata,
dell’azione del cvm imprigionato nelle polveri di pvc.
Ma un solo studio, ne sono consapevoli gli
stessi Comba e Pirastu, non può essere sufficiente non essendosi neppure
raggiunta scientificamente la soglia (che richiederebbe comunque delle
convalide tali da far ad un certo punto ritenere data per accettata la tesi)
per la quale potrebbe poi comunque temersi una falsificazione.
Restano dunque i dati oggettivi a livello
epidemiologico evidenziati dai detti studiosi, e resta soprattutto il dato,
espresso nella tabella della relazione Comba-Pirastu, dal quale emerge una
relazione inversa tra aumento della latenza e valore del SMR per il tumore al
polmone, dato che depone in senso contrario al collegamento eziologico
ipotizzato e ben evidenziato dal Tribunale nella sua motivazione non trovando
al riguardo idonei argomenti contrari. Invero, come ben ha spiegato, ribadendo
il concetto in due udienze diverse (ud. 1/7/98 e ud. 8/7/98), la Pirastu nel
suo esame (“ci si aspetterebbe che all’aumentare della latenza, del tempo
trascorso dal momento in cui hanno cominciato l’esposizione, questo aumenta il
valore dell’SMR, mentre questo nel nostro caso non si verifica”; “quello che si
attende per un cancerogeno è che all’aumentare della latenza aumenti anche la
nostra stima dell’effetto”).
Contraddittorie con la
tesi propugnata dal P.M. sono altresì le conclusioni dei suoi consulenti, certo
comunque non idonee nel complesso a comprovare l’accusa, per gli altri tumori e
malattie.
Quanto agli epatocarcinomi Berrino sostiene che non
ci sono evidenze epidemiologiche: gli studi epidemiologici generalmente non
sono stati in grado di calcolare un rischio relativo preciso (ud. 12.6.1998).
La tesi del P.M. secondo il quale dalle pubblicazioni EPA si evincerebbe che
esistono “prove estremamente indicative di una relazione causale con il
carcinoma epatocellulare” non appare
invero suffragata in atti da generalizzata accettazione scientifica
dell’assunto. Permane, nonostante la classificazione di EPA, incertezza. Sia
nella pubblicazione di maggio 1999 che in quella di maggio 2000 EPA compie una
revisione della letteratura
disponibile. In entrambe le relazioni il sostegno maggiore alla tesi di una
associazione tra CVM ed epatocarcinoma proviene da una valutazione dei casi di
tumore del fegato dello studio americano (nella prima relazione si tratta dello
studio di Wong del 1991 mentre
nel secondo caso si tratta dello studio di Mundt
del 1999).
Secondo gli estensori dei
rapporti EPA, dall’analisi delle coorti americane risulterebbe che, una volta
esclusi dal calcolo gli angiosarcomi del fegato, tutti gli altri tumori del
fegato sarebbero comunque in eccesso indicando quindi un effetto del CVM anche
su questo tipo di tumori (e non solo sugli angiosarcomi). Ma, come
condivisibilmente rimarca la difesa Pisani, l’argomentazione è molto debole sia
perché non è supportata da letteratura sufficiente (nessuno studio
epidemiologico aveva ancora affrontato in dettaglio il problema degli
epatocarcinomi in quanto tali: ricordiamo che il primo studio che ha esaminato
la questione è l’indagine multicentrica europea (Ward, 2000; Ward,
2001) con la valutazione di un numero molto ridotto di casi, indagine non
esaminata in nessuno dei documenti EPA citati) sia perché il documento EPA
stesso (maggio 2000, p. 11) riconosce gli enormi limiti della analisi condotta,
soprattutto laddove indica esplicitamente l’esistenza di una difficoltà
diagnostica nella valutazione dei casi di epatocarcinoma e la possibilità che
in realtà molti dei casi ritenuti epatocarcinomi possano essere invece degli
angiosarcomi mal diagnosticati.
D’altro lato, la
rilevanza dello studio di Mundt
sugli epatocarcinomi è esclusa in radice perché a) gli eccessi non sono statisticamente
significativi; b) manca l’analisi dose-risposta.
Pochi e incerti quindi
gli elementi a favore di una associazione tra esposizione a CVM ed insorgenza
di tumori del fegato diversi dagli angiosarcomi, un incertezza scientifica che
non può essere superata, laddove si discute di reati, dalla classificazione EPA
che si basa solo su alcuni studi peraltro non scevri da dubbi diagnostici, e
pur rimarca assenza di consistente evidenza epidemiologica.
E lo stesso Zocchetti
nella memoria del 13.1.1999 concludeva nel senso che “la situazione sembrerebbe
pertanto quella tipica in cui si deve dire sospendiamo il giudizio e suggeriamo
un supplemento di indagine perché non ci sono elementi sufficienti per dare
delle indicazioni esplicite e precise”; e nella memoria del 26.9.2000 si
aggiungeva che “bisogna anche osservare, almeno in termini descrittivi, che il
piccolissimo numero di casi rappresentato dalla letteratura, non depone certo
per una evidenza di effetto, soprattutto se si considera il numero piuttosto
elevato di soggetti esposti, anche a dosi molto elevate nel passato, e la
frequenza di epatocarcinoma che è certamente superiore a quella degli
angiosarcomi. … e che l’epatocarcinoma è correntemente giudicato un tumore
dalla eziologia molto variegata”.
Proprio quest’ultima
notazione è estremamente significativa e già rilevata dalla difesa Pisani:
l’epatocarcinoma non è un tumore raro (almeno in paragone con l’angiosarcoma).
Inoltre, in aggiunta e ad ulteriore differenza rispetto all’angiosarcoma, è
bene ricordare (come fanno anche i consulenti della accusa nella memoria di
sintesi dell’aprile 2001) che l’epatocarcinoma è un tumore che oltre ad
ammettere fattori di rischio di tipo professionale (diverse sostanze
epatotossiche, come le aflatossine e le nitrosoammine) riconosce ben noti
fattori di rischio extraprofessionali, di cui i più importanti sono l’infezione
cronica da virus B e C, l’abuso di alcol (nonché alcuni aspetti relativi alla
dieta), e la cirrosi.
Correttamente
evidenziandosi dalla predetta difesa che per l’epatocarcinoma le differenze
rispetto all’angiosarcoma del fegato non sono da riferire solo al differente
livello della evidenza scientifica presente (più propriamente sarebbe meglio
dire assente) in letteratura, ma anche alla differente impostazione del
problema eziologico, che vede per l’angiosarcoma un insieme limitato di fattori
di rischio noti, mentre per il carcinoma epatocellulare si deve considerare una
eziologia chiaramente multifattoriale con particolare rilevanza dei fattori extraprofessionali,
e che non esiste un registro degli epatocarcinomi esposti a CVM e pertanto non
è possibile definire in maniera precisa le caratteristiche dei casi riscontrati
per quanto riguarda, ad esempio, la latenza, il periodo di inizio e la durata
della esposizione, la mansione svolta, l’esposizione cumulativa, etc.
Quanto alla cirrosi, per Berrino l’evidenza
epidemiologica non è chiara, ma è un po’ dubbia; per Comba e Pirastu, i casi di
cirrosi sono inferiori all’atteso nella coorte di Porto Marghera. Dalle memorie
dei consulenti della difesa Zocchetti
del 26.9.2000 e Zocchetti-Dragani
del 20.4.2001 emerge poi, sulla base di esame della letteratura e di una
valutazione epidemiologica, inesistenza di associazione con l’esposizione a
CVM.
Ed invero, correttamente
e stato già evidenziato dal Tribunale e dalla difesa degli imputati, che:
gli studi epidemiologici
di mortalità per cirrosi non hanno evidenziato rischi significativi; lo studio
multicentrico europeo (Simonato 1991-) e quello sulle coorti americane
(Wong-1991-) hanno rilevato rispettivamente un RSM pari a 0,88 e a 0,62 e hanno
osservato una relazione inversa con l'esposizione a c v m; nell'aggiornamento
dello studio europeo (WARD 2000) si sono osservati 50 decessi per cirrosi
epatica rispetto ai 64, 62 attesi corrispondenti a un RSM di 0, 77; in detto studio si afferma che " sebbene vi
fosse un deficit significativo della mortalità per cirrosi epatica nell'intera
corte tuttavia vi era per un eccesso significativo di mortalità nel gruppo ad
elevato rischio relativo: la Norvegia era comunque l' unico paese per il quale
il rapporto standardizzato di mortalità, basato su quattro decessi, era statisticamente significativo; tuttavia
non era stato rilevato alcun trend nella mortalità per cirrosi per quanto
riguarda il tempo della prima occupazione, l'impiego e la durata dell'impiego;
un trend significativo invece era stato rilevato all'aumentare dell'esposizione
cumulativa; sebbene coloro che avevano lavorato come autoclavisti avessero il
rapporto standardizzato maggiore rispetto a coloro che non avevano mai
ricoperto questa mansione tuttavia il RSM per la prima categoria non era
statisticamente significativo; la relazione tra esposizione a c v m e
insorgenza di cirrosi epatica nella coorte di Porto Marghera è stata analizzata
sia nello studio Comba - Pirastu sia nello studio caso controllo di Martines;
lo studio generale sulla corte indica tali risultati: osservati 14; attesi 25, 5 : SMR=55; nello studio caso controllo
di Martines vengono considerati 32 casi: di questi per 14 la diagnosi era stata
formulata sulla base dell'esame istologico, per gli altri la diagnosi era
basata sul quadro clinico.
Per il calcolo dei
rischi relativi sono stati considerati anche 14 pazienti risultati affetti da
epatocarcinoma con segni di precedente cirrosi; come risulta nel capitolo di
presentazione dello studio l'unica categoria in cui vi è un rischio relativo in
eccesso (2. 38) è quella con esposizioni elevate (1651-10125); anche nel caso
di cirrosi i fattori di confondimento appaiono fortemente sottovalutati
nonostante fossero presenti in tutti i soggetti: l'infezione virale b o c era
presente in 7 soggetti ; il consumo di alcol in tutti e in particolare in 23
elevato e in 14 molto alto (> 120) ; ciònonostante il rischio relativo era
calcolato per le due categorie di poco superiore a 1 (1. 05 - 1. 24); l'autore
dello studio giustificava la sottostima non solo per aver assunto come
categoria di riferimento lavoratori con danno epatico, ma sostenendo che
l'obiettivo dello studio non era quello di dimostrare la responsabilità del
consumo di alcol e di virus b e c nel determinare la cirrosi epatica (e
l'epatocarcinoma) che è ampiamente riconosciuta, ma quello di evidenziare un
eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m; non si può non rilevare, diversamente la
sottostima porta a risultati inaffidabili, che se si intende assumere come
ipotesi a priori l'effetto lesivo di una sostanza non si può che esaminare con
estrema cautela i risultati ottenuti soprattutto in presenza di fattori
causali non solo noti ma di
elevatissima incidenza.come la letteratura già citata mette in chiara evidenza
: (virus dell'epatite b e c nel 60% dei casi, abuso di bevande alcoliche nel 30%
dei casi); inoltre non si può non rilevare un vizio di impostazione che
inevitabilmente porta a effetti distorsivi : proprio perchè l'autore ha assunto
come casi i soggetti che, secondo i consulenti medico legali del pubblico
ministero erano affetti da cirrosi, non si può non rilevare come vi sia stata
una riduzione da parte del pubblico ministero nelle sue conclusioni dei casi di
cirrosi, otto dei quali sono stati utilizzati dal dottor Martines per
effettuare le sue elaborazioni statistiche.
Appare del tutto ovvio
che di conseguenza anche per questa ragione vi è stata una sovrastima del
rischio relativo; ma anche i fattori virali sono sottostimati posto che circa
la metà dei lavoratori non è stata
indagata per la presenza di marcatori dell'epatite c e 14 per la presenza di
infezione da virus b; lo stesso autore pare rendersi conto di questi limiti
posto che nelle considerazioni conclusive individua un ruolo concausale nello
sviluppo di cirrosi solo in 9 dei 22
soggetti facenti parte del gruppo ad alta esposizione mentre per gli altri pazienti cautamente si afferma che"il
ruolo dell'esposizione del c v m nell'insorgenza di cirrosi è più difficile da
quantificare ma non può essere escluso"; delle caratteristiche della
cirrosi si è già detto nel paragrafo in cui si è trattata la associazione cvm
epatocarcinoma : nel paziente cirrotico la persistente proliferazione degli
epatociti è determinata dal persistere
di stimoli infiammatori come necrosi e rigenerazione epatocitaria da virus o
alcol che incrementano in maniera rilevante il rischio di tale tumore; peraltro
non possono non richiamarsi le puntuali
osservazioni sui fattori di rischio illustrate dal consulente epatopatologo
della difesa professor Colombo nel corso della sua audizione ( udienza 11 dicembre
1998 );il consulente mette in rilievo la lesività di dosi elevate di alcool che
viene sottoposto a una ossidazione
metabolica a tre livelli nella cellula epatica producendo una addotto-
l'acetaldeide- assai instabile che si aggrega alle proteine strutturali della
cellula epatica che determinano delle lesioni cellulari ovvero producono a loro
volta dei composti che suscitano reazioni immunologiche;
la dose pericolosa è
individuata in 80 grammi e l'epatopatia alcoolica può portare a morte anche
senza evolvere in tumore epatico; il rischio di infezione da epatite b
determina cirrosi e come già si è visto e' inesorabilmente connesso con lo
sviluppo dell'epatocarcinoma, che peraltro è assai lento, anche se si calcola
che milioni di persone all'anno muoiono per tale tumore avente come fattore eziologico
l'infezione virale : il virus dell'epatite b determina necrosi e rigenerazione
continua degli epatociti e quindi mitosi che amplifica l'eventuale danno
genetico : il virus b ha quindi in sé sia la capacità genotossica di ledere il
genoma e altresì ha la capacità di
promuovere il tumore con una continua infiammazione degli epatociti;il virus
dell'epatite c identificato nel 1989 ha consentito alla comunità scientifica di
riclassificare e rivalutare malattie la cui identificazione eziologica era
stata problematica;in particolare taluni studi hanno evidenziato che la
stragrande maggioranza dei pazienti con cirrosi non classificabile come da
virus b o da abuso di alcool avevano la epatite c la quale può evolvere in
epatocarcinoma: l'80% dei pazienti italiani con carcinoma epatocellulare è cronicamente infettato dal
virus c che nella fase precedente causa una cirrosi correlata all'epatite
virale c;in Italia le persone affette da epatite virale c sono stimate in circa
1 milione ma vi sono dati che indicano che questa stima è conservativa.
Peraltro vi sono stime
molto più precise concernenti la
cirrosi da virus c che è stata individuata in duecentomila italiani e questa
corte di cirrotici genera almeno dieci - ventimila casi di epatocarcinomi (così
prof.Colombo ud 22/12/1998); la incidenza di morte per cirrosi è elevata e la
probabilità di sopravvivere dieci anni dalla diagnosi iniziale in pazienti con
cirrosi compensata e’ di circa il 50%;l'esame istologico dell'accertamento
della cirrosi è di assoluta importanza non solo per individuarne l'eziologia ma
per individuarne le caratteristiche e
la fase a cui la malattia è pervenuta; tutti i casi di cirrosi osservati nella
casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno
mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame
istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente
con uno dei noti fattori di rischio; in 20 soggetti l'alcool ; in 11 il virus b
o c ; in 3 l'emocromatosi.
Inoltre 17 cirrosi sono
evolute in epatocarcinomi e 7 erano sorrette da epatite virale b o c;
proprio la presenza di tali
fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero a ipotizzare comunque solo un ruolo
concausale del c v m , peraltro limitato nello studio di Martines a 9 soggetti
e del tutto problematico per tutti gli altri.
Ritiene questa Corte
corretta la conclusione in ordina al fatto che l’eccesso rilevato in
particolare nella coorte di Porto Marghera non può essere ritenuto significativo
dal punto di vista statistico, attesa appunto la presenza di fattori di
confondimento, quali epatiti e abuso di alcole, e soprattutto per la scarsità
di informazioni in ordine ad una
associazione che là dove viene evidenziata, come nello studio Martines, si
riporta solo alla categoria dei soggetti con elevata esposizione (esposizione
cumulativa maggiore di 1650 ppm). Inoltre nella categoria intermedia di
esposizione i valori di OR sono inferiori o uguali ad 1 (e cioè il rischio in
questa categoria è uguale o inferiore a quello presente nella categoria con
esposizione più bassa), il che significa che il rischio non cresce gradatamente
dalla esposizione minore a quella maggiore bensì si innalza improvvisamente,
bruscamente, ed anche in termini numericamente molto decisi, solo nella
categoria con esposizione molto elevata.
Ma, sicuramente non
probanti tali dati ai fini della certezza in ordine all’idoneità del CVM a
cagionare cirrosi, già si è accennato pure ai contrastanti dati dello studio di
coorte di Comba-Pirastu che evidenzia un valore di SMR addirittura inferiore
all’atteso.
Per il melanoma, sempre Berrino, assieme a
Bai, precisa che ci sono “degli aumenti di mortalità che però si basano su
piccoli numeri e sono limitati ad un solo Paese” (ud. 17.6.98), affermazione in
linea con tutti gli studi epidemiologici che individuano un eccesso proprio nei
paesi del nord Europa, in particolare in Norvegia, come evidenziato anche da
Simonato, mentre in Italia sarebbero stati osservati (relazione Vineis-Comba
Pirastu del 20/4/2001) due casi su 1,2 attesi, eccesso ovviamente non
significativo oltre che isolato.
Nessuna evidenza
epidemiologica anche per il tumore al laringe,
salvo un solo eccesso a Ferrara (studi Pirastu 1998, 5 osservati su 0,8
attesi), ma non nella corte europea (Simonato 1991), non nelle altre coorti
internazionali ed italiane prese in considerazione dove i casi osservati erano
nettamente inferiori all’atteso, non soprattutto nella specifica coorte (studi
Pirastu 1997) di Porto Marghera con 0 casi osservati su 5,1 attesi); anche se per Berrino si potrebbe ritenere
provato a livello logico il nesso eziologico di tale tumore con il CVM o PVC
per il fatto che riconoscendosi la causalità per il tumore polmonare la si
potrebbe dedurre anche per il tumore al laringe che “è il tubo dell’aria prima
della trachea”.
E nessuna evidenza
epidemiologica per i tumori al cervello ed
al sistema emolinfopoietico per come
chiaramente risulta dall’evoluzione degli studi degli anni novanta dai quali
non emerge nessuna evidenza significativa, nemmeno nella coorte di Porto
Marghera, e la mancanza di dati significativi emerge altresì dalle
testimonianze di Simonato e Boffetta.
Per chiudere invero su
tale punto relativo alla non conferma probatoria delle ipotesi ancora sostenute
dagli appellanti nei rispettivi motivi, grande rilevanza assumono proprio le
testimonianze degli scienziati, citati proprio dall’accusa come testi, Simonato
e Boffetta, avvicendatisi alla direzione delle ricerche multicentriche per la
coorte europea avviate dalla IARC proprio dopo il 1987 (e conclusesi con il
rapporto Ward del 2000). Ne emerge, come ben ricordato nella sentenza di primo
grado alla cui completa e corretta disamina si rimanda, che l’evoluzione di
tali studi ha portato a falsificazione delle ipotesi che IARC nel 1987 dava per
acclarate. Si perveniva cioè a conclusione che non esistevano prove sull’effetto cancerogeno del CVM sui tre
organi bersaglio diversi dal fegato, ed anche per il fegato mancano evidenze di
un aumento del rischio per l’epatocarcinoma in quanto i relativi dati non
sarebbero ancora esaustivi, nonché per le epatopatie evolventesi in cirrosi e
per la cancrocirrosi.
Né può sostenersi, con
il P.M. che detti studi non potrebbero sminuire le precedenti conclusioni degli
organismi internazionali, trattandosi di studi isolati. Intanto non si tratta
di estemporanei isolati studi, ma di ricerche multicentriche coordinate proprio
da IARC, così come quella per la coorte americana condotta da Wong ed
aggiornata da Mundt 1999), e poi se ne ricava comunque incertezza scientifica,
così come potrebbe avvenire se anche un solo studio accertasse, senza generale
consenso scientifico, una conseguenza nociva prima non considerata. Per tali
motivi tra l’altro, per la mancanza di esaustività e di accompagnamento quindi
di una generale e conclamata condivisibilità scientifica, si sono disattese le
produzioni degli studi, singoli sì questa volta, indicati dal P.M. che non
sarebbero in ogni caso stati decisivi neppure ai fini della dimostrazione
dell’idoneità lesiva del CVM relativamente ad ulteriori patologie non
considerate dal primo giudice.
Come può dunque il
giudice, in un simile contesto sposare l’una o l’altra tesi e condannare un
imputato? Non è legittimo in tal caso un ragionevole dubbio? Non si verte nella
ipotesi stigmatizzata dalle Sezioni Unite per la quale in caso di
insufficienza, contraddittorietà e
incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale,
quindi di ragionevole dubbio, in base
all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta
contestata rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento
lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e
l’esito assolutorio del giudizio?
Sulla scorta delle
medesime considerazioni e con richiamo alle medesime fonti probatorie di
valenza scientifica, possono ritenersi destituite di fondamento le doglianze degli
appellanti che fanno riferimento alla problematica di lesività del CVM a basse
dosi, collegata altresì alla tesi che vuole il CVM cancerogeno promovente e non
semplicemente iniziante, nonché alla problematica della concausalità per
assunta azione sinergica del CVM con altri riconosciuti fattori causali quali
il fumo di sigarette per i tumori al polmone ed epatiti da virus b o c ed abuso
di sostanze alcoliche per i tumori al fegato diversi dall’angiosarcoma e, in
particolare, per la cirrosi.
Quanto alla
problematica relativa alla lesività a basse dose o assenza di soglia, esaustive
appaiono in realtà le argomentazioni del Tribunale che ancora una volta si è
rifatto al complesso delle evidenze probatorie al riguardo, richiamando le
testimonianze dei vari esperti. E da tutte, concordemente, emerge che comunque,
a prescindere dall’assioma scientifico che per un cancerogeno assume il
principio di assenza di soglie (spiegandosi che la ragione fondamentale della
assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la
relazione tra formazioni di addotti e dose
di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva
incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole
presenti), una soglia di fatto esiste per come può ricavarsi da tutti gli studi
che mai hanno osservato casi di angiosarcoma a dosi medio-basse (il caso ad
esposizione più bassa riguarda un lavoratore della coorte europea con
esposizione cumulativa di 288 ppm), e come può ricavarsi dagli stessi dati del
consulente del P.M. Martines dai quali, nello studio caso-controllo sui
lavoratori della coorte di Porto Marghera affetti da angiosarcoma epatico,
epatocarcinoma, cirrosi epatica e epatopatia cronica, si evidenzia che per
tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla
esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella
categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i
casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la
prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il
1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il
tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma
era di 18 anni.
In realtà nella comunità
scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza
alte-basse dosi, così come può ricavarsi dai dati forniti questa volta dagli
esperti della difesa che, oltre ai risultati degli esperimenti sugli animali,
dai quali risulta che nessun angiosarcoma si è verificato al di sotto dei 10
ppm (memoria di Corrado Galli del 19.1.1999 e poi la relazione di Dragani del
9.12.99) hanno fatto riferimento alle ricerche di uno studioso americano, Ames, e ai risultati delle ricerche
sperimentali di un altro studioso americano, Swenberg,
le cui conclusioni sono nel senso che gli attuali limiti occupazionali sono
sicuri, proprio per l’esistenza di una soglia. In particolare Ames, ricercatore
di biologia molecolare, afferma che "vi sono sempre più prove che la
scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza
chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una
cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così
aumentando in tal modo il rischio di tumori”, affermazione che pare in
concordanza con i menzionati dati di Martines dai quali, come ripetutamente
ricordato, si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non
cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si
innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Onde nella
comunità scientifica, alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse
dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti
delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto
per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta
essere affetto da angiosarcoma, si propende a ritenere che le esposizioni normativamente imposte e
osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997).
Condivisibili dunque
appaiono le supportate conclusioni del Tribunale sul punto. E non può poi non
osservarsi che comunque nessuna prova del contrario hanno offerto le accuse
pubbliche e private ed i loro consulenti, e soprattutto nessun concreto evento
dimostra, provato specificamente che sia stato determinato da basse esposizioni
a CVM, la rilevanza a tali fini delle basse esposizioni e la concreta assenza
di soglia.
Può qui collegarsi
anche la tematica dell’assunta natura di cancerogeno promovente del CVM, che
così, anche in forza di successive medio-basse esposizioni esplicherebbe i suoi
effetti nocivi con accelerazioni dello sviluppo delle patologie e riduzione
della aspettativa di vita. Ma anche sul punto le doglianze degli appellanti non
sono sorrette da una legge di copertura che possa suffragare l’assunto, in
quanto, certamente ormai comprovato che il CVM è un cancerogeno iniziante ad alte
esposizioni, della sua efficacia promovente non vi è invece alcuna certezza
scientifica, e valga al riguardo l’approfondita disamina del Tribunale.
Certo non seguibile il
P.M., che nel dolersi che non può affermarsi che non c’è alcuna diminuzione di
rischio per le coorti di assunti a partire dal 1974, tenendo conto del tempo
trascorso dall’assunzione, in quanto gli assunti in anni più recenti non hanno
ancora maturato la “latenza” necessaria perché si manifesti una patologia
(soprattutto in riferimento a quelle patologie per le quali il periodo di
latenza può essere molto lungo), onde non vi è alcuna evidenza empirica che gli
assunti dal 1974 in poi abbiano sperimentato un vantaggio in termini di salute
rispetto agli assunti negli anni precedenti, porterebbe a ritenere rilevanti
nella pronuncia del giudice penale relativa a reati ad evento di danno le
prognosi di eventuali danni futuri, cosa che ovviamente è fuori
dall’accertamento che ci occupa in relazione ai reati qui in considerazione,
anche ove una tale prognosi, ma così non è, fosse legittimata dalle evidenze
processuali.
Quanto
alla problematica della concausalità per assunta azione sinergica del CVM con
altri riconosciuti fattori causali quali il fumo di sigarette per i tumori al
polmone e epatiti da virus b o c ed abuso di sostanze alcoliche per i tumori al
fegato diversi dall’angiosarcoma ed in particolare per la cirrosi, non si può
seguire il P.M. appellante laddove sostiene che nessuno potrebbe dire che, nel
procedimento penale in questione, sia stata davvero fornita la prova certa che
i tumori al fegato erano stati cagionati esclusivamente dal consumo di alcool,
così come che quelli al polmone erano stati cagionati esclusivamente dal fumo
di sigaretta, o che i lavoratori deceduti avessero contratto dette malattie a
causa di un consumo di alcool e di sigarette avvenuto successivamente alla loro
esposizione al CVM. Dunque, secondo il P.M., in nessuno dei casi esaminati dal
Tribunale fumo ed alcool avrebbero potuto essere considerati, ai fini della
corretta applicazione della legge penale, concausa sopravvenuta degli eventi.
Eppure, nonostante tale indiscutibile evidenza
probatoria, il Tribunale si sarebbe ritenuto dispensato dal dover svolgere quell’accertamento sul
tema della rilevanza concausale dell’esposizione a CVM che l’accusa
aveva prospettato, avendo postulato
quell’apodittica ed erronea affermazione di ordine generale secondo cui la mancanza dell’idoneità causale rende, per
ciò solo, il fattore inidoneo ad essere concausa di un evento, in tal modo sono
state ignorate circostanze provate dall’accusa che avrebbero potuto e dovuto
essere valutate con attenzione in siffatta ottica di approfondimento del tema.
In particolare, evidenzia il P.M. con riferimento agli elementi che dovrebbero
ritenersi probanti ai suddetti fini, erano stati dimostrati i ritardi e le
omissioni in relazione agli spostamenti dei lavoratori, fumatori o bevitori,
che, in passato, erano stati esposti ad alte concentrazioni di CVM. In casi del
genere, l’esposizione a CVM oltre che ad essere determinante sotto il profilo
concausale avrebbe potuto e dovuto essere considerata dal Collegio anche in
relazione agli effetti di accelerazione dell’insorgenza della malattia,
così come i Consulenti tencici di parte dell’accusa (in particolare i
medici Bracci, Rodriguez, Bartolucci e
sopratutto Martinez) avevano puntualmente, ma inutilmente, evidenziato.
Ma, ritiene la
Corte, il problema è sempre lo stesso. Seppur infatti potrebbe seguirsi il P.M.
laddove censura l’affermazione del Tribunale secondo la quale se non è provato
che un fattore sia da solo causa neppure può essere concausa, resta poi da dire
e da provare che eventualmente una sostanza pur non avendo da sola capacità
lesiva, diventi nociva interagendo con altre sostanze ovvero aumenti la
capacità lesiva di altre sostanze; resta cioè da dire e da provare da dove
emerge che CVM e alcol o CVM e fumo abbiano capacità di interagire in senso
deterministico per tumori al fegato –si intende epatocarcinoma- e tumori al
polmone, o per epatopatie o per cirrosi, laddove peraltro manchi prova di
idoneità astratta di tale sostanza in ordine a tali patologie e laddove invece
non può certo sostenersi che il consumo di alcol o il fumo, di per sé soli e quindi
disgiunti ed a prescindere dall’esposizione a CVM, siano privi di efficacia
causale in ordine, rispettivamente, alle patologie stesse. Pienamente
condivisibile al riguardo è l’osservazione del Tribunale secondo la quale il
nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello
debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che
anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura.
In realtà lo
stato delle conoscenze non consente di
pervenire a nessuna conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi
sinergici. E certo non può dirsi che una tale evidenza emerga dalle spiegazioni
date dai consulenti dell’accusa, ancorate in realtà a deduzioni più che a dati
di osservazione, di sperimentazione o di biologia molecolare di comune
interpretazione nella comunità scientifica.
Ma al di là di ciò, che già tronca ogni
possibilità processuale di ritenere una sinergia e quindi un’azione concausale
del CVM in patologie relativamente alle quali da sola detta sostanza non
risulta idonea ad esplicare effetti deterministici, è poi da censurare il
ragionamento degli appellanti che vorrebbero sostanzialmente invertire i
termini probatori e di accertamento proposti dalle pluririchiamate Sezioni
Unite: il probelma invero non è se nel procedimento penale in questione, sia
stata davvero fornita la prova certa che i tumori al fegato erano stati
cagionati esclusivamente dal consumo di alcool, così come che quelli al polmone
erano stati cagionati esclusivamente dal fumo di sigaretta, o che i lavoratori
deceduti avessero contratto dette malattie a causa di un consumo di alcool e di
sigarette avvenuto successivamente alla loro esposizione al CVM, dovendo invece
emergere la prova del contrario, in forza però di elementi forniti dall’accusa
o comunque in ogni caso acquisiti e chiari in atti, e cioè che, assunta
comunque una legge anche statistica con ricorrenza frequentista medio-bassa
(che nella specie, come già esposto, rispetto alle patologie per le quali il
P.M. invoca la concausalità dell’azione del CVM, manca), positivamente si possa
escludere un altro possibile fattore causale.
Sulla scorta di
quanto succintamente sopra osservato, ma con riferimento alla complessità degli
elementi dai quali le suddette sintetiche considerazioni sono tratte, e con
considerazione altresì delle contrapposte tesi delle parti, ritiene dunque la
Corte da confermare il giudizio del Tribunale secondo il quale, come sopra già
ricordato, tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici
e aggiornati, valutati complessivamente, e altresì l’esame dettagliato e la
valutazione critica, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera,
dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia
molecolare con approfondimento delle caratteristiche nosologiche e morfologiche
delle neoplasie alla luce dei contributi
dei consulenti medico-legali e anatomo patologi, non consentono di
ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi
dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e
l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio, mentre
neppure può ritenersi sussistente la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle
esistenti dal 1974 in poi.
Dunque sono da tenere in considerazione le
sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, con le
conseguenti implicazioni sia sotto il profilo della riferibilità delle
imputazioni agli imputati tutti tratti
in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli
eventi, atteso che le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono
antecedenti al 1974. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova
di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive,
immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo
ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio
consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte cui causalmente riferire e colpevolmente
addebitare tali eventi.
Conclusivamente ritiene dunque la Corte insussistenti
i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose con riferimento ai
contestati casi in cui detti eventi sono conseguenti a tumori diversi
dall’angiosarcoma, a cirrosi ed ad epatopatie non caratterizzate da tipiche
lesioni da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia
associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a
epatiti virali.
Né, relativamente a questi eventi, ad una conclusione diversa sotto il
profilo causale potrebbe pervenirsi, trascurando il dato dell’assenza di legge
di copertura, sulle mere conclusioni dei consulenti dell’accusa. Davvero
superfluo a questo punto dilungarsi; pleonastico apparendo pure il ricorso agli
stringenti rilievi del clinico epistemologo Federspil, portati in processo
dalla difesa Pisani, sulle diagnosi medico-legali dei consulenti dell’accusa,
da Bracci a Rodriguez a Bartolucci, ed ai principi scientifici di ricostruzione
delle catene causali o di provata concretizzazione della legge universale o
statistica di copertura cui si debbono ispirare i medici-legali nelle diagnosi
causali.
E così pleonastico è il ricorso
ai concetti filosofici che, con l’ampio respiro che ha caratterizzato la
trattazione delle problematiche in questo davvero unico processo, sempre la
difesa Pisani ha voluto far emergere con il contributo del filosofo della
scienza Evandro Agazzi in ordine proprio al problema delle concretizzazioni di leggi universali o statistiche,
cioè alle condizioni in forza delle quali si può dire che una legge statistica
è capace di spiegare un evento singolo. E’ sufficiente infatti osservare come
le diagnosi effettuate in processo siano monche proprio in merito
all’accertamento di questa concretizzazione, fermandosi sempre a dare per
scontato il nesso causale solo in conseguenza della ritenuta esposizione al
rischio.
Nello specifico, quanto
alle epatopatie, si è già accennato
come l’ormai intervenuta prescrizione di tutti i reati di lesioni personali
colpose contestate deve portare, a mente dell’art. 129, 1° e 2° co., c.p.p.
alla relativa declaratoria tutte le volte che non emerga all’evidenza una causa
assolutoria, sia relativa alla sussistenza del reato che alla commissione da
parte dell’imputato, che alla imputabilità sotto l’aspetto psicologico.
Una tale pronuncia
interesserà dunque, non ricorrendo appunto all’evidenza alcune delle predette
ipotesi assolutorie (si riformerà sul punto la sentenza là dove ritiene
l’assenza della colpa in merito ai reati di cui si discute) senz’altro i reati
stessi relativamente ai casi ai danni di
Bartolomiello Ilario, Poppi Antonio, Salvi Andrea, Scarpa Giuseppe,
Sicchiero Giorgio, già riconosciuti dal Tribunale come eziologicamente
determinati dall’esposizione a CVM, individuandosi, sulla base degli studi
analiticamente esaminati dal Tribunale (alla cui disamina, in effetti puntuale,
si rimanda), in capo agli stessi le tipiche lesioni epatiche indotte dalle alte
esposizioni a cvm (alterazioni istologiche epatiche, alcune precoci e
reversibili, quali la iperplasia focale degli epatociti e dei sinusoidi, altre
tardive e irreversibili, quali la fibrosi perisinusoidale e la fibrosi portale
e capsulare).
Ma analoga declaratoria
deve pronunciarsi almeno relativamente alle lesioni personali colpose per le
epatopatie cui furono affetti Brussolo Sergio, Granziera Enrico, Foffano
Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino.
Brussolo Sergio, addetto
al laboratorio quale analista,è stato esposto dal 1961 al 1974 a concentrazioni
elevate e comunque idonee.
Fino al 1975 erano state
riscontrate dei lievi incrementi
enzimatici che sono ritornati normali. Nel 1982, e quindi sette anni dopo la
cessazione dell'esposizione, subisce un ricovero ospedaliero in cui gli viene
diagnosticata una epatopatia tossica da c v m.
L'esame istologico
evidenzia una steatosi con accumulo di ferro (siderosi) e insussistenza di
fibrosi e quindi l'insussistenza di lesioni tipiche riferibili all'esposizione
pure elevata.
Granziera Enrico,
autoclavista dal 61 al 69 e addetto all’essiccamento dal ‘69 al ‘73 e quindi
allontanato, ha avuto una sofferenza biliare manifestatasi nel 1971 e una
epatomegalia con aumento di valori di GOT e gGT nell'ambito di un quadro
evolutivo di epatite virale b messa in evidenza dall'esame autoptico.
E' deceduto per
neoplasia gastrica ancorché mai esposto a dicloroetano.
Foffano Ferdinando,
addetto all’insaccamento, essicamento, trasferimento resine dal 1964 al 1980;
epatomegalia accertata già nel 1972; nel 1980 viene riconosciuta dall’INAIL la
natura professionale della malattia.
Leonardi Giannino,
autoclavista, addetto all’essiccamento dal 1961 al 1977; danno epatico cronico
con minimo grado di fibrosi evidenziato dal 1977.
Pardo Giancarlo,
autoclavista dal 1961 al 1978; epatopatia cronica accertata dal 1974 e
coesistenza di disturbi circolatori alle mani.
Serena Rino,
autoclavista dal 1970 al 1981, nega da sempre consumo di alcool, danno epatico
cronico.
Ora, osserva la Corte
che per i suddetti casi, le alte esposizioni cui furono soggetti tutti fino al
1974 e la natura delle patologie compatibile con quelle ritenute astrattamente
riferibile al cvm, seppur possono poi sussistere elementi di contrasto, non
consentono di ritenere evidenza di sussistenza d’ipotesi assolutoria, onde si
impone, come sopra detto, e come per i casi di epatopatie da CVM riconosciuti
dal Tribunale, immediata declaratoria di prescrizione.
Non così per tutte le
altre ipotesi di epatopatie contestate per le quale, come ben evidenziato dal
Tribunale il cui giudizio sul punto è pienamente condiviso e fatto proprio
anche nella motivazione da questa Corte, o non si ravvisano le classiche
lesioni da CVM, ovvero sussistono fattori di confondimento, abuso di sostanze
alcoliche o epatiti da virus b o c, che rendono del tutto non provata
l’ipotesi, neppure potendosi ritenere idonee almeno ai fini di un qualche
dubbio le diagnosi dei medici legali dell’accusa, peraltro puntualmente contraddette
dagli esperti della difesa, per la non conseguenzialità delle diagnosi stesse
puramente ancorate ad assunta esposizione a rischio.
Come già osservato dal
Tribunale, i consulenti medico legali del pubblico ministero sono infatti
partiti dal presupposto che sulla base delle indicazioni precauzionali di IARC
1987, il nesso causale fra esposizione a cloruro di vinile e le patologie in
tale pubblicazione individuate dovesse darsi per scontato ("questa non è
un indagine fatta per stabilire il nesso causale…perché siamo partiti dal
presupposto che ci sia un nesso causale tra esposizione a c v m e una serie di
patologie "- così prof. Berrino :ud 17/06/1998 pag. 102 ). Impostazione
giustamente non condivisa dal Tribunale, sia perché i fattori noti di epatopatia
sono ben più numerosi di quelli indicati dal consulente del pubblico ministero
sia perché è viziata da evidente contraddizione laddove si sostiene la
associazione concausale di tale sostanza anche in assenza di lesioni tipiche da
CVM, e per contro in presenza unicamente di lesioni agli epatociti correlate ad
individuati e noti fattori eziologici.
Ed anche nelle diagnosi
rinnovate, a seguito dell'intervento del tribunale, che ha disposto la
acquisizione di tutta la documentazione medica aggiornata e l'effettuazione di
una serie di accertamenti diagnostici sulle parti offese, quando è stato possibile, non si è abbandonata
l'impostazione di partenza, omettendosi, come ancora correttamente osservato
dallo stesso Tribunale, doverose valutazioni delle più probabili ipotesi
eziologiche alternative rispetto a quelle presupposte e non dandosi il dovuto
rilievo alla durata e all'intensità della esposizione, e quindi alla anamnesi
lavorativa, che è invece una tappa essenziale nella diagnosi di una malattia a eziologia
tossica. Tanto più nel caso di malattie con una eziologia multifattoriale,
quali le epatopatie.
D’altra parte, ancora
rileva correttamente il Tribunale, in quasi tutti gli altri casi esaminati dai
consulenti è stato riscontrato quale fattore eziologico un elevato consumo di
alcol risultante dall'anamnesi e non messo in discussione dagli esperti del
pubblico ministero (35 sono stati ritenuti forti debitori), in un caso una
epatite virale b e in sei casi la positività alla anticorpo per l'epatite c ( e
tre casi presentavano anche l'associazione con un elevato consumo di alcol).
Ora, si è visto che
ricorrere alla concausalità in presenza di fattori causali diversi dal CVM non
è nella specie sostenibile, onde neppure in tali casi possono avere valenza probatoria
i giudizi dei consulenti dell’accusa.
Decisiva
poi ai fini della valutazione dei casi di epatopatie insorte successivamente al
1974, l’osservazione che le esposizioni successive a tale periodo, come
rilevate dai misuratori personali prima e dai gascromatografi poi non erano
idonee a causare malattia epatica professionale e, comunque, a quelle dosi, via
via approsimantisi a 5 ppm prima e a 3 ppm poi, non pare a maggior ragione
ipotizzabile una qualsiasi interazione che non è risultata scientificamente
provata neppure alle alte esposizioni.
Ritiene poi la Corte
infondata la censura degli appellanti, P.M. ma anche singole Parti Civili,
secondo la quale il Tribunale si sarebbe dimenticato di talune malattie e
tumori, avendo in realtà il Tribunale tra i casi per i quali non ha ritenuto
oggettivamente integrato il reato per difetto del nesso causale perso in esame
posizioni che potevano sembrare più problematiche, per il resto osservando,
risolutamente ed in via assorbente per tutti gli altri casi contestati e non
ritenuti, che l’ipotesi accusatoria si attestava un, erroneo per quanto
premesso in diritto, “giudizio di mera
idoneità della sostanza a cui il soggetto è stato esposto, non si faccia
cioè solamente ricorso alla criteriologia della capacità lesiva, della contiguità fenomenologica, della idoneità
di sede”.
Se dunque per tutti i
tumori e tutte le malattie non ritenute mancava la prova del nesso di
condizionamento, perché i medici legali, come qui sì abbondantemente motivato
dal Tribunale e come sopra ricordato da questa Corte, si sono attestati sulla
criteriologia della capacità lesiva, era superfluo nelle finalità
motivazionali, così come ancora è superfluo, elencare i singoli tumori e le
singole malattie per le quali basta tra l’altro fare riferimento alle compiute
ed analitiche ricostruzioni in atti. Vieppiù per i singoli tumori e patologie
per i quali si era esclusa già la sussistenza di idonea prova in ordine
all’idoneità lesiva del CVM.
Comunque, quanto alle epatopatie
già si è testé detto in ordine ai casi, tra quelli che secondo il P.M. si
dovevano ammettere, che più che completa delibazione di integrazione oggettiva
del reato di lesioni personali colpose, possono subire, nella mera delibazione
imposta dall’art. 129, 1° e 2° co., c.p.p., declaratoria di prescrizione in
aggiunta ai casi già individuati dal Tribunale, riformandosi sul punto la
decisione del Tribunale che riteneva insussistente per i reati stessi
l’elemento psicologico.
Per gli altri casi il quadro
offerto dall’accusa e che ancora viene portato a supporto dei motivi di appello
sia da parte del P.M. che delle singole Parti Civili è nella sostanza degli
elementi fondamentali per ritenere o per poter almeno problematicamente porsi
in ordine alla sussistenza oggettiva dei reati, è inconsistente proprio perché
manca un idoneo percorso relativo alla catena causale, se non in tutti i
passaggi, almeno nella evidenziazione della compatibilità tra il supposto punto
iniziale, idoneità lesiva in relazione a quella specifica patologia incorsa nel
singolo lavoratore, ed evento di danno lamentato, ovvero, anche ove questo
possa affermarsi, che non si versi in situazioni ove sussistano altre autonome
spiegazioni causale per le quali alcun concreto elemento in atti può consentire
l’esclusione, vieppiù ancora quando l’eventuale astratta idoneità lesiva della
sostanza incriminata nel concreto, per i tempi in cui si riferivano le
insorgenze delle patologie lamentate, risulta insussistente sulla base di
quelle che sono le conoscenze lesive (per intendersi le patologie insorte dopo
il 1974 quando in concreto, per l’abbassamento delle esposizioni in limiti
ritenuti, come abbondantemente sopra motivato, di sicurezza, non consentono in
alcun modo una spiegazione causale alla sostanza stessa riferibile.
Brussolo Sergio,
Granziera Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e
Serena Rino.
Oltre ai casi di steatosi,
rientrano in questa categoria i casi nominativamente indicati dal P.M.: Bertin
Rino (ma è emerso: diabete in famiglia e tendenza all’obesità: Colombo
12.1.2000), Toffanello Adolfo (ma è emerso: diabetico e sovrappeso: Colombo,
29.02.2000), Marini Antonio (ma è emerso: sovrappeso: Colombo, ud. 8.2.2000),
Babolin Primo (obeso: Colombo e Colosio, ud. 9.2.1999), Cestaro Rino (diabetico
e obeso: Colombo, ud. 20.01.1999), Benin Arnaldo (diabetico: Colombo, ud.
12.1.2000), Scarpa Giampaolo (obesità: Tommasini, ud. 23.10.1998, e diabete:
Tommasini, ud. 11.01.2000).
E ben ha evidenziato il
tribunale che l’aumento degli enzimi epatici può essere determinato, oltre che
da consumo alcolico o da epatiti virali (fattori considerati dai consulenti
dell’accusa, pur se solo come concause), altresì da soprappeso corporeo,
diabete, steatoepatite non alcolica, accumulo epatico di ferro e celiachia
(sentenza, p. 247).
Qualche parola infine
sulle patologie epatiche “tipiche” non contestate come tali.
Né può poi seguirsi il P.M.
laddove sostiene che erano da ammettere come epatopatie i cui casi che erano
stati contestati soltanto come
epatocarcinomi o cirrosi. Basti al riguardo osservare che il fatto
contestato prevedeva quel tipo di lesione (epatocarcinoma o cirrosi) per le
quali vi è già pronuncia di insussistenza del reato: diversamente ritenere o
meglio prendere in considerazione un’altra lesione integrerebbe vera e propria
immutazione non consentita del fatto contestato, perché tra l’altro non è che
il ragionamento del P.M. tende a dire che la patologia emersa non era, ad
esempio, l’epatocarcinoma o la cirrosi, ma una semplice epatopatia, ma, escluso
che le pur sussistenti patologie contestate trovino spiegazione causale nel
cvm, ritenete sussistente il reato per una patologia non contestata che una
tale spiegazione può trovare.
Trattandosi dunque di eventi
diversi non contestati in relazione alle specifiche parti offese che vengono in
considerazione.
Nessun obbligo di pronuncia
sussisteva a carico del Tribunale, non senza comunque evidenziarsi, e tanto è
pure sufficiente per ritenere infondata la relativa doglianza del P.M. anche
nel merito, che il Tribunale,
correttamente secondo questa Corte come sopra osservato, non ha riconosciuto
affatto la causalità generale per le “lesioni epatiche di carattere generale”,
ma solo per alcuni particolari tipologie delle stesse, laddove cioè è possibile
osservare una iperplasia focale in
assenza di necrosi cellulare, ovvero una
iperplasia e una ipertrofia delle cellule epatiche e delle cellule sinusoidali,
con fibrosi del tutto differente da quella cirrotica che invece
procede per necrosi degli epatociti
irreversibilmente verso le complicanze cliniche più severe della
malattia e espone a un concreto rischio di sviluppo in epatocarcinoma. Infatti la fibrosi epatica che si evidenzia nei
sinusoidi - che è il prodotto di un bilanciato
susseguirsi di eventi che determina la produzione di proteine nuove e la loro
distruzione - può provocare
ipertensione per la resistenza che il tessuto fibroso contrappone al sangue
venoso in arrivo dall'intestino.
Più frequentemente provoca ipertensione
alla vena porta collegata alle vene gastroesofagee che possono rompersi e
sanguinare. Pertanto deve sempre tenersi distinto il concetto di fibrosi
epatica e di cirrosi epatica che è una condizione clinicamente e biologicamente
distinta anche se le conseguenze possono essere assai simili e difficilmente
distinguibili (rottura delle varici esofagee) se non con un attento e accurato
esame autoptico che consenta anche di esaminare il tessuto epatico oltre a
quello tumorale. (…)
Dunque, pur a voler seguire
la tesi del P.M che presuppone la legittimità di un accertamento del reato in
relazione ad evento diverso, può comunque osservarsi che nei casi indicatoi dal
P.M., 8 casi, di cui 2 cirrosi (Bernardi Narciso, Vanin Loris) e 6
epatocarcinomi (Bonigolo Gastone, Cividale Luigi, Favaretto Emilio, Fusaro
Vittorio, Mazzucco Giovanni, Monetti Cesare), vi sono altresì ragioni
sostanziali di rigetto della tesi, in quanto non vi è prova in atti che nei
soggetti indicati nei quali era comunque insorta la cirrosi o si era
manifestato l’epatocarcinoma fossero altresì distinguibili concrete lesioni
astrattamente compatibili con l’esposizione al CVM e concretamente, sulla
scorta dei paramentri e per la mancanza di elementi di confondimento (che
invece pur vi sono, come dall’osservazione della storia clinica dei soggetti
interessati –e si rimanda alle consulenze degli esperti del P.M. ma anche della
difesa- ben emerge), effettivamente attribuibili alla sostanza in oggetto.
Quanto infine al morbo di Raynaud, parimenti da
disattendere sono le censure del P.M. che lamenta lacunosità e
contraddittorietà della sentenza e mancato riconoscimento di ulteriori tredici
casi da ritenere causalmente collegati all’esposizione a CVM.
Osserva in proposito la
Corte che intanto anche in merito a tali patologie si discute di reati ormai
prescritti pur nelle nuove prospettazioni del P.M. riguardo a precisazione dei
tempi di insorgenza della patologia e dei casi che andrebbero ulteriormente
ammessi. Ma è proprio su questo concetto di ammissione che occore nella specie,
in presenza di situazioni di prescrizione, fare chiarezza.
Ed invero, già per i dieci casi ritenuti dal
Tribunale e per i quali già il Tribunale ha pronunciato declaratoria di
prescrizione, sostanzialmente “l’ammissione” è stata effettuata ricorrendo al
concetto di probabilità logica, attesi: l’idoneità del CVM alle alte
esposizioni degli anni sessanta che interessavano i dieci lavoratori in oggetto
a causare detta patologia, la ricorrenza nella specie dei parametri individuati
di aggressione di tale morbo ingravescente finchè permanga il contatto ma
regredente una volta cessata l’esposizione, la non evidenza di diversa, e
pacificamente conosciuta, spiegazione causale, il non confondimento in detti
casi con altre diverse patologie che evidenziano simile sintomatologia.
Ora, alla luce di tali
parametri, che appaiono corrispondenti alle spiegazioni in atti fornite dagli
esperti, non si vede come non ritenere evidente la sussistenza invece di ipotesi
assolutoria per insussistenza del fatto in relazione ai restanti casi proposti
dal P.M. o sostenuti ancora dalle singoli parti civili come, a titolo
semplificativo –anche qui non essendo necessario nella finalità motivazionale
ricordare ogni singola posizione-, Terrin Ferruccio o Zaganin Silverio o altri
pure proposti dal P.M. per i quali i predetti parametri di accertamento neppure
ricorrono: contestate già le diagnosi della sussistenza della specifica
patologia e comunque non evidenziazione di elementi, quali alte esposizioni,
che eziologicamente potrebbero giustificare la natura professionale della
malattia, vieppiù osservandosi che in diverse ipotesi addirittura, contro le
spiegazioni mediche (vedi ipotesi di Bortolozzo che si vorrebbe ammalato solo
nel 1995 quando da almeno cinque anni neppure più lavorava nel petrolchimico
–ma la patologia in capo allo stesso era evidenziabile già anni prima e trovava
giustificazione nelle elevate esposizioni subite negli anni sessanta), che
vogliono il morbo regredire con l’allontanamento dall’esposizione, si sostiene
insorgenza di tale malattia pur in periodo di assenza di esposizione.
Giova comunque prendere
specificamente in esame il caso di Terrin Ferruccio, che per l’indicato periodo
di insorgenza della malattia (1995), non sarebbe neppure stato prescritto al
momento della sentenza di primo grado (ma lo sarebbe comunque ora).
In realtà, nessuna
evidenza processuale può collegare l’assunta patologia del morbo di Raynaud
insorta, con primi disturbi in verità già nel 1993 come emerge dalla sua storia
clinica e lavorativa ricostruita in atti, in capo al Terrin che solo per
brevissimo periodo ai primi anni settanta si era trovato esposto ad alte
concentrazioni di CVM, mentre poi ha svolto mansioni prevalentemente di operaio
esterno, e comunque si è detto che anche all’interno dei reparti dal 1974 le
esposizioni sono da considerare basse e non più lesive. Nel 1995 gli
veniva comunque diagnosticato
dall’Istituto di Medicina del Lavoro di Padova un “fenomeno di Raynaud nella
cui genesi può aver influito la
prolungata esposizione a CVM” evidenziandosi da parte dei sanitari una
“sindrome dello stretto toracico da compressione ab estrinseco del fascio
vascolo-nervoso bilaterale (...), moderato deficit microcircolatorioarteriolo-digitale
e canestro-capillare bilaterale, prevalentemente al secondo dito della mano
destra”, e, nella formulazione della ipotesi diagnostica, i medici di Padova
sottolineavano comunque la necessità di effettuare ulteriori accertamenti. Solo
ipotetica dunque la diagnosi nell’accertamento eziologico (può aver influito),
ma in realtà neppure certa nell’individuazione della patologia per la quale si
prospettavano ulteriori acertamenti.
In ogni caso non solo
non vi sono prove del rapporto causale con il CVM, ma addirittura in questo
caso emergono elementi contrari, quali un insorgenza moltissimi anni dopo la
forte esposizione, sia pure di breve durata, quando invece tale malattia non
conosce lunga latenza, e si allevia, fino a sparire, con il cessare
dell’esposizione stessa. Ma, come ben evidenziato dalla difesa Pisani sulla
scorta delle osservazioni dei propri esperti, proprio questa circostanza,
inconciliabile con un’ipotesi diagnostica che voglia ricondurre il morbo di
Raynaud da cui è affetto Terrin all’esposizione a CVM, trova invece spiegazione
nel momento in cui si considera che, sempre secondo l’Istituto di Medicina del
Lavoro di Padova, il sig. Terrin presenta una sindrome dello stretto toracico.
Ora, osservato che con questa definizione, “si
indica un quadro sintomatico secondario alla compressione del fascio
neurovascolare nel punto di emergenza della gabbia toracica, in sede giugulare
e scapolare (...): nei pazienti compare spesso dolore a livello brachiale e
scapolare, con astenia, parestesie, claudicazione, fenomeno di Raynaud, talora
necrosi tissutale ischemica e gangrena” (citazione della difesa Pisani da Harrison’s, Principi di medicina
interna, XIII ed. it., p. 1296), emerge definitivamente che a livello
probatorio l’assunta associazione non può sostenersi.
Per quanto riguarda il
caso di Bortolozzo Gabriele si è già velocemnte osservato che mentre la
patologia già riconosciuta dal Tribunale è evidenziabile per le manifestazioni
già avute nel 1965 e compatibili con le esposizioni che allora subiva, del
tutto priva di evidenza è poi un assunta insorgenza causalmente collegata al
CVM nel 1995 quando da cinque anni aveva addirittura cessato di lavorare
all’interno del Petroilchimico e quando neppure risultano elevate esposizioni
subite dal 1974 in poi.
Quando al caso di
Guerrin Pietro, unico che neppure sarebbe prescritto essendo insorto nel 1998,
al di là poi di una eventuale imputabilità a qualcuno degli imputati posto che
dal 1993 nessuno degli stessi era più in posizione di garanzia, valgano
comunque le medesime osservazioni dell’impossibilità di una sicura
attribuibilità causale all’esposizione a CVM in anni in cui, si è detto, tale
esposizione è da considerare nei limiti di sicurezza, e permanendo, per tale
patologie diverse spoiegazioni causali non certo rare. Tanto vale anche per
Silverio Zagagnin e per tutti gli altri casi proposti dagli appellanti P.M. e
Parti Civili.
La sentenza del
Tribunale sul punto va dunque confermata, solo procedendosi ad integrare la
pronuncia con declaratoria di prescrizione anche del reato ai danni di Donaggio Bruno, che ritenuto
sussistente e riconducibile alle alte esposizioni degli anni ’60, è stato
affrontato dai primi giudici nella motivazione della sentenza (sentenza, p.
259), ma poi ne è stata omessa (per mero errore, ma interessando una specifica
statuizione si preferisce integrare la pronuncia e non ricorrere alla procedura
di correzione di errori materiali) l’indicazione nel capo del dispositivo che
riguarda declaratoria di prescrizione per i reati di lesioni personali colpose
conseguenti a morbo di Raynud ed acrosteolisi.
Infine, da rigettare per
l’evidente infondatezza che non richiede digressioni, le richieste di chi tra
le appellanti Parti Civili (vedi ad esempio Giovanni Mazzolin) invoca condanna
degli imputati a risarcimento di danni in loro favore pur nella ritenuta
insussistenza del reato che li vedeva parti offese per difetto del nesso
causale con l’esposizione al CVM, ma per altro danno, morale, per generico
danno psicofisico alla salute. Ora, una tale pronuncia non trova alcun supporto
una volta assolti gli imputati dallo specifico reato che interessa lo specifico
appellante.
Ritiene ora davvero
conclusivamente la Corte che, assorbite nelle decisioni di cui sopra relative
alla sussistenza dei reati in oggetto, tutte le ulteriori doglianze di P.M. e
Parti Civili connesse con la tematica testè esaminata e dunque con le
statuizioni da adottare per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p, doglianze
che dunque appaiono del tutto irrilevanti nell’economia decisionale, resta da concretamente statuire in ordine ai soli
reati di omicidio colposo per gli otto casi di angiosarcoma già riconosciuti
dal Tribunale e nei confronti degli imputati già individuati dal Tribunale
previa verifica in capo agli stessi altresì della imputabilità delle condotte a
titolo di colpa.
Va ricordato che detta
riferibilità causale dei reati di omicidio colposo per i riconosciuti casi di
angiosarcoma non è gravata da appello alcuno, onde sarebbe sufficiente
richiamarsi al giudizio del Tribunale per una sorta di giudicato interno e
comunque per mancanza di specifiche censure avanzate con impugnazioni.
Giova però rimarcare la
bontà della decisione del Tribunale, atteso che nelle loro discussioni le
difese degli imputati hanno pure sostenuto la non attribuibilità agli stessi
delle condotte incriminate. In verità dette difese si ponevano come subordinate
piuttosto in contrapposizione alle richieste di riforma degli appellanti e
quindi per le ipotesi che venissero accolte e ritenuti reati anche per periodo
successivo al 1974, tant’è che come principale richiesta invocavano pur sempre
la conferma dell’impugnata sentenza.
E’ opportuno però
rimarcare, sulle generali osservazioni di assenza di responsabilità per gli
imputati che si sostiene ricoprire posizione apicale troppo alta addetta a
compiti di pura amministrazione, che gli interventi che si pretendevano da
parte degli imputati ed omessi fino a tutto il 1973 non erano di ordinaria
manutenzione, ma richiedevano modifiche strutturali che interessavano le
decisioni dei vertici aziendali tutti ben consci, come di poi si dirà nella
verifica dell’elemento psicologico, della situazione di pericolosità che
interessava gli impianti per le altissime in quel periodo esposizioni che subivano
i lavoratori.
E tra i vertici va considerato anche il
Bartalini destinatario in prima persona dell’organizzazione del sistema
sanitario già inottemperante alle specifiche norme cautelari in materia, e che,
nel compito precipuo di avere a cura che la salute dei lavoratori, se non aveva
potere di intervento sugli impianti, aveva però potere di disporre le ulteriori
cautele che nello specifico potevano salvaguardare gli operai da prolungate
esposizioni (che, si è visto, sono causalmente collegate all’insorgenza della
malattia), pretendendo ad esempio, ma anche solo richiedendo (cosa che non
risulta abbia fatto nel periodo in considerazione) allontanamento da specifiche lavorazioni gli operai più esposti,
oltre a far rispettare e curare l’obbligo di adeguata profilassi e visite
trimestrali.
I REATI DI
CUI AGLI ARTT. 589 – 590 C.P. : la colpa.
Risolta dunque
positivamente l’indagine sull’efficienza causale del cloruro di vinile solo
limitatamente agli angiosarcoma, alle epatopatie interessanti l’endotelio ed
alle sindromi di Raynaud ed acrosteolisi, il Tribunale ha peraltro ritenuto
che, a parte i reati di lesioni personali per sindrome di Raynaud ed
acrosteolisi che potevano ritenersi integrati anche nell’elemento psicologico,
ma operava la prescrizione, per i casi invece ritenuti di lesioni personali per
le individuate epatopatie e per gli omicidi colposi conseguenti ai decessi per
angiosarcoma, la riferibilità causale non era accompagnata anche
dall’imputazione a titolo di colpa.
Sosteneva in
diritto il Tribunale che:
la misura della
diligenza dovuta è correlata alla prevedibilità dell’evento e la prevedibilità
dell’evento deve riguardare un evento concretamente verificatosi e non già un
evento di contenuto generico o realizzabile in via di mera ipotesi…e quindi che
il dovere di sicurezza del datore di lavoro, derivante da norme cautelari, non
potrebbe operare per qualificare la colpa specifica in un giudizio di
responsabilità che concernesse malattie di cui non fosse sufficientemente nota,
al momento in cui la norma di igiene deve essere applicata, la correlabilità
con la sostanza in questione e, conseguentemente, non potesse essere nemmeno
previsto dal datore di lavoro il rischio derivante dall’esposizione.
Riteneva
dunque il Tribunale che non si poteva eludere il problema della conoscenza o
conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza
(e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in
ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente
modello. Sostiene in sostanza che anche la responsabilità per colpa specifica,
e vieppiù ovviamente quella per colpa generica, esige la prevedibilità di
eventi tipici, tali essendo quelli la cui possibilità di verificazione fosse
nota sulla base di conoscenze scientifiche consolidate. Diversamente si sarebbe
dilatato sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità
colposa.
E dunque
analiticamente procedeva il Tribunale all’esame delle conoscenze scientifiche degli
anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti
e poi gli studi in Europa -Mastromatteo
e altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi
sugli gli studi di VIOLA e MALTONI, esame e valutazione che lo portava a
ritenere:
1) che
determinanti per la conoscenza della cancerogenità furono i risultati
sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati inadeguati sia per il
numero ridotto degli animali sia per le elevate esposizioni sia per i risultati
che avevano individuato i tumori nella pelle e nei polmoni e non già
angiosarcomi);
2) che le alte
esposizioni degli anni '50 - '60 avevano provocato, oltreché effetti tossici (
svenimenti e nausee) anche casi di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia
delle autoclavi e il dottor Viola era stato incaricato di approfondire
sperimentalmente le cause di tale malattia senza mai essere ostacolato in
queste ricerche neppure quando pervenne alla scoperta delle lesioni tumorali
che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò l'approfondimento affidato
a Maltoni;
3) che i dati
degli esperimenti di Maltoni circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo
americano che fu altresì autorizzato a
visitare il laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;
4) che i
risultati, ancorché parziali, furono comunicati all'esterno da Maltoni non solo
alla comunità scientifica al convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma
altresì a tutte le istituzioni pubbliche, e che le clausole di riservatezza,
poste per finalità di controllo tra il gruppo europeo e il gruppo americano,
non resistettero all'evidenza e si
ridussero alla fine in una moratoria di 15 giorni richiesta dagli europei per
una contemporanea comunicazione dei risultati alle istituzioni governative e
ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i primi casi di angiosarcoma
accertati su propri dipendenti deceduti;
8)
che già si poneva al centro
dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le
imprese dovevano adeguarsi.
E
dunque per il Tribunale, solo da questo momento, con la conclamata conoscenza
della cancerogenicità del CVM, avallata scientificamente dagli studi Maltoni e
dagli accertati casi Goodrich, si ponevano gli obblighi di prevenibilità che
prima del 1974 invece non si potevano
pretendere per la mancata previdibilità di quegli specifici eventi
(prevedibilità e obbligo di prevenibilità invece c’era, secondo il Tribunale,
come ricordato, per gli eventi dannosi conseguenti a sindrome di Raynaud e
acrosteolisi).
Queste
conclusioni, come analiticamente sopra esposto, sono contestate in diritto e in
fatto dagli appellanti che ritengono invece le conoscenze, almeno relative alla
tossicità della sostanza, risalenti, su indicazioni normative e studi già degli
anni trenta-quaranta, almeno agli anni cinquanta, onde andavano rispettate già
le norme prevenzionali specifiche di cui ai DD.P.R. n. 547 del 1955 (artt. 236
co. 1 e 4, 244 lettera A, 246, 354 co. 1 e 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389,
391) e n. 303 del 1956 (artt. 3, 4, 17, 19, 20, 21, 25, 58, 59) oltre che la
generale cogente disposizione di cui all’art 2087 c.c..
Ma anche la conoscenza della cancerogenicità
doveva farsi risalire almeno al 1969, con gli studi Viola ben conosciuti in
Montedison (Bartalini aveva partecipato ai convegni in cui tali studi erano
stati divulgati ed aveva poi presentato Viola a Maltoni). Si evidenziavano
dunque profili di colpa specifica e generica.
Di
contrario avviso ovviamente la difesa degli imputati che difende la sentenza
proprio sul piano delle conoscenze relative non solo alla cancerogenicità del
CVM ma anche sulla tossicità, sostenendo che le precedenti conoscenze si
riferivano, oltre che all’esplosività della sostanza che non rileverebbe nella
specie, solo ad effetti tossici acuti, mentre neppure erano conosciuti in
occidente gli studi degli autori dell’est europeo valorizzati dal P.M. relativi
appunto alle indagini e conclusioni in merito alla tossicità di detta sostanza
(una serie di studi a partire dal 1949 fino a tutti gli anni sessanta), studi
che venivano recepiti solo negli anni settanta quando drasticamente, con
Maltoni ed i casi Goodrich si poneva l’attenzione anche degli organismi
internazionali a tali problematiche.
Pur
dove poi, secondo la difesa degli imputati (così in discussione in particolare
la difesa Grandi-Trapasso-Belloni Gaiba), il legislatore degli anni cinquanta
classificando come tossiche le sostanze di cui alla famiglia dei derivati degli
idrocarburi alifatici, a cui appartiene il cloruro di vinile, e dettando gli
obblighi comportamentali correlati, avrebbe in realtà inteso riferirsi solo a
quelle (quali ad esempio il cloroformio) tra queste sostanze, relativamente
alle quali erano pienamente noti gli effetti tossici.
Ritiene la Corte sul punto fondati i motivi di
censura proposti dagli appellanti contro il pronunciato del Tribunale, errato
in punto di diritto, non pienamente rispondente alle evidenze processuali in
punto di fatto.
E così
infondate appaiono le argomentazioni della difesa degli imputati che ripiegano,
con un distinguo tra effetti cronici ed acuti, verso una assunta non conoscenza
fino agli anni settanta della tossicità, intesa come effetti cronici (facendo
coincidere conoscenze relative alla cancerogenicità e tossicità), e
interpretano l’intenzione del legislatore, nella classificazione delle sostanze
ritenute tossiche e nell’imposizione dei correlati obblighi prevenzionali, con
limitazioni che le norme non consentono.
Ed
invero, in diritto, se deve senz’altro condividersi la preoccupazione di
evitare che la colpa regredisca verso forme di responsabilità oggettiva,
neppure, come ben ha osservato il difensore della Parte Civile
Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale Veneto, si
può soggettivizzarla sino al punto di renderla in concreto inapplicabile, di
svuotarla di contenuto.
Ma ciò
che subito bisogna affermare con chiarezza è che il criterio di accertamento
del nesso causale -la sussistenza di una legge scientifica di copertura- non
può valere in tema di accertamento della colpa, né specifica né generica. Una
volta accertato in forza del modello causale sopra ricordato che una
determinata condotta sia condizione necessaria di un determinato evento, ed una
volta stabilito che quella condotta o viola specifiche norme prevenzionali o è
comunque imprudente, negligente o imperita, si risponderà dell’evento di danno
in qualsiasi modo, anche nella sua peculiarità non prevedibile,
concretizzatosi. Resta ovviamente da riempire il concetto di colpa specifica o
generica nei requisiti di prevedibilità dell’evento, una volta per tutte
operata dal legislatore con la previsione della norma cautelare ovvero volta
per volta da verificare nei casi di specie, e di prevenibilità con
l’adeguamento della condotta alla norma cautelare ovvero, ove norma specifica
imponente una determinata condotta non vi sia, alle regole di prudenza,
diligenza, perizia recepite dalla generalità.
Ma certo è che nell’ordinamento penale e
nello specifico nei reati con evento di danno alla persona, quali l’omicidio
colposo o le lesioni personali colpose, la prevedibilità di evento dannoso che
spinge il legislatore a dettare la condotta da tenere o l’agente ad uniformarsi
ad un comportamento da agente modello, non può essere ritenuta prevedibilità di
un evento tipico conosciuto o conoscibile in forza di specifica e conosciuta o
conoscibile norma scientifica di copertura generalmente accettata nella
comunità scientifica. Intanto ben può il legislatore antinfortunistico avere in
considerazione una pura ipotesi di rischio, non dovendo certo aspettare una
legge scientifica di copertura pur nella generica previsione di dannosità di un
determinato comportamento, e certo la cogenza della norma cautelare imposta non può essere poi condizionata a leggi
scientifiche di copertura: l’agente deve uniformarsi a prescindere da una
specifica prevedibilità di un evento tipico non ancora spiegato nella sua
correlazione dalla scienza, e risponderà pur se la sua azione ha cagionato una
malattia ancora ignota piuttosto che una nota che aveva già spinto il
legislatore a dettare la norma cautelare: vi sarebbe il nesso, questo sì
spiegato scientificamente con la corroborazione delle evidenze disponibili, vi
è la colpa consistita nella violazione di un obbligo comportamentale già
mirante ad evitare genericamente danni e non un determinato specifico danno.
Ma poi,
laddove è in capo all’agente che si impone la ricerca della prevedibilità dell’evento, ciò che occorre
cercare è la mera rappresentabilità di un evento generico di danno alla vita o
alla salute; nella specie la rappresentazione della potenziale idoneità della
sostanza, senza idonee schermature prevenzionali, a dar vita ad una
situazione di danno per la salute.
Altrimenti
anche in un banale incidente stradale sicuramente determinato magari da mera
imprudenza o imperizia, se in conseguenza dell’urto dal quale può normalmente
derivare alla vittima la frattura di un osso, ne deriva invece una patologia
più grave o la morte per un meccanismo raro (ma ovviamente, pur nella
scolastica ipotesi, certo nel suo collegamento causale con l’urto, anche se
tale meccanismo viene solo successivamente e magari in occasione proprio del
processo acclarato dalla scienza), dovrebbe escludersi la colpa.
Nello
specifico delle conseguenze causate dall’azione nociva del CVM, dunque non può
ritenersi ai fini della sussistenza del requisito della prevedibilità, la
necessità, né nella colpa generica né tantomeno nella colpa specifica, della
conoscenza da parte dell’agente dei meccanismi causali della sostanza in
oggetto spiegati da una legge scientifica di copertura. In ambito di colpa il
parametro è il rischio.
Pienamente
condivisibile sul punto dunque il P.M. laddove appunto rimarca che se è vero,
come affermato dal Tribunale che la colpa, a differenza del nesso causale per
il quale si ha riguardo anche a leggi scientifiche scoperte successivamente, va
accertata con riferimento alle nozioni conosciute all’epoca in cui è stata
posta in essere la violazione della norma cautelare antinfortunistica, questo
non significa che non si possa far riferimento a tutte le conoscenze che
concorrono a qualificare il rischio conseguente ad una determinata condotta,
anche mere, se serie ovviamente (come nella specie certo seri erano gli studi
Viola comunicati alla comunità scientifica internazionale) prospettazioni di un
rischio da affrontare con l’urgenza del caso. E si ricordi fin d’ora di come
certo risultarono allertati ed allarmati i dirigenti Montedison che subito si
premurarono di commissionare a Maltoni specifici approfondimenti.
Peccato
che intanto non si è operato all’interno degli stabilimenti e verso i
lavoratori esposti a quel rischio più che paventato, adempiendo tra l’altro
allo specifico, certo generico ma cogente, obbligo imposto al datore di lavoro
dall’art. 2087 c.c di curare la sicurezza, dovere che imponeva agli imputati
(quelli sopra individuati che in quel periodo, dal 1969 al 1973, si trovavano,
pur nella specificità di ruolo e funzioni, in posizione di garanzia in quanto
da ognuno si potevano pretendere interventi) di adottare precisi comportamenti
e di apprestare tutti i mezzi (quelli, per non peccare di genericità ed
apoditticità, poi adottati ed apprestati a partire dal 1974) necessari per la
concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
E’ già,
il suddetto, un sussistente profilo di colpa, se si vuole, generica (ma il
collegamento alla violazione di cui all’art. 2087 c.c. per alcuni interpreti la
rende specifica) in capo agli imputati, i quali appunto, a prescindere dai
profili di colpa (questi sì, unanimamente) specifica correttamente individuati
dagli appellanti e dei quali subito di poi si dirà, con la divulgazione degli
studi Viola (e, si badi, con le specifiche raccomandazioni da questi date in
relazione agli urgenti interventi negli ambienti di lavoro pur in situazione
non ancora comprovata scientificamente di cancerogenicità della sostanza)
dovevano valutare e gestire il rischio che si prospettava ancora maggiore rispetto
a quello che già conoscevano, ed anche di questo di poi si dirà, in merito alla
nocività del CVM.
E per
farlo dovevano ricorrere immediatamente, senza aspettare la validazione di
Maltoni alle ipotesi Viola, alle cosidette “default opinion”, cioè a dire
quell’opzione, come definita dal consulente Lotti, scelta sulla base di una
politica di valutazione del rischio che sembra essere la migliore in assenza di
dati che dimostrino il contrario. Ipotesi di default che già il Tribunale ha
ritenuto non pertinenti all’accertamento del nesso causale, ma qui, ai fini
della colpa, come ancora ben colto dal difensore della Parte Civile
Legambiente-Associazione di Protezione Ambientale Comitato Regionale Veneto, il
rapporto di accertamento è invertito, e bisognava muoversi sulle default
opinion, il che vuol dire che sino a quando non si aveva la prova che il
cloruro di vinile non è cancerogeno, il datore di lavoro doveva comportarsi
esattamente come se lo fosse, cioè doveva agire sull’ipotesi di rischio.
D’altra
parte della valenza scientifica degli studi Viola non può seriamente
discutersi. Viola, giova ricordarlo anche se questi dati sono ben illustrati
nella sentenza del Tribunale, non è un medico che estemporaneamente fa una
ricerca senza seguito o ascolti. E’ il medico di fabbrica della Solvay di
Rosignano che opera in ambito industriale e che da anni studia sperimentalmente
gli effetti nocivi del CVM. I dati della sua ricerca vengono presentati a Tokio
nel 1969 ad un congresso di medici del lavoro, e poi, nel 1970 all’importante
congresso di Houston dove comunica i risultati di uno studio in cui vengono
osservati tumori in topi e ratti esposti per via inalatoria a CVM.
Detti
dati vengono poi pubblicati, sempre nel 1970, a consacrazione della recezione
dello studio da parte della comunità scientifica internazionale, su una rivista
scientifica, Cancer and Research. Ma, per noi ancora più rilevante, Viola è
conosciuto personalmente dal direttore del servizio centrale del servizio
sanitario Montedison, cioè l’imputato Bartalini, che conosce altresì i suoi
studi e lo presenterà a Maltoni, incaricato appunto da Montedison di portare
avanti la ricerca sulla cancerogenicità del CVM.
In tale
situazione, coincidente temporalmente proprio con il momento iniziale della
contastazione dell’imputazione, le precedenti inerzie, fuori contestazione ma
rilevanti per la valutazione dell’elemento psicologico che sorreggeva le
condotte degli imputati nel quinquennio (1969-1973) che qui interessa,
perdurarono come se nulla fosse.
Inerzie
già colpevoli, per la conoscenza che comunque, e si vedrà, si aveva della
tossicità della sostanza, e dunque per la prevedibilità, a parte le specifiche
violazioni di norme antinfortunistiche che venivano in rilievo già per la
natura tossica, e tossica anche per legge, della sostanza, di eventi di danno
alla salute dei lavoratori. Inerzia già colpevole per lo stesso Tribunale che
ha comunque riconosciuto che effetti acuti, quali nausee e svenimenti erano
conosciuti, così come erano conosciute patologie che derivavano
dall’esposizione, quali il fenomeno di Raynaud e l’acrosteolisi, peraltro
ritenendo la colpa correlabile solo a tali conseguenze e non ad altre ritenute
non conosciute.
Ma
tutti i vertici aziendali, da quelli operativi a quelli medici ed a quelli di
politica industriale, ben si erano resi conto che c’era qualcosa di nuovo che
poteva non più lasciar passare quell’andazzo. Allora si attivarono, ma non nel
senso dovuto; non ricorrendo ad ipotesi di default; non intervenendo
nell’ambiente di lavoro (secondo le varie direttrici poi seguite dal 1974 in
poi: abbattere i livelli di esposizione, collocare gli strumenti prevenzionali
che di poi si specificheranno nell’esame della fattispecie di cui all’art. 437
c.p., investire in nuove tecnologie, intensificare la sorveglianza sanitaria);
non investendo cioè nella sicurezza; ma investendo nella ricerca, così intanto
procrastinando i certamente più onerosi interventi in azienda (da rivoltare
nelle concezioni lavorative e da rinnovare nelle tecnologie), e poi con la
speranza che magari tutto si risolvesse in un fuoco di paglia così da non
essere neppure tenuti a modificare nulla, cercando di non diffondere intanto
notizie che potevano allarmare il mercato (non nel senso della segretezza
sostenuta dall’accusa in quanto comunque nessun vincolo di segretezza era dato
a Maltoni, ma solo nel senso di stare zitti fino a dati sicuri, se ne discuterà
meglio trattando del reato ex art. 437 c.p.).
Intanto
i lavoratori continuavano a rimanere esposti alle alte concentrazioni di CVM
che, si è accertato, ed a spada tratta lo sostiene la stessa difesa degli
imputati ed in particolare la difesa di Smai, Pisani, Patron che più si è
occupata della problematica della causalità, proprio nel perdurare di
esposizioni ad elevate dosi quali quelle di quel periodo ravvisa quella che
chiama causalità generale e cioè potenzialità, conclamata scientificamente, di
causare l’angiosarcoma epatico. Un investimento nella sicurezza avrebbe potuto
salvare i lavoratori che poi si sono ammalati di angiosarcoma e deceduti (la
richiesta prevenibilità).
Ma
evidente è altresì la prevedibilità (non di una malattia che si chiama
angiosarcoma, ma di un grave danno alla salute, ed a quel punto anche di un
rischio, seppur ancora non certezza, di tumori nei lavoratori dovuti a quelle
condizioni di lavoro vigenti.
Se un
tale rischio non fosse stato percepito dai vertici di Montedison, neppure si
sarebbero attivati per dare impulso alle ricerche di Maltoni proprio sulla
natura cancerogena del CVM. Il fatto è stato giudicato positivamente dal
Tribunale, ma processualmente ha solo la valenza di prova della consapevolezza
dei potenziali effetti cancerogeni del CVM, che è comunque un grado di
conoscenza sufficiente a fondare la colpa, soprattutto se ancorata alla sicura
conoscenza sulla tossicità e nocività per la salute dei lavoratori per gli
effetti già conosciuti che da soli avrebbero dovuto imporre quegli interventi
poi posti in essere a partire dal 1974.
E
vediamo dunque queste conoscenze sulla tossicità della sostanza che già
avrebbero imposto, nel rispetto delle norme antinfortunistiche invocate dal
P.M. e vigenti fin dagli anni cinquanta (colpa specifica), ed altresì nella
concreta rappresentazione che già se ne poteva ricavare di un generico danno alla
salute (colpa generica), l’eliminazione delle situazioni di rischio imperanti
fino al 1974.
In
merito, puntuale è la disamina degli appellanti, sia nei dati di fatto che
nell’indicazione delle correlate norme cautelari, e possono pertanto essere
integralmente recepite le conclusioni degli stessi relative sia alla risalente
conoscenza, rispetto al periodo di contestazione, della tossicità della
sostanza, sia della riferibilità alla lavorazione di tale sostanza delle norme
cautelari specificate in imputazione.
Giovano
comunque, solo per migliore comprensione delle conclusioni sul punto di questa
Corte, brevi notazioni che appaiono maggiormente rilevanti. Intanto, bisogna
partire dal dato normativo che include il cloruro di vinile, in quanto derivato degli idrocarburi alifatici, tra le sostanze
tossiche per le quali il legislatore del 1956 (DPR n. 303), nel dettare le
norme cautelari, ha considerato non solo effetti lesivi per l’integrità fisica
(il CVM è sostanza infiammabile ed esplosiva), ma altresì effetti dannosi per
la salute: prova ne sia l’obbligo di visite mediche trimestrali. Il rimedio
correlato alla tossicità e quindi nocività della sostanza, cioè specificamente
previsto dal legislatore per prevenire i danni alla salute dei lavoratori che l’azione
tossica della sostanza può cagionare, è quello previsto dagli artt. 20 e 21 DPR
303/56 che impongono al datore di lavoro l’abbattimento delle polveri e dei gas
della cui nocività, quanto al CVM, non può discutersi attesa la classificazione
normativa come tossica, basata ovviamente su conoscenze che risalivano a studi
ed esperienza dei due decenni precedenti.
Ma
quanto alla conoscenza di tale nocività per la salute del CVM, superata pure
ogni digressione, comunque compiutamente svolta nei motivi di appello del P.M.
e controdedotta dalle difese degli imputati che non negano gli studi citati dal
P.M., da Tribuk 1949 fino a Viola, ma ne contestano la conoscenza nel mondo
occidentale fino agli anni settanta (dimenticando che tra gli studi elencati ve
ne sono pure di autori occidentali), rileva verificare quanto poteva essere
noto specificamente in Montedison.
Emerge
allora che già sul finire degli anni cinquanta ed inizio anni sessanta i
documenti aziendali di Montedison contenevano specifiche prescrizioni di
sicurezza sull’utilizzo del CVM, proprio in ragione della sua riconosciuta e
specificamente menzionata “tossicità” sia pure a dosi non modeste.
Questo dato di conoscenza è poi confessato
dall’imputato Bartalini che ha riferito che le conoscenze dell’epatotossicità
del cloruro di vinile risalivano già al periodo in cui egli compiva gli studi
universitari (pacificamente ben prima del periodo della contestazione), ed è
testimoniato dal dott. Giudice, medico di fabbrica del Petrolchimico di Porto
Marghera, che pure parla di apprendimento della natura epatotossica del cloruro
di vinile dai testi universitari (si è laureato, come emerge in atti, nel 1956)
e che nella pratica in fabbrica con queste tematiche aveva fatto i conti.
D’altra
parte emerge da un documento del marzo 1999 dell’APME (Associazione Europea dei
Produttori di Materie Plastiche), quindi documento proveniente dall’Industria e
non certo da controparti, che il problema della tossicità del cloruro di vinile, quanto alla consapevolezza, viene differenziato in tre periodi: nel primo, tra
gli anni trenta e quaranta, “vennero rilevati gli effetti acuti sull’uomo”; nel
secondo, tra gli anni cinquanta e sessanta, si evidenziano “alterazioni non
specifiche della funzionalità epatica e del sistema digestivo e respiratorio,
sindrome di Raynaud nelle mani, lesioni sclerodermiche e alterazioni ossee
osteolitiche delle falangi distali. Tutti questi effetti entrarono a far parte
di quella che diventò conosciuta come Malattia da cloruro di vinile”; nel terzo
periodo, all’inizio degli anni settanta, “si scoprì l’effetto cancerogeno del
CVM”.
Emerge
dunque chiaro dalle risultanze processuali l’erroneo apprezzamento da parte del
Tribunale in ordine alla conoscenza della nocività del CVM, attestandosi, pur ancora
con riferimento al periodo che si colloca a fine anni sessanta ed i primi anni
settanta quando invece già emergeva il rischio (se non ancora un conclamato
accertamento) cancerogeno, su una assunta consapevolezza del solo rischio di
esplosività della sostanza, oltre che, ma lo tratta come una monade senza
trarne alcuna conseguenza, del rischio collegato al fenomeno di Raynaud ed
acrosteolisi.
Ritiene
invece la Corte, in forza degli elementi solo nei punti salienti qui ricordati,
ma più analiticamente sopra evidenziati nella esposizione dei motivi d’appello
del P.M, che non può negarsi da parte degli imputati la conoscenza, in tal caso
piena e con copertura scientifica e legislativa fin da prima del 1969, della
natura epatotossica del CVM, della sua idoneità quindi ad aggredire almeno
l’organo del fegato provocandone gravi malattie.
E
questo è l’evento oggetto della prevedibilità sufficiente ad integrare la colpa
ove non si sia tenuto un comportamento
idoneo ad evitare tale specifico rischio. Non si richiede, e si ritorna al
punto di partenza in diritto, per ritenere la sussistenza della colpa in capo
all’agente per omicidi o lesioni personali aggravati dalla violazione di
normativa antinfortunistica, la prevedibilità dello specifico evento morte conseguente
a quella specifica malattia o la prevedibilità di quella specifica lesione, ma
unicamente la previsione di un grave danno alla salute che nella specie è resa
probatoriamente evidente dalle comprovate conoscenze già dell’epatotossicità e
poi del rischio cancerogeno del CVM nelle alte esposizioni che interessavano
gli ambienti di lavoro fino a tutto il 1973; vieppiù poi imputabili a tale
titolo agli imputati detti eventi per la specifica violazione delle norme
prevenzionali che nella lavorazione di sostanze tossiche dettava il legislatore
del 1956.
Le ha elencate il P,M, nel suo appello ed è
qui ormai davvero superfluo analiticamente ricordale atteso che le tematiche in
contrapposizione tra le parti non riguardavano tanto i comportamenti in sé,
pacificamente omessi fino al 1974, ma la riferibilità degli obblighi alle
lavorazioni del CVM sulla quale ci si è testè intrattenuti, ritenendola.
Conclusivamente
sul punto dunque la Corte, ricordato che relativamente ai reati di lesioni
personali per epatopatie per le quali non emerge altresì all’evidenza già
l’esclusione del nesso causale si è sopra detto della necessaria immediata
declaratoria di estinzione per prescrizione onde la piena delibazione sulla
sussistenza dell’elemento psicologico non rileva perché anche per tale elemento
è sufficiente, in presenza di causa estintiva, la non evidenza
dell’insussistenza della colpa, quanto invece ai reati di omicidio colposo per
i casi riconosciuti di angiosarcoma, contrariamente a quanto ritenuto dal
Tribunale, la riferibilità causale alle contestate condotte degli individuati
imputati è accompagnata anche dall’imputazione a titolo di colpa.
Ora,
prima di provvedere in merito a detti reati, vanno affrontate le problematiche
, sostenute ancora dagli appellanti nei motivi di appello relative alle
contestate CONTINUAZIONE, COOPERAZIONE COLPOSA e PRESCRIZIONE, potendo detti
istituti avere ovviamente influenza sulle statuizioni da adottare in merito ai
reati ritenuti pienamente integrati.
Quanto alla continuazione ex art. 81, comma 2,
c.p., ritenuta dal P.M. configurabile fra i delitti colposi contestati, in
specie: lesioni personali, disastri e strage colposi, nonché reati ambientali
vari, osserva la Corte che già in diritto neppure infine si attagliano al caso
di specie, le, dal P.M. stesso ricordate come “isolate”, tesi dottrinali e
giurisprudenziali che sostengono la piena compatibilità della continuazione con
i delitti e i reati colposi. Invero, le ricordate pronunce ( Cass., sez. I, 24
maggio 1985, Sicchiero, che fa espresso riferimento alla possibilità di
continuazione nei reati colposi, allorché vi sia l'aggravante di aver agito nonostante la previsione dell'evento;
Cass., sez. I, 10 marzo 1983, Avena, che riconosce la possibilità di ravvisare
la continuazione anche quando si abbia la cosiddetta "colpa
impropria", che implica, peraltro, un reale contenuto psicologico a base
della condotta dell'agente, pur se l'imputazione sia poi a titolo di colpa e
non di dolo), ma anche la ricordata tesi dottrinaria (per la quale, in ambiti
soprattutto qual è quello in questione, di attività economiche, sarebbe
senz'altro compatibile, con il rimprovero di colpa, tanto più se
"cosciente", la presenza di un unico "disegno criminoso",
realizzato dalle diverse condotte esecutive, attive od omissive, in sé
finalistiche, anche se non tecnicamente "dolose" rispetto ai singoli
fatti tipici che poi lo intergrano, dovendosi fare riferimento non all’intera
serie di elementi che costituiscono i reati, ma solo alle mere “azioni od omissioni”),
intanto pongono dei precisi “paletti”, quali l’agire con dolo o almeno con
previsione dell’evento in violazione di norme comportamentali nel perseguimento
di uno scopo, che nella specie o non sono pertinenti, si dica dei reati a
cosiddetta colpa impropria che implicano una condotta intenzionale in cui la
colpa è considerata solo agli effetti sanzionatori, o si sono infine rivelate
non sostenibili, si dica dell’aggravante della colpa cosciente già sopra
esclusa, ovvero comunque non rinvenibili nell’intera nostra fattispecie per
come strutturato l’editto di accusa.
Dovendosi invero fare riferimento pur sempre
all’agire dell’imputato e non a teoriche di impresa, il finalistico
orientamento delle azioni od omissioni integranti i vari delitti colposi
andrebbe comunque ricercato in capo allo stesso. E cioè, l’unicità del disegno
criminoso nella perpetrazione delle condotte che realizzano più reati, andrebbe
provata, sia nella originaria progettazione (ideazione) che nella deliberazione
(volizione) che nello scopo prefisso da realizzare attraverso quei
comportamenti pur genericamente preordinati, in capo al soggetto agente che i
diversi reati infine ha commesso.
Già è evidente come
un simile ragionamento non sia sovrapponibile alle realtà del caso di specie
per come costruito nell’editto di accusa, ove i diversi comportamenti, pur ad
ammettere realizzati in ossequio a medesima politica aziendale ed addirittura
di aziende diverse per le quali neppure è coglibile una comune condivisa
progettualità ove non si voglia ritenere sufficiente affermare che lo scopo del
profitto è proprio di ogni impresa, sono posti in essere in lungo arco
temporale da diversi soggetti su piani ed in tempi diversi. Venuta meno la
possibilità di cementare ogni singola violazione di ogni singolo imputato a
quelle degli altri attraverso l’istituto della cooperazione colposa, esclusa
per quanto sopra già osservato, non si vede, neppure seguendo le minoritarie
tesi avvalorate dal P.M., come ravvisare la continuazione tra reati colposi
commessi da soggetti diversi anche nel caso di corresponsabilità per il
concorso di fattori causali colposi indipendenti.
Né, nella specie, la
continuazione potrebbe ritenersi sussistente, sempre in forza delle suddette
tesi, in capo al singolo imputato eventualmente responsabile di più violazioni
integranti reato, facendo perno sul finalistico perseguimento degli scopi
aziendali. Ed invero, non potrebbe, anche nel caso di concettuale compatibilità
tra continuazione e reati colposi, non valere in questi casi quanto deve
ritenersi necessario per la configurabilità stessa del reato continuato: un
medesimo disegno criminoso orientato al raggiungimento di un determinato scopo
(i sopra ricordati fattori intellettivo, volitivo e finalistico per i quali
occorre pure che vi sia prova) che è cosa diversa dell’abitualità a delinquere
sia pure nel perseguimento di finalità (ossequio a determinata politica
aziendale) che si perpetuano all’infinito e che evidenziano, proprio perché non
può formularsi prognosi di cessazione di attività illecita, una pericolosità
incompatibile con l’istituto.
Esclusa dunque la
configurabilità della continuazione tra i reati in oggetto, nessuna influenza
ne può derivare nell’analisi delle vicende giuridiche dei singoli reati stessi
(tempo del commesso reato, prescrizione e quant’altro).
Quanto alla cooperazione colposa ex art. 113 c.p.,
contestata nell'imputazione, non paiono condivisibili già in diritto le
argomentazioni dell’accusa appellante avverso l’esclusione della
configurabilità della stessa nell’ipotesi di specie sostenuta dal Tribunale,
che rimarca appunto che mancherebbero i supposti requisiti della
"reciprocità" e "contestualità" della rappresentazione
dell'altrui condotta colposa, nei partecipi di questa "anomala" forma
di partecipazione al reato, esclusione “logicamente” ricavabile proprio dalla
dimensione diacronica enorme, che connota questa vicenda, nonché dalla
autonomia dei due "centri decisionali organizzati" che hanno
determinato le decisioni di politica d'impresa sub iudice.
Si è sopra ricordato come,
in contrario, sostengono gli appellanti ed in specie il P.M. che, né nella
lettera né nella ratio di disciplina dell'istituto, si rinviene una siffatta
restrizione o possibilità di esclusione del suo ambito di operatività, essendo
anzi vero il contrario, in quanto il legame di "cooperazione" su cui
si fonda l’estensione di punibilità operata dall’art. 113 c.p., non
implicherebbe affatto un atteggiamento psicologico reale e contestuale di
"consapevolezza reciproca" delle rispettive azioni, essendo
sufficiente, in conformità con i requisiti della colpa, la «prevedibilità
della condotta altrui, concorrente con la propria», e realizzatrice (o
"concretizzatrice") proprio del tipo di rischio che la norma
precauzionale violata mirava ad evitare.
Ritiene la Corte che, in
conformità a costante e condivisa giurisprudenza di legittimità, la
cooperazione colposa nella ricostruzione dell’oggettiva e psicologica consumazione di un
determinato reato, non possa concettualmente prescindere dall’elemento
della consapevolezza, da parte di
ciascun partecipe, dell’esistenza dell’azione altrui in concomitanza con la
propria. E se per concomitanza
non deve ovviamente intendersi contestualità, dovendosi ovviamente tenere in
considerazione tutto il tempo nel corso del quale si sviluppano le azioni e/o
le omissioni che portano all’unico risultato delittuoso, il collegamento
psicologico che unisce appunto dette varie azioni e/o omissioni nei delitti
colposi relativamente ai quali il legislatore ha così ovviato all’impossibilità
di ricorrere all’art. 110 c.p., non può non cogliersi, parimenti a quanto
avviene nel concorso ex art. 110 c.p. nei reati dolosi che in più richiede solo
l’elemento volitivo in ordine all’evento reato, nella reciproca consapevolezza
dei rispettivi comportamenti, così come nel concorso ex art. 110 c.p. è
necessario che ogni partecipe con consapevolezza e volontà dia il proprio
contributo causale all’azione dei partecipi.
Chiara in tal senso la
Suprema Corte (vedi SS.UU. 25/11/1998, Loparco, citata anche dalle parti) che
rimarca, senza possibilità, come si vorrebbe da parte degli appellanti, di dare
alla pronuncia stessa significati che infine annullerebbero quanto con
chiarezza enunciato non solo in massima ma anche in motivazione con collegamento
al caso di specie in quel processo esaminato, come “la cooperazione nel delitto
colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in
essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire
all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non
voluto”.
Qualora detto requisito
manchi, e nella specie in alcun modo emerge, neppure se ridotto a mera
conoscibilità dei comportamenti precedenti o prevedibilità dei comportamenti
futuri che presupporrebbe peraltro pur sempre un dovere di previsione e
conseguente impedimento della ipotetica violazione futura altrui in alcun modo
sostenibile nella vicenda in esame, e tuttavia si osserverà che l’evento
dipende da diversi contributi causali sviluppatisi nel tempo, non vi sarà più
“cooperazione”, ma “concorso di fatti
colposi indipendenti”.
Tanto, e per i suddetti
motivi, si ritiene per le ipotesi di reato ritenute da questa Corte, e nello
specifico per il reato per il quale vi è affermazione di responsabilità degli
imputati in posizione di garanzia nel periodo in cui il perpetuarsi delle alte
esposizioni a CVM cui veniva sottoposto il lavoratore Faggian Tullio, e quindi
il concorso dei rispettivi autonomi fatti colposi, le sopra esaminate colpose
violazioni, hanno determinato l’insorgere della malattia (angiosarcoma) e
quindi l’evento letale pur intervenuto dopo tantissimi anni, nella ormai
pacifica dinamica di una tale patologia che ha tempi di latenza anche
trentennali. Non occorre, si apra una parentesi, spendere parole per spiegare
che non si condannano persone che hanno operato negli anni 60/70 per fatti a
loro estranei verificatesi trenta anni dopo, ma per eventi collegati proprio
alle loro plurime ed autonome azioni od omissioni temporalmente collegate al
periodo in cui operavano. E che le patologie di cui si tratta nella specie
abbiano tempi di latenza, rispetto alla causa generatrice, lunghissimi, è nel
presente processo dato acquisito da tutti, anche da chi non è medico (e tra gli
imputati condannati vi è pure un medico).
Quanto in particolare
alle tematiche relative alla prescrizione,
le stesse risultano superate dalla decisione di merito in ordine alla
sussistenza o meno dei reati di cui si discute, alla loro autonomia e precisa
collocazione temporale sopra evidenziata.
Così, superate debbono
considerarsi le argomentazioni degli appellanti (in particolare P.M. e avv.
Zaffalon per le parti civili rappresentate) che ricollegano l’insussistenza
della prescrizione per tutti i reati contestati alla tesi che il disastro di
cui al primo capo d’imputazione sarebbe un reato eventualmente progressivo nel
quale gli eventi si susseguono l’uno a l’altro e ciascuno e tutti ne
costituiscono la consumazione, onde il tempo del commesso reato coinciderebbe
con l’ultimo evento, collocabile nella specie, per tutti gli imputati, nel
2000, ovvero che la ricollegano alla sostenuta natura di ipotesi autonoma di
reato per quanto riguarda quella prevista dal secondo comma dell’art. 437 cp,
ed infine al collegamento sotto il vincolo della continuazione di tutti reati
contestati.
Tutto ciò non ha ormai
rilevanza ai fini della decisione, posto invece che, come infra si dirà, il
reato di disastro innominato colposo per il periodo successivo al 1973 non è
stato ritenuto oggettivamente sussistente, posto ancora che per l’ipotesi
ritenuta sussistente di omessa collocazione di dispositivi antinfortunistici
dai quali sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte
tenute fino a tutto il 1973 dagli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e
D’Arminio Monforte, che si estenderebbe fino al 1999 (decesso di Faggian Tullio
per angiosarcoma contratto in conseguenza delle alte esposizioni senza gli
opportuni strumenti e impianti antinfortunistici fino al 1973) si è esclusa la
sussistenza dell’elemento psicologico del reato (dolo), e posto che il reato di
cui all’art. 437, 1° co., c.p., in relazione all’omessa collocazione di
impianti di aspirazione, ascrivibile alle condotte omissive degli imputati
Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz,
Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, si è
ritenuto realizzato fino agli inizi degli anni ottanta quando poi si ovviava
all’omissione adeguatamente completando l’installazione di idonei impianti di
aspirazione in ogni ambiente lavorativo a rischio, mentre insussistenti sono
stati ritenute le ipotesi stesse di reato al di là di tali limiti; e posto
infine che, come sopra osservato, la continuazione tra i reati in oggetto ed
anche tra i singoli delitti di lesioni o omicidio colposi non è configurabile.
CONCLUSIONI
IN MERITO AI RITENUTI REATI DI OMICIDIO COLPOSO
Quanto
dunque ai reati di omicidio colposo ai danni dei lavoratori Simonetto Ennio,
Agnoletto Augusto, Zecchinato Gianfranco, Pistolato Primo, Battaggia Giorgio,
Suffogrosso Guido, Fiorin Fiorenzo e Faggian Tullio, deceduti appunto per
angiosarcoma epatico contratto in conseguenza delle alte esposizioni a CVM cui
venivano esposti dall’epoca dell’assunzione (rispettivamente avvenuta negli
anni: 1961, 1955, 1960, 1956, 1956, 1961, 1953, 1967) fino a tutto il 1973, e
dunque, per come già ritenuto dal Tribunale e non fatto oggetto di gravame da
parte di alcuno in processo, causalmente collegati alle azioni ed omissioni
degli imputati sopra individuati, azioni ed omissioni che, come sopra, questa
Corte ha ritenuto, così riformando sul punto il giudizio del Tribunale,
colpevoli (onde resterebbero integrati i reati stessi sia nell’elemento
oggettivo che in quello soggettivo), va peraltro subito rilevato:esclusa come
sopra pure già osservato la continuazione, e dovendosi altresì considerare i
singoli eventi fattispecie concrete autonome per i contesti di tempo e di luogo
in cui nello specifico si consumavano le singole vicende sia pure in
conseguenza di azioni ed omissioni che, sempre le stesse, si reiteravano e
perpetuavano in quel periodo, con esclusione quindi dell’ipotesi di cui
all’art. 589, 3° comma, c.p. che, particolare figura di concorso formale di
reati unificati quoad poenam, è incompatibile con la pluralità, autonomia e
diversa collocazione temporale delle condotte e degli eventi di cui sopra, gli omicidi colposi ai danni di Simonetto
(deceduto nel 1972) e di Agnoletto (deceduto nel 1973) sono ormai prescritti
pur nei termini della contestazione, essendo decorsi oltre ventidue anni e
mezzo dal dì della consumazione.
Quanto ai restanti casi,
ritiene intanto la Corte debbano essere escluse, oltre, come sopra osservato,
la continuazione e la configurazione dell’ipotesi di cui al terzo comma
dell’art. 589 c.p., le contestate aggravanti di cui all’art. 61, nn 1, 3, 5, 7,
8 e 11 c.p.. Ed invero, all’evidenza insussistente nella specie, con specifico
riferimento ai reati di omicidio colposo, l’aggravante della colpa cosciente,
atteso che i termini stessi in cui è stata riconosciuta la colpa, alle cui
considerazioni sopra svolte si rimanda, non consentono poi di ritenere altresì
in capo agli (rectius a ciascuno degli) imputati la previsione dell’evento
morte (che è qualcosa in più della prevedibilità dell’evento dannoso, seppur
non specificamente individuabile, che è sufficiente, in uno con gli altri
elementi richiesti, per la configurabilità della colpa) per la possibile
contrazione da parte di qualche lavoratore di una patologia letale,
l’angiosarcoma epatico, che neppure scientificamente in quell’epoca si sapeva
sicuramente riferibile all’esposizione a CVM.
Ma insussistenti altresì nella specie le
ulteriori aggravanti citate, o perché nella intrinseca loro natura richiedono
(e sempre da provare in capo a ciascun imputato che ha posto in essere un
antecedente causale) una sostanziale intenzionalità finalizzata o strumentalità
cosciente (l’agire per motivi abietti o futili, l’approfittare di circostanze
di tempo di luogo o di persone tali da ostacolare la pubblica o privata difesa,
l’abusare, usare cioè con finalità distorte, della propria autorità e delle
condizioni di prestazione d’opera) che mal si conciliano con la natura colposa
dei reati che ci occupano, e che comunque non si colgono nelle specifiche
condotte dei singoli imputati; o perché razionalmente non collegabili al
delitto di omicidio (l’avere cagionato alla persona offesa un danno
patrimoniale di rilevante entità, laddove per persona offesa deve intendersi la
vittima, per il quale non può discutersi di danno patrimoniale, e non gli altri
possibili danneggiati); o perché di fatto neppure determinate nella loro
concretezza le specifiche azioni poste in essere da ciascun imputato dopo la
consumazione di ogni singolo fatto-reato
che ne avrebbero aggravato le conseguenze.
A tal
punto, escluse anche le suddette aggravanti e residuando dunque singoli reati
di omicidio colposo con la sola aggravante di cui all’art. 589, 2° comma, c.p.,
per la violazione di norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro, ne
deriva altresì la prescrizione, per il decorso del termine massimo di quindici
anni, dei reati ai danni di Zecchinato Gianfranco (deceduto nel 1986) e
Pistolato Primo (deceduto nel 1988), e ne va senz’altro pronunciata la relativa
declaratoria.
Residuano
i casi ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin Fiorenzo, Suffogrosso Guido e
Faggian Tullio per i quali sono responsabili, secondo i criteri sopra esposti
che hanno fatto riferimento alle loro specifiche azioni ed omissioni
causalmente e colpevolmente collegate ai delitti stessi, gli imputati
Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte.
Possono
peraltro concedersi ai predetti imputati attenuanti generiche. In tal senso depongono
le condizioni soggettive (soggetti immuni da precedenti che possano evidenziare
capacità a delinquere) e, soprattutto, il fatto che in un contesto di rilevante
attività d’impresa in epoca immediatamente susseguente al grande sforzo
economico di ripresa nel secondo dopoguerra, e nel quale tutte le componenti
sia politiche che sociali che di categoria, non solo dunque l’industria grande
o piccola, avevano a cuore e privilegiavano problematiche occupazionali e di
sviluppo piuttosto che la sicurezza ambientale o dei luoghi di lavoro, gli
imputati non agivano in disarmonia con tale scarsa sensibilità: il
condizionamento dei tempi può dunque essere considerato elemento che sminuisce
le personali responsabilità consentendo appunto la concessione di attenuanti
generiche alle persone fisiche che dei reati debbono rispondere. Attenuanti che
in forza delle stesse considerazioni possono ritenersi prevalenti sulla
sussistente aggravante di cui al secondo comma dell’art. 589 c.p. contestata.
Ora, la
concessione delle predette attenuanti con giudizio di prevalenza, comporta
immediata declaratoria di estinzione per prescrizione anche per i reati ai
danni di Battaggia Giorgio (deceduto nel 1990), Fiorin Fiorenzo (deceduto nel
gennaio 1997) e Suffogrosso Guido (deceduto nel 1990), riducendosi il termine
prescrizionale massimo ad anni sette e mesi sei, ormai decorso.
Gli imputati Bartalini,
Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte, già individuati dal Tribunale (e sul
punto, non oggetto peraltro di impugnazione alcuna, si richiama e fa propria la
motivazione della sentenza di primo grado) come responsabili (incolpevoli
secondo il Tribunale, ma colpevolmente a giudizio di questa Corte come sopra
motivato), nelle rispettive posizioni di garanzia, delle violazioni ed omissioni
causalmente collegate all’insorgenza, per le alte esposizioni cumulative cui
venivano sottoposti i lavoratori dal 1969 a tutto il 1973, dei riconosciuti
casi di angiosarcoma, vanno dunque dichiarati colpevoli, esclusa come sopra
osservato la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. ed applicato l’art. 41 c.p.,
e condannati per il residuo caso di omicidio colposo ex art. 589, 1° e 2° co.,
c.p., ai danni di Faggian Tullio, deceduto appunto nel 1999 (reato quindi
ancora non prescritto) per angiosarcoma epatico contratto, tenuto conto del
periodo di latenza che per tale patologia, si è ricordato e ben lo ha esposto
il Tribunale nella disamina delle conoscenze scientifiche in materia, può anche
superare i trent’anni, per le alte esposizioni cui veniva sottoposto nei primi
cinque sei anni dall’assunzione (1967), e per quello che interessa in relazione
all’imputazione, dal 1969 a tutto il 1973.
Pertanto,
tenuto conto delle concesse attenuanti generiche, ritenute, come sopra già
esposto, prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 589, 2° co., c.p. mentre le
ulteriori aggravanti contestate sono state escluse, e valutati tutti gli
elementi di cui all’art. 133 c.p. (da un lato la sicura estrema gravità del
fatto: per il contesto in cui avveniva in ambiente lavorativo che dovrebbe
essere vocato a soddisfare esigenze di vita dei lavoratori al riparo da rischi
non consentiti, per le irreparabili conseguenze dannose che ne sono derivate, e
per la colpa certo non lieve degli autori del reato; ma da altro lato la scarsa
capacità a delinquere degli imputati stessi desumibile dai buoni precedenti
penali e dai successivi comportamenti non improntati a spregio delle regole del
vivere civile), si stima equa per gli imputati di pena di anni uno e mesi sei
di reclusione ciascuno (pena base anni due e mesi tre di reclusione, ridotta di
un terzo per le generiche), oltre al pagamento delle spese processuali dei
due gradi di giudizio.
Ritenuto
che gli imputati, considerate le loro condizioni di vita e l’assenza di indici
rivelatori di capacità a delinquere, si asterranno nel futuro dal commettere
altri reati, si concedono loro i benefici della sospensione condizionale della
pena e della non menzione della condanna.
I
medesimi predetti imputati, nonché il responsabile civile Edison S.p.A. in
persona del legale rappresentante pro tempore, vanno conseguentemente
condannati al risarcimento, in solido, dei danni subiti dalle costituite parti
civili prossimi congiunti di Faggian Tullio, da liquidarsi in separata sede,
ove potranno con precisione puntualizzarsi e quantificarsi le singole voci di
danno, la cui sussistenza non può comunque essere posta in dubbio.
Emergono
peraltro in atti con evidenza prove in ordine alla gravità dei danni, morali e
materiali, subiti dai due figli di Faggian Tullio, Stefano, che era ancora
convivente al momento del decesso del genitore, e Alessandro, pur non più
convivente, solo a considerare che entrambi sono portatori di handicap
(sordomuti) e quindi vieppiù possono avere subito sia a livello di sostegno morale
che materiale la perdita del padre; onde si giustifica nei loro confronti
l’assegnazione della complessiva somma di euro 50.000,00 (cinquantamila)
ciascuno, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ex lege; mentre
già la sola considerazione del danno morale consente di assegnare ad analogo
titolo ai fratelli e sorelle costituiti (Faggian Guido, Faggian Guerrino,
Faggian Liliano, Faggian Luciano, Faggian Maria e Faggian Elisa) la somma di
euro 8.000,00 (ottomila) ciascuno.
I predetti imputati ed
il responsabile civile Edison S.p.A. vanno condannati altresì in solido alla
rifusione delle spese di costituzione ed assistenza nel presente giudizio delle
parti civili medesime, che si liquidano in complessivi euro 19.718,30
comprensivi di onorari, diritti, spese, accessori e IVA, come da relativa
parcella.
STRAGE COLPOSA EX
ARTT. 449-422 C.P.
Quanto allo specifico
motivo di gravame avanzato dall’Avvocato dello Stato (sul punto il P.M. non ha
proposto gravame, acquietandosi alla decisione del Tribunale) sulla esclusione
della configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage
colposa secondo appunto l’originaria impostazione accusatoria da ritenersi
punita "dall'articolo 449 in riferimento all' articolo 422 c p",
osserva la Corte che del tutto infondate appaiono le proposte doglianze sopra
analiticamente ricordate, laddove invece insuperabile, e la lamentata
sinteticità sul punto costituisce al contrario motivo di pregio del passo di
sentenza, appare l’argomentazione del
Tribunale secondo la quale il dato testuale dell'articolo 449 c p,
nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di
altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un
richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo,
individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione
di genere " disastro".
Ha individuato
nominativamente l'incendio perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la
prima nella successione delle norme relative ai "disastri" e
costituisce anche il limite iniziale della serie delle disposizioni richiamate.
Ribadisce dunque ancora questa Corte che nessuna rilevanza,
ai fini della configurabilità giuridica di un tale delitto, possono avere le
osservazioni dell’appellante che ritiene ancorabile l’interpretazione proposta
al dato testuale che fa riferimento a tutti “disastri” di cui al capo primo,
titolo VI, libro II c.p. senza alcuna limitazione laddove il legislatore se ha
voluto escludere una qualche previsione lo ha detto espressamente come per la
ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 423bis c.p.; e che sostiene in
astratto la conciliabilità del reato colposo con la previsione di dolo
specifico nel corrispondente delitto doloso; ovvero che sostiene la non
rilevanza ai fini di diversa interpretazione di incongruità nel regime
sanzionatorio che sarebbero frutto non già dell’originale disegno codicistico,
quanto, piuttosto, delle modifiche settoriali di volta in volta apportate,
richiamando d’altra parte l’appellante anche un’ulteriore sviluppo
interpretativo, e cioè la tesi, in dottrina, in ordine alla possibile
qualificazione degli eventi mortali di cui al delitto ex artt. 449 – 422 c.p.
come “condizioni di maggiore punibilità”, che porterebbe a concludere per un
concorso tra l’omicidio colposo plurimo e la realizzazione colposa di una
“strage” sviluppatasi in più eventi, che sarebbe idoneo in quanto tale a
risolvere ogni argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio; e che
ancora si richiama allo sviluppo non solo
interpretativo ma anche normativo che il bene incolumità pubblica ha
conosciuto nel corso del tempo, potendosi oggi ritenere che tale nozione sia
idonea ad abbracciare interessi rilevanti e strettamente connessi quali la
salubrità ambientale e la salute pubblica, soprattutto laddove, come nel caso
di specie, “atti tali da porre in pericolo” (ex art. 422) gli interessi
suddetti si accumulino nel corso del tempo in un progressivo acutizzarsi dei
profili offensivi ed in un conclusivo materializzarsi, accanto ad un evento di
pericolo ed al corrispondente disvalore, di un evento di danno (morte di una o
più persone, più eventi di morte, nonché ancora alla definizione
giurisprudenziale del “disastro”, la cui ampiezza si rivela del tutto conciliabile
con le caratteristiche della nuova fattispecie colposa generata dalla
combinazione delle suddette norme (art. 449 e 422 cp).
Ritiene invero la Corte che il tutto resta superato dalla assorbente
considerazione che la previsione di cui all’art. 449 cp non riguarda ogni
delitto di cui al capo primo, titolo VI, libro II c.p. bensì solo i delitti di
danno nello stesso capo considerati, e nello specifico appunto le ipotesi, e
solo, di “disastro”.
Ecco perché nell’indicazione si cita l’incendio (che segue
immediatamente la previsione del delitto di strage), che ben può essere
considerato sistematicamente in tale capo capofila degli altri disastri
previsti. Il delitto di strage non è reato di danno, bensì reato di
attentato che si consuma, una volta
realizzata la condotta tipica (compimento di atti aventi obiettivamente
l’idoneità a creare pericolo alla vita e alla integrità fisica della
collettività) indipendentemente dal cagionamento effettivo della morte o
lesione di alcuno -ed ecco perché neppure è configurabile il tentativo in
quanto già la costruzione del delitto consumato risponde ad esigenza di tutela
anticipata dell’interesse protetto-, indipendentemente cioè dal concretizzarsi
di un effettivo danno del quale, nel concetto stesso di disastro oltre che
ovviamente nelle, del tutto coerenti con tale concetto, ipotesi di disastri
tipici enumerati dal legislatore, non si può prescindere.
La stessa sentenza citata dall’appellante (la sentenza del
16/07/1965, n.949, della Sezione IV della Corte di Cassazione), ricorda come la
nozione di disastro, in relazione ai delitti contro l’incolumità pubblica,
implica un evento grave e complesso, che colpisca le persone e le cose. E’
questo, in effetti, l’elemento fattuale imprescindibile, sul quale poi
innescare la valutazione della suscettibilità a mettere in pericolo la pubblica
incolumità. Ora è chiaro che la strage può realizzarsi anche attraverso una
condotta che di per sé costituirebbe disastro (il crollo di un palazzo minato
che si sa essere abitato da svariate persone –ed è il dolo specifico l’elemento
in più specializzante) ma non necessariamente (già la mera condotta di minare
il palazzo che si sa abitato e con il fine di uccidere gli occupanti, integra
il delitto di cui all’art. 422 cp). Nella strage il macroevento di danno è
eventuale, nel disastro essenziale. E dunque nulla centra la strage con il
reato colposo costruito dall’art. 449 c.p. che nell’elemento oggettivo richiede
imprescindibilmente il danno proprio del “disastro”. Sul punto va dunque
confermata l’impugnata sentenza.
IL REATO DI CUI ALL’ART. 437, 1° e 2° co., C.P..
Largo spazio nei motivi di appello hanno dato sia il
P.M. che le Parti Civili all’esame della fattispecie
di reato prevista dall’art. 437, 1° e 2° co., c.p., lamentando erronea
interpretazione giuridica della norma da parte del Tribunale, ed evidenziando
censure sia in ordine all’asserita insussistenza del reato sul piano oggettivo
che in ordine all’asserita insussistenza del reato sul piano soggettivo. I
motivi sono comuni pressoché a tutti gli appellanti, ma il P.M. li sviluppa
ulteriormente in discussione richiamando a sostegno delle proprie tesi e
conclusioni copiosa giurisprudenza.
Osserva preliminarmente la Corte che, per quanto di
poca pregnanza in ordine alla problematica su tale figura criminosa, che di poi
si affronterà sia nella sua ricostruzione astratta sia nella verifica di
integrazione nella specie, frutto di mera svista nella lettura del dispositivo
di primo grado è la doglianza del P.M., seguita anche da altre Parti Civili,
relativa a presunta omessa statuizione in ordine al reato in oggetto per il
periodo precedente al 1974 pure compreso nell’imputazione, asserendosi appunto
che il Tribunale dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437
(omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per
condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".
In
realtà il Tribunale non si è dimenticato di tale periodo, ma ha dichiarato insussistente
detto reato senza limitazioni o precisazioni temporali (assolve tutti gli
imputati di cui al capo primo dai reati di "lesioni personali
colpose" e di "omicidio colposo" riferiti alle ulteriori persone
offese, nonché dai reati di "omissione dolosa di cautele", di
"strage colposa" e di "disastro innominato colposo"
per condotte tenute in epoca successiva
all'anno 1973 perché il fatto non sussiste), cogliendosi chiaramente che, nel contesto
del capo del dispositivo in cui si assolve per insussistenza del fatto dai
diversi reati specificati, la precisazione "per condotte tenute in
un'epoca successiva al 1973” si riferisce al solo reato di “disastro innominato
colposo”, ed essendo vieppiù chiaro questo se si pone mente che in un capo
precedente del dispositivo il Tribunale aveva adottato diversa formula
assolutoria proprio per il reato di "disastro innominato colposo" per
periodo fino al 1973.
Tutto
ciò, già chiaro dal dispositivo, è poi avvalorato dalla motivazione dalla quale
non può sorgere possibilità di equivoco alcuno sul fatto che il reato in
oggetto sia stato ritenuto insussistente per tutto il periodo in contestazione;
così come d’altra parte anche il reato di "strage colposa", sia pure
questo per motivazioni che attengono alla non configurabilità di una simile
figura nell’ordinamento positivo, che se si seguisse invece la lettura degli
appellanti dovrebbe pure essere stato escluso solo per il periodo successivo al
1973: chiaro che non è così e che la lettura è quella sopra precisata.
Parimenti,
frutto di svista deve ritenersi la doglianza del P.M per la quale il Tribunale
avrebbe immotivatamente assolto dalle contravvenzioni che si dice contestate
nel primo capo d’imputazione e riferite alla normativa antinfortunistica
(DD.P.R. 547/55 e 303/56). In realtà non vi è alcuna statuizione in merito a
dette contravvenzioni, né vi doveva essere in quanto nel primo capo
d’imputazione non formano oggetto di autonoma contestazione ma fungono da
concretizzazione delle condotte prevenzionali omesse che si ritengono
oggettivamente integrare la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. e da parametro
di colpa per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose.
Ancora preliminarmente
giova pure precisare che neppure può ritenersi meramente conseguenziale la
sussistenza del reato di "omissione dolosa di cautele" al fatto che
siano stati ritenuti sussistenti dei reati di lesioni colpose per i quali il
Tribunale aveva applicato la prescrizione; la verifica dev’essere sempre quella
consueta, scolastica: è stato integrato nella sua materialità il reato?
Sussiste il richiesto elemento psicologico in capo agli imputati eventualmente
responsabili della materiale violazione? E se proprio si vuole partire dai
reati di lesioni personali ritenuti sussistenti, ma a tal punto, per quanto
ritenuto da questa Corte, anche dai reati di omicidio colposo per i decessi
dovuti ad angiosarcoma epatico oggettivamente e psicologicamente imputabili
agli imputati in posizione di garanzia fino al 1973, ci si deve poi domandare
se detti eventi lesivi siano causalmente collegabili ad una violazione
inquadrabile nella previsione di cui al primo comma dell’art. 437 c.p., ed
ancora se detta eventuale violazione sia stata posta in essere dolosamente.
Fin d’ora si rimarca infatti che una eventuale
violazione pur inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 437, 1° co.,
c.p., se posta in essere per mera colpa generica o specifica, potrà portare,
ove si collochi nella catena causale che ha portato all’infortunio, a mera
affermazione di responsabilità per il reato colposo che ne è conseguito (ad
esempio, lesione o omicidio colposo), ma non ad affermazione di penale
responsabilità per il concorrente reato di "omissione dolosa di
cautele" che richiede appunto il
dolo nei termini che di seguito si preciseranno.
Ora, attese le doglianze
relative già alla ricostruzione astratta della fattispecie di reato che ci
interessa, sia nella statuizione del primo comma che nella statuizione del
secondo comma, è bene previamente delineare i contorni astratti della
fattispecie. Brevemente, ovviamente, tanto per far intendere e consentire il
controllo (si rammentino i proponimenti di argomentare solo ai fini di far
conoscere il procedimento logico decisionale del giudicante)
sull’interpretazione della norma che dà questa Corte in relazione a quelli che
sono i punti interpretativi e ricostruttivi della fattispecie proposti dagli
appellanti e, in termini diversi, dalle difese degli imputati.
Già nell’esposizione dei
motivi di appello e delle controdeduzioni difensive si sono richiamate le tesi
delle parti e specifiche ricostruzioni della fattispecie proposte. Giova ora
sinteticamente ricordare che gli appellanti sostanzialmente lamentano, e lo
hanno ribadito anche in discussione, che il Tribunale, sul piano oggettivo,
nella ricostruzione della fattispecie ignora la norma di cui all’art. 2087 c.c.
e le fondamentali norme speciali in materia di sicurezza ed igiene dei luoghi
di lavoro che sono state contestate agli imputati, saltando a piè pari il loro
indispensabile collegamento logico e giuridico con l’art. 437 c.p., finendo
così con lo svuotare ingiustificatamente la norma penale dell’essenziale suo
fondamento precettivo e sanzionatorio, e giungendo arbitrariamente a
restringerne l’operatività interpretando riduttivamente, contro le prevalenti
dottrina e giurisprudenza, i concetti di “impianti” e “apparecchi”, oltre ad
operare ancora ingiustificata selezione delle violazioni ritenendo rilevanti
solo quelle “aventi particolare serietà”.
Sul piano soggettivo
avrebbe invece ignorato il Tribunale i molteplici elementi probatori
dimostrativi della consapevolezza da parte degli imputati non solo
dell’esistenza delle norme antinfortunistiche, ma delle stesse conoscenze
scientifiche acquisite sugli effetti tossici e cancerogeni del CVM-PVC e delle
conoscenze tecnologiche destinate a prevenire gli effetti lesivi della sostanza
chimica.
Nel richiamarsi al capo d’imputazione nel
quale tutte le disposizioni normative in esso previste sarebbero riferite
all’art. 437 c.p., costituendone, le singole violazioni di dette norme,
l’oggetto dell’imputazione penale, gli appellanti, partendo dal generale dovere
di sicurezza che incombe ex art. 2087 c.c. ed in forza dei DD.P.R. 547/55 e
303/56 sul datore di lavoro, propongono in definitiva, come rimarcato
ovviamente contestandola da parte della difesa degli imputati,
un’interpretazione dell’art. 437 come fattispecie omnicomprensiva, che sanziona
come delitto qualsiasi violazione dolosa del dovere di sicurezza, sotto
qualsiasi aspetto.
Una tale
interpretazione, che prescinde dalla specificazione delle violazioni
incriminate operata dalla norma in esame, pur esse ovviamente razionalmente
aventi origine nel generale dovere di sicurezza scaturente dalla cogente
disposizione di cui all’art. 2087 c.c., non appare corretta.
Ritiene infatti la Corte
che se può ritenersi che una qualsivoglia violazione al dovere di sicurezza,
tipizzata o genericamente ancorabile ai doveri di diligenza e prudenza, può,
oltre che eventualmente integrare una specifica contravvenzione, costituire
parametro di valutazione della colpa ove si verifichi nell’ambiente di lavoro
un evento lesivo eziologicamente attribuibile ad azioni od omissioni del datore
di lavoro, con chiarezza va pure affermato che non tutte le violazioni del
dovere di sicurezza rientrano nel tipo di delitto specificamente profilato
dall’art. 437 CP; vi rientrano solo quelle concernenti specificamente la
collocazione di apparecchiature prevenzionali, così come emerge dalla stessa
copiosa giurisprudenza citata dal P.M. e dall’Avvocato dello Stato (della quale
ci si esime da analitico esame al riguardo essendo sufficiente evidenziare come
l’omissione di efficienti impianti o apparecchiature prevezionali sia sempre il
presupposto degli ulteriori concetti sviluppati), e così come correttamente
sostenuto dalla difesa degli imputati, che condivisibilmente osserva come la
selezione operata dalla norma penale corrisponde a criteri di tassatività e di
sussidiarietà, e che è stata operata dal legislatore in modo esplicito, in
quanto l'art. 437 cp è l'unica figura di delitto doloso appartenente al sistema
di tutela della sicurezza del lavoro, e quella che comporta le pene più gravi.
Alla norma è dunque
assegnata una funzione di più severa repressione di violazioni del dovere di
sicurezza particolarmente gravi, selezionate mediante una duplice
caratterizzazione del fatto punibile. Sul piano soggettivo, la responsabilità è
ancorata al dolo (la colpa non basta); sul piano obiettivo vengono in rilievo
violazioni del dovere di sicurezza specificamente tipizzate in ragione di una
loro particolare gravità”.
La particolare gravità è
quindi il criterio che avrebbe orientato il legislatore nell’individuare le
specifiche violazioni così sanzionate, non certo il criterio che deve
soggettivamente seguire l’interprete nella valutazione delle violazioni
eventualmente ravvisabili.
L’interprete deve solo
verificare che trattasi delle violazioni tipizzate dal legislatore nella fattispecie
di cui all’art. 437 c.p., e cioè l’omessa collocazione, che dev’essere dolosa,
di impianti, apparecchi o segnali (e per capire di che cosa si tratta non può
prescindersi dal significato letterale dei termini stessi) prevenzionali, cioè
che abbiano, anche se non esclusiva, finalità (destinati a) di prevenire
disastri o infortuni; laddove poi per disastro deve intendersi la figura
delittuosa, tipica o innominata, individuata dallo stesso legislatore nel
medesimo capo I, titolo VI, libro II del Codice Penale ove è pure inserito
l’art. 437, e quindi un macroevento di danno con pericolo per la pubblica
incolumità; e per infortunio deve intendersi, così come sul punto
condivisibilmente sostenuto dal P.M. sulla scorta di ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale che dà corpo alla nozione di infortunio dettata
dall’art. 2 T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali approvato con il DPR n. 1124
del 30/6/1965, un qualsiasi fatto lesivo dovuto a causa violenta in occasione
di lavoro; non solo quindi i fatti traumatici dovuti all’azione immediata di
agenti meccanico-fisici, in quanto “il concetto di causa violenta” deve
intendersi “comprensivo di tutte le possibili forme di lesività tali da
produrre un danno al lavoratore, e quindi quelle, ad esempio, bariche,
elettriche, radioattive, chimiche, eccetera”, onde “rientrano tra gli infortuni
le ‘malattie-infortunio’, così intendendosi le sindromi morbose imputabili alla
azione lesiva di agenti diversi da quelli meccanico-fisici, purchè insorte in
occasione di lavoro”. Vedi Cass., 9/7/1990, Chili, che per prima ha così
approfondito il concetto di infortunio, seguita poi da ulteriori pronunce della
Suprema Corte in tal senso – vedi Sez. 1^ del 20.11.98 nr. 350 imp. Mantovani, nonchè la recente
sentenza del 6.2.2002 Sez. 1^, imp.
Capogrosso con la quale ancora viene spiegato in maniera molto chiara il
percorso logico per cui si arriva a dire che le malattie-infortunio coincidono,
ai fini del 437, con il concetto di infortunio rammentando che la
“giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che il concetto di
infortunio va identificato con riferimento alle cause e modalità di
determinazione di sindromi morbose e
non anche alle caratteristiche di tali sindromi, istantanee, permanenti o a
insorgenza graduale e differita, elaborando la categoria di
“malattia-infortunio” distinta da quella di malattia professionale “tout
court”- mentre non risulta una successiva contrastante interpretazione.
La stessa difesa tecnica dell’imputato Smai,
pur analiticamente commentando la detta sentenza Chili del 9/7/1990, evidenzia
contrasti dottrinari, mentre a livello giurisprudenziali ricorda contrasti
precedenti alla sentenza Chili, ma nessuna contrastante pronuncia successiva.
Tanto precisato in
diritto, resta ovviamente da individuare se nella specie risultino omessi
nell’ambito dei reparti lavorativi del Petrolchimico di Porto Marghera
impianti, apparecchi o segnali prevenzionali, o meglio, dovendosi ovviamente
avere a riferimento l’imputazione, quelli così qualificabili tra le
contestazioni; poi se tali eventuali omissioni abbiano determinato disastri o
infortuni nel senso sopra specificato; infine se le stesse omissioni, non
l’evento lesivo eventualmente derivatone, siano dolose.
Al riguardo si osserva
intanto che, se non condivisibile in quanto eccessivamente restrittiva è la
posizione del Tribunale che ritiene che la condotta di omessa collocazione
possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui
collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione
di disastri o d’infortuni, ritenendosi al contrario sufficiente, e lo riconosce
la stessa difesa Smai, per porre i presupposti dell’obbligo di attivarsi, il
dovere generale di sicurezza, nella parte, si intende, in cui tale dovere si
specifichi come dovere di collocazione di impianti, apparecchi, segnali,
ritenendosi quindi rilevante qualsiasi omissione di apparecchiature
prevenzionali, quindi necessarie (pur se non individuata la condotta in
specifica norma antinfortunistica che già sanziona a titolo contravvenzionale
la violazione) per evitare infortuni sul lavoro, anche se individuali, non
occorrendo che l’omissione concerna apparecchi, impianti e segnali di
importanza fondamentale per la sicurezza nell’ambiente di lavoro, può comunque
seguirsi il Tribunale relativamente al punto di partenza interpretativo là dove
afferma che sotto il profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua
delle installazioni caratterizzate da stabilità, così come il concetto di
“apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica,
diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del resto,
correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente
ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale.
Non coseguenziale appare però il Tribunale nella specifica
individuazione, rispetto al caso di specie ed alle concrete violazioni
contestate dal P.M. come omissioni di cautele prevenzionali, di cosa possa
essere considerato apparecchio o impianto ai fini di cui sopra. Se infatti è
vero che nel variegato elenco degli addebiti contestati la quasi totalità sono
irrilevanti ai fini dell’art. 437 (si condividono in particolare le conclusioni
del Tribunale per quanto attiene agli addebiti di omessa sorveglianza
sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa
adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti
procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di
omessa separazione delle lavorazioni insalubri, trattandosi di addebiti
relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da
collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed
antinfortunistica), errata appare peraltro la conclusione del Tribunale là dove
esclude possano essere considerati apparecchi o impianti prevenzionali i
dispositivi di protezione individuale e le parti d’impianto (valvole, rubinetti)
che si dice funzionali al ciclo produttivo laddove la fattispecie di cui
all’art. 437 c.p. si riferirebbe a strumenti aventi specificamente ed
unicamente la destinazione alla
sicurezza”.
Ed invero, al riguardo basti ricordare quanto
già osservato e reiteratamente affermato anche dalla Suprema Corte (vedi
le copiose produzioni di massime effettuate dal P.M.), e cioè che è rilevante
qualsiasi omissione di apparecchiature prevenzionali, quindi necessarie per
evitare infortuni sul lavoro, anche se individuali, non occorrendo che
l’omissione concerna apparecchi, impianti e segnali di importanza fondamentale
per la sicurezza nell’ambiente di lavoro. Non si vede dunque come possano
escludersi in via generale gli strumenti di protezione individuale, senza badare
alla natura dello strumento e cioè se possa magari costituire proprio un
apparecchio, quale può anche essere una maschera di protezione dai gas.
E non si vede come possano escludersi installazioni
impiantistiche, dotate dunque di stabilità, solo perché facenti parte di più
complessi impianti produttivi, quando comunque assolvano a finalità
prevenzionali. Nello sforzo riduttivo della fattispecie di cui all’art. 437 cp
il Tribunale pretende infatti un requisito, l’esclusiva destinazione dello
strumento alla sicurezza, che in alcun modo può ricavarsi dalla norma, che
anzi, se si pone mente alla ratio e finalità, non può subire una tale
limitazione. Quello che è necessario accertare è che comunque l’impianto o
parte di impianto, pur se funzionale anche ad altre esigenze, sia altresì di
fatto rilevante nella prevenzione di infortuni sul lavoro. Ed allora non si
vede come possano escludersi le parti di impianto, valvole, rubinetti e tenute,
che avevano anche la funzione di (e quindi possono anche ritenersi destinati a)
impedire fuoriuscite di gas, laddove il rischio specifico era proprio quello di
diffusione nell’ambiente di lavoro del gas (si voglia parlare di esplosività,
intossicazione cronica o acuta o di quant’altro di nocivo ne poteva derivare).
Non è ben comprensibile poi il perché il Tribunale escluda
anche gli strumenti di monitoraggio dal novero di strumenti prevenzionali (dice
che l’omessa collocazione di tali strumenti “non appare” rientrarvi,
abbandonando comunque la questione perché “in ogni caso, anche a ritenere che i
gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature summenzionate,
… i medesimi sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli
reparti, in termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata
a controllare le singole zone di lavoro”). In realtà, ritiene questa Corte, una
volta chiaro che nella tipizzazione
dei presupposti dell’integrazione della fattispecie oggettiva di cui all’art.
437 c.p. si ha riguardo a dispositivi ‘di sicurezza’, nel senso che, si cita
ancora la difesa Smai, l’obbligo di collocarli è legato a specifiche situazioni
di rischio, nelle quali l’apprestamento di un dato dispositivo costituisca
l’adempimento di un preciso ‘dovere di sicurezza’, da adempiere hic et nunc, in vista della prevenzione di dati eventi
incidentali, evidente che assolvono a tale funzione, e quindi vanno considerati
ricompresi nel novero degli strumenti considerati dalla norma in esame, gli
strumenti di monitoraggio, costituiti appunto da specifiche apparecchiature in
più stabilmente collegati in un vero e proprio impianto dotato di stabilità.
D’altra parte basti ricordare che nessuno dubita della
finalità prevenzionale di tali impianti una volta conclamata la pericolosità
della diffusione nell’ambiente di lavoro del gas oggetto di causa e quindi la
necessità di monitorare l’ambiente stesso per prendere alla bisogna le
iniziative del caso, tanto che ampiamente si controverte in processo se gli
impianti poi installati dopo il 1973 siano idonei o meno allo scopo.
Dunque, ben separato il concetto se piena consapevolezza di
tali finalità prevenzionali soddisfabili con detti impianti sussistesse, e
magari da quando può ritenersi dovesse sussistere con piena coscienza, concetto
che attiene alla sussistenza dell’elemento psicologico richiesto, l’oggettiva
riferibilità, in relazione alla specificità dei rischi di cui all’ambiente di
lavoro di cui trattasi, dell’omessa collocazione di tali strumenti alla
previsione di cui alla norma sanzionatrice in oggetto è da affermare con
certezza. Non chiara ancora è la mancata considerazione da parte del Tribunale
degli impianti di aspirazione, che pacificamente debbono ricomprendersi nella
previsione di cui all’art. 437 c.p.: sembra in realtà che l’esclusione in
questo caso sia in fatto, ritenendosi da parte del primo giudice che detti
impianti in realtà sussistessero.
Ma una tale conclusione è in contrasto con le risultanze
processuali, sia testimoniali (quasi tutti i testi escussi sul punto –e vedi le
corrette citazioni operate dal P.M. nei motivi di appello- hanno affermato che
almeno per quanto riguarda il periodo fino a tutti gli anni settanta gli
ambienti di lavoro erano interessati da un inferno di polvere per la
lavorazione del PVC), sia documentali (le stesse commesse pur analizzate dal
Tribunale evidenziano che interventi concernenti la collocazione di cappe di
aspirazione venivano posti in essere a partire da metà degli anni settanta
–vedi la relativa documentazione e la stessa analitica disamina fatta dalla difesa
Diaz).
Ora, precisato quanto sopra, è agevole concludere
relativamente al caso di specie, che tra le violazioni contestate dal P.M. come
integranti l’oggettivo precetto di cui all’art. 437 c.p., vengono in rilievo
senz’altro le eventuali omesse, ed ovviamente poi da determinare fino a quando
omesse, collocazioni di apparecchiature di protezione individuale quali le
maschere da utilizzare da parte degli esposti in situazioni di allarme o in
lavorazioni di per sé rischiose (quali l’ingresso in autoclave), l’omessa
collocazione di idonei parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e
tenute) aventi altresì destinazione prevenzionale per la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente,
l’omessa collocazione di idoneo impianto di monitoraggio della concentrazione
del gas nell’ambiente di lavoro, l’omessa collocazione di impianti di
aspirazione. Per le ulteriori violazioni contestate valgano le considerazioni
sopra svolte che le escludono, sul punto condividendosi il giudizio del
Tribunale, dalle condotte tipizzate dall’art. 437 c.p.
Ora, emerge con evidenza in atti, ed al riguardo si richiama
la ricostruzione operata dal Tribunale non contestata dalla difesa degli
imputati e comunque rispondente alle evidenze processuali ed avvalorata da tutta
la serie di commesse ed interventi specifici su tali problematiche,
analiticamente ricordate dal Tribunale ma anche dalla stessa difesa di parte
Montedison (vedi in particolare memorie della difesa dell’imputato Diaz), che
solo a partire dal 1974 con una certa efficacia hanno ovviato alle carenze del
periodo precedente, che almeno fino a tutto il 1973 i suddetti strumenti
prevenzionali non risultano predisposti in modo assoluto o almeno in modo
idoneo allo scopo.
Il fatto integra oggettivamente la fattispecie di cui
all’art. 437, 1° co., c.p., ma riveste altresì efficienza causale in merito
agli infortuni, decessi per angiosarcoma e lesioni personali per epatopatie,
sindromi di Raynaud ed acrosteolisi già sopra ritenute causalmente collegate
alle alte esposizioni a CVM perduranti fino a tutto il 1973, alte esposizioni
favorite appunto nell’azione dannosa
nei confronti dei singoli specifici lavoratori interessati, dalla mancanza dei
suddetti impianti o apparecchi prevenzionali.
E dunque il fatto integra
altresì, sempre negli elementi materiali, la previsione di cui al secondo comma
della norma incriminatrice medesima, in via concorrente, come da consolidato
orientamento giurisprudenziale e come la diversità del bene protetto legittima,
con i reati di omicidio colposo e di lesione personale colposa ritenuti.
Ma se per i detti reati di cui agli art. 589 e 590 c.p.
l’indagine sull’elemento psicologico si è fermata alla verifica della
sussistenza, ritenuta, della colpa, il reato che ora ci occupa richiede
necessariamente in capo agli imputati il dolo. Come infatti già osservato,
diverso il concetto se piena consapevolezza di tali finalità prevenzionali
soddisfabili con detti impianti sussistesse, e magari da quando può ritenersi
dovesse sussistere con piena coscienza, rispetto invece alla sufficienza, ai
fini dei reati meramente colposi, di un comportamento che si ritiene
imprudente, negligente o non rispettoso di specifiche prescrizioni cautelari di
fronte ad un rischio che si pretende il datore di lavoro deve cogliere e
considerare atteggiandosi di conseguenza.
Al riguardo, quanto appunto
al dolo richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 437 c.p., basti ricordare
come la costante giurisprudenza della Suprema Corte (si vedano per tutte le
sentenze Tartaglione, Martini ed altre ancora citate e fornite in atti dal
P.M.) in modo chiaro affermi, principio non contestato da alcuna parte
processuale, che: “per la sussistenza del dolo non è affatto necessaria, la
provata intenzione di arrecare danno ai dipendenti, ma è sufficiente la coscienza e volontà di omettere le
cautele, accompagnata dalla conoscenza della destinazione alla prevenzione dei
dispositivi e attività omesse”.
Occorre dunque, ai fini
della verifica della sussistenza dello stato psicologico richiesto dal reato
(il dolo), che in capo all’imputato possa ravvisarsi, come ben sintetizzato
dalla stessa difesa Smai, a) la
consapevolezza dei presupposti fattuali dell’obbligo, cioè d’una specifica
situazione di rischio non schermata; b) la conseguente consapevole volontà di
astenersi dal collocare impianti o apparecchi o segnali, positivamente
rappresentati come necessari a neutralizzare la conosciuta situazione di
rischio.
Ora, pur considerando
tutte le difficoltà che probatoriamente possono incontrarsi da parte
dell’accusa nel fornire in relazione alla condotta di ciascun imputato gli
indici rivelatori esterni necessari per valutare lo stato psicologico vieppiù
nei reati omissivi, nella specie si vede come già lo sforzo argomentativo degli
appellanti, sia P.M. che Parti Civili,
è fermo alla indicazione degli elementi, conoscenza della tossicità
della sostanza e poi della cancerogenicità del CVM fin dal 1969 ed esistenza di
specifica normativa che imponeva determinati comportamenti prevenzionali ancorabili
a tali rischi, desumendone poi semplicemente la doverosità dell’intervento.
Afferma infatti il P.M.:
“Il processo di primo grado ha provato che gli imputati erano consapevoli della
situazione di grave pericolo in cui versava lo stabilimento Petrolchimico di
Porto Marghera, una situazione dunque affatto rispondente alle esigenze di
tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, in ragione della ormai
acclarata e dimostrata pericolosità del CVM-PVC. A fronte di questa conoscenza
avrebbero dovuto attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di
predisporre i mezzi di tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva;
eliminando tutte le situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o
bisognosi di manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava;
predisponendo mezzi e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come
quelli di cui dà ampia descrizione l’imputazione ad essi ascritta.
Tutto questo non è stato
fatto”. Ma, osserva la Corte, mentre le omissioni in relazione ad un dovere di
intervento e specificamente di
collocazione di impianti apparecchi o segnali prevenzionali attengono alla
condotta oggettivamente integrante il reato che ci occupa e magari causalmente
collegabile anche ad ulteriori eventi delittuosi che ne possano derivare, e
mentre anche la sola conoscenza di una situazione di pericolo che imporrebbe
una tale attivazione ancora non disvela il dolo (potendo l’inerzia attribuirsi
a mera negligenza, a concreta, anche se colpevole, non percezione di quanto
occorre fare per ovviare al pericolo), ciò che occorre ben individuare in capo
a ciascun imputato è la rappresentazione del dovere di attivarsi collocando i
mezzi di protezione che specificamente si impongono e di converso la volontà di
astenersi da tale condotta.
Nella specie in realtà
l’accusa pubblica e privata largo spazio e significato danno, ai fini proprio
della dimostrazione della volontarietà delle omissioni, al c.d. “patto di segretezza” che avrebbe
vincolato le industrie chimiche a livello internazionale, e la Montedison in
prima fila, per occultare le conoscenze sugli effetti cancerogeni
dell’esposizione a CVM. In realtà, se non può ritenersi come ha fatto il
Tribunale che tale “patto” non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare
i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo
tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare
il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi
difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate, va
peraltro osservato che eccessiva importanza probatoria, ai fini della
valutazione dei comportamenti degli imputati e dei loro stati psicologici, è
stata data alla circostanza dagli appellanti che hanno forzato, travisandolo,
il significato stesso di tale “patto”.
Intanto, emerge chiaro
dalla documentazione fornita dal P.M.
al riguardo, non di un vero “patto” si può parlare, inteso nel senso di
accordo per tenere segrete conoscenze note solo all’interno dell’industria,
bensì sollecitazioni e risoluzioni, certo determinate da preoccupazioni
produttive e di mercato, di non allarmare, o pur se si vuole benevolmente, di
non allarmismo, dopo le ricerche ed esperimenti Viola ed i primi dati Maltoni
sui possibili effetti cancerogeni dell’esposizione a CVM. Ma i dati Viola, già
esposti in pubblici congressi, non erano certo di dominio esclusivo
dell’industria chimica, mentre gli ulteriori studi specifici, commissionati
proprio da Montedison a Maltoni, nel periodo interessato dalla documentazione
che fa riferimento a segretezza sulla questione, non erano definitivi.
L’obiettivo finale non era certo dunque
quello di tenere segrete le conoscenze che si andavano approfondendo, essendo
d’altra parte comprovato in atti dalla testimonianza di Maltoni che nessun
vincolo di segretezza la committente aveva imposto allo studioso che poi,
difatti, puntualmente rendeva pubblici i suoi studi pur prima di definitiva
conclusione. Bisogna allora dare il giusto significato e valore al c.d. patto
di segretezza che era quello, nell’allarme insorto nell’industria chimica in
conseguenza dei primi dati Viola circa gli effetti cancerogeni del CVM e dello
svilupparsi degli studi Maltoni che avvaloravano tali conclusioni con
riferimento all’uomo, di non creare, fintanto che il dato non fosse
definitivamente acclarato dal punto di vista scientifico (ed in verità la
falsificazione di ipotesi non sufficientemente sperimentate ed approfondite è
circostanza non rara nel mondo scientifico), allarmismo, certo avendosi a cuore
le esigenze della produzione e del mercato e la necessità a tali fini di
sfruttare il tempo che gli esperimenti ancora in corso lasciavano per
prepararsi ad ormai, ove appunto confermate le ipotesi, ineludibili interventi
di sicurezza senza vantaggi concorrenziali per l’una o l’altra impresa.
Tutto ciò vale ai fini
della valutazione della colpevolezza o meno del comportamento tenuto (e lo si è
fatto, nell’analisi dell’elemento psicologico dei reati colposi), ma non se ne
può dedurre consapevole volontà di omettere gli specifici interventi
prevenzionali sopra individuati come integranti oggettivamente la fattispecie
incriminatrice in esame. Difettano dunque idonei indici rivelatori esterni dai
quali dedurre che, non solo conosciuta una situazione di pericolo, e non solo
rappresentata la necessità di specifico intervento precauzionale consistente in
collocazione di impianti, apparecchi o segnali, vi sia stata poi cosciente
volontà da parte di ciascun imputato di omettere un tale intervento. Omissioni
che appaiono invece frutto del colpevole atteggiarsi dei vertici industriali in
quei tempi laddove rischi che pur si paventavano, anche se non delineabili
ancora con precisione, non venivano precauzionalmente schermati per l’incuria
(ma l’incuria è negligenza, è colpa) verso tali tematiche: la sicurezza non era
primario obbiettivo e neppure veniva rivendicata con decisione dalle stesse
organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Ritiene dunque la Corte
che, non sufficiente affermare, per ritenere il dolo, che le misure cautelative
necessarie non sono state adottate “intenzionalmente”, “perché non è stato
voluto”, se non si indicano poi idonei elementi anche solo indizianti, in base
ai quali svolgere una qualsivoglia argomentazione probatoria riferita agli
specifici imputati che ricoprivano posizioni di garanzia nel periodo
interessato dalle suddette omissioni (dal 1969 a tutto il 1973), e cioè, come
sopra già precisato, gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio
Monforte che dunque, parzialmente riformandosi sul punto l’impugnata sentenza,
vanno assolti dal reato di omissione dolosa di cautele da cui sono derivati
infortuni ex art. 437, 1° e 2° co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il
1973, perché il fatto non costituisce reato.
Quanto al periodo
successivo pure in contestazione, va intanto osservato che fin dai primi
interventi posti in essere a partire dal 1974, quando era ormai conclamata la
cancerogenicità del CVM e quindi il presupposto fattuale (in realtà già prima
sussistente e conosciuto almeno per quanto concerneva gli effetti nocivi dovuti
alla tossicità della sostanza) che rendeva impellenti, non procrastinabili
specifici interventi prevenzionali con piena consapevolezza non più schermata a
livello decisorio da andazzi e negligenze frutto di scarsa coscienza dei doveri
di sicurezza, si provvide intanto con tempestività a munire gli ambienti di
lavoro di impianti di monitoraggio delle concentrazioni di CVM nell’aria.
Subito, nel 1974, il sistema
a pipettoni, poi e definitivamente dal 1975, il sistema di monitoraggio
sequenziale mediante gascromatografi relativamente al quale il Tribunale, con
giudizio che integralmente questa Corte fa proprio per essere fondato su esatta
ricostruzione delle relative evidenze processuali e che non appare scalfito
dalle doglianze sul punto proposte dagli appellanti, ha riconosciuto:
-
che il sistema di monitoraggio sequenziale mediante gascromatografo, con sistema pluricampanelle, installato nei reparti CV
del Petrolchimico di Porto Marghera, era
del tutto coerente con la disciplina di cui al DPR 962/1982, la quale
prevedeva espressamente un monitoraggio mediante gascromatografo, di zona, che analizza
sequenzialmente i campioni provenienti dalle varie linee nel tempo massimo di
20' (p. 425s.); in particolare,
l’opzione per il sistema pluricampanelle è
del tutto coerente con la norma legislativa per un monitoraggio d’area;
- che il
sistema installato era del tutto rispondente a quanto prescritto dalla normativa
anche in termini di copertura sia
spaziale (le sonde coprivano l’intero reparto produttivo) sia temporale
(l’effettuazione di analisi ogni 20 minuti è in accordo con quanto previsto
dalla normativa per il metodo permanente sequenziale);
- che Il
sistema era senz’altro idoneo ad assicurare gli obiettivi posti dalla
normativa, cioè: a) stimare il livello di esposizione al CVM degli operai
attraverso il monitoraggio della concentrazione di CVM in ambiente di
lavoro; b) evidenziare eventuali aumenti anormali di concentrazione di CVM
al fine di mettere in atto le idonee
misure di protezione degli operatori e procedere all’identificazione
delle cause ed alla rimozione della perdita.
- che le
direttive tecniche specificate dallo stesso DPR 962/19882 (numero di linee
asservite al gascromatografo, durata dell’analisi, sensibilità analitica,
frequenza di campionamento) appaiono ben soddisfatte dall’impianto di
monitoraggio presente presso il petrolchimico di Porto Marghera;
- che
l’impianto è stato complessivamente mantenuto in buono stato di efficienza (p.
438);
- che le linee di campionamento
“hanno un comportamento passivo sul campione, non alterandone
significativamente la qualità: ciò che viene campionato dalle campanelle, viene
misurato correttamente” (p. 438);
- che,
pertanto, il sistema è stato in grado di “evidenziare i dati espositivi
realmente sussistenti negli impianti di Porto Marghera”.
Un
tale quadro, ritiene la Corte, non appare scalfito in ordine alla sua
effettività dalle doglianze degli appellanti.
Sostiene
in particolare il P.M. che la struttura del sistema di monitoraggio in funzione
nei reparti CV sarebbe non conforme alla legge e comunque inadeguata sia nella
determinazione della concentrazione di CVM in ambiente di lavoro, sia nella rilevazione
di eventuali fughe, per l’adozione appunto di un sistema multiterminale che avrebbe deliberatamente portato a
“tagliare i picchi di concentrazione” abbassando quindi notevolmente i livelli
di concentrazione registrati, e che inoltre sarebbe stato usato
fraudolentemente con l’utilizzo di dispositivi appositamente introdotti per
alterare i dati escludendo la rilevazione di quelli più sgraditi.
Ora, relativamente a
tali censure, osserva la Corte che intanto la conformità del sistema adottato
alla previsione di legge (DPR n°962/82), non consente di addebitare presunte, e
peraltro tecnicamente non convincenti, manchevolezze del sistema stesso
rispetto ad altri che si ritengono migliori (al riguardo non ci si dilunga
ritenendo non rilevante la questione ai fini della sussistenza del reato che ci
occupa, cioè quello di cui all’art. 437 c.p., ma si rimanda comunque alle
puntuali controdeduzioni contenute nelle memorie della difesa Smai e della
difesa Diaz che smentiscono, convincentemente, gli assunti di sostanziale
inidoneità del sistema, laddove l’affidabilità è peraltro, all’evidenza,
confermata dal confronto con il sistema di monitoraggio monoterminale e con
spettrometro di massa, sempre puntualmente e correttamente riproposto dalle
difese citate alle cui memorie si rimanda).
E così non rilevanti, ai
fini del reato di omessa collocazione di impianti o apparecchiature
prevenzionali, sono le argomentazioni degli appellanti (P.M. e Avvocato dello
Stato in particolare) che attengono alla regolarità o meno del sistema
monitoraggio, di per sé considerata (ma anche sul punto in fatto le accuse non
paiono suffragate da convincenti dati tecnici muovendo o da sospetti non
comprovati –l’asserito utilizzo di un dispositivo per eliminare rilevazioni non
gradite-, o da erronea interpretazione di dati –quale quella operata
dall’avvocato dello Stato su una presunta considerazione nella elaborazione dei
dati di valori 0 che si riferivano a giornate in cui il sistema non aveva
funzionato, laddove è da osservare invece che per le stesse giornate il numero
di prelievi era pure 0 onde, atteso che i valori rilevati venivano
nell’elaborazione della media divisi non per il numero di giorni ma per il
numero di prelievi non si vede quale alterazione può esserne derivata, tra l’altro
in quei pochi casi in cui nell’arco di cinque lustri questo sarebbe avvenuto-,
o ancora da peculiari situazioni che, in numero minimale rintracciate dagli
appellanti ed in particolare ancora dall’Avvocato dello Stato, potevano
verificarsi nel funzionamento del sistema).
Per concludere sul punto giova poi ricordare le osservazioni
del Tribunale che correttamente basa il suo giudizio di idoneità del sistema
altresì nella conferma, come chiede la normativa, con i dati ottenuti con
campionatori personali che si riferivano al periodo temporale marzo 1976 –
luglio 1980 e provenivano da un campionatore indossato da vari operatori,
aventi incarichi differenti ed appartenenti a vari reparti, cioè dei reparti
CV24, CV6, CV14 e CV16. I risultati erano pressoché, e generalmente,
sovrapponibili a quelli ottenuti con il sistema automatico, giacché pure i dati
conseguenti ai prelievi con campionatori personali, come quelli ricavabili
dalla media delle misurazioni con gascromatografi, si attestavano a valori
intorno ad 1 ppm (corrispondente -ma questo non rileva ai fini dell’efficienza
dell’impianto e quindi ai fini di cui al reato di cui all’art. 437 c.p., bensì
per le tematiche di salubrità dell’ambiente di lavoro in relazione alle sopra
svolte tematiche sulla causalità- al valore raccomandato dall’OSHA ad inizio
dell’anno 1976, raggiunto già in quell’anno, pure nella zona autoclavi).
Né possono valere a minare l’efficienza del sistema nella
normalità gli sporadici casi evidenziati dal P.M. con supporto documentale (documento
del 14/7/80 e documento del 16/2/81,
rispettivamente allegato 32 e allegato 33 della relazione dei CC.TT del P.M.
dell’agosto 1999) nei quali emergerebbe discrasia, laddove poi numerosissimi
rilievi (vedi allegato 4.52 alla Relazione 5.2.00 Foraboschi) effettuati
tramite campionatore personale nei reparti CV6 e CV24, quindi nei reparti di
maggiore rischio, indicano valori di esposizione molto bassi, mediamente sotto
1 ppm in accordo con i dati di monitoraggio automatico. Né ancora a livello
probatorio a diversa conclusione possono portare gli ulteriori documenti
indicati dal P.M. (documenti del 28/5/76 e del 31/8/77 allegato 34 della medesima relazione dei CC.TT. del P.M.) non
emergendo, ai fini del necessario confronto, dati rilevati con il diverso
sistema automatico nelle medesime circostanze. Ma ancora si tratta di sporadici
casi. E così infondate sono le ulteriori censure circa l’idoneità del sistema.
In particolare va osservato che rispondente a logica di maggiore prudenza è
l’abbassamento della soglia di allarme, che imponeva specifiche procedure di
salvaguardia, a 25 ppm, e conforme alla normativa è la mancata considerazione
nel calcolo della concentrazione media annua dei valori eccedenti la soglia di
allarme, atteso appunto che quando si raggiungeva tale soglia venivano poste in
essere le specifiche procedure a tutela della salute dei lavoratori
interessati.
Conclusivamente può dunque ritenersi che a partire dal 1974
la violazione di omessa collocazione di apparecchiature prevenzionali con riferimento
all’impianto di monitoraggio è insussistente, e così è insussistente la
violazione stessa con riferimento alle omesse collocazioni di apparecchiature
di protezione individuale quali le maschere da utilizzare da parte degli
esposti in situazioni di allarme o in lavorazioni di per sé rischiose (quali
l’ingresso in autoclave), ed all’omessa collocazione di idonei parti di
impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi altresì destinazione
prevenzionale per la loro funzione di
impedire dispersioni di gas nell’ambiente.
Quanto agli strumenti di
protezione individuale, e specificamente, per quanto sopra precisato in
relazione alle violazioni rientranti nella fattispecie di cui all’art. 437 c.p.,
alle maschere di protezione dal gas e vapori nocivi, si osserva che già con la
modifica delle procedure intervenute nel 1974, così come emerge documentalmente
dalle stesse schede lavoro indicate dal P.M. e comunque testimonialmente, erano
state fornite maschere per la protezione dai gas da utilizzare per gli ingressi
in autoclave, finchè, ma non per molti anni ancora, la pratica continuava, e da
utilizzare nei casi di fughe di gas. In particolare erano a disposizione degli
operatori (il dato è documentale emergendo dalle schede lavoro)
l’autorespiratore, Dac 70, oltre alle mascherine con filtro.
Altra cosa se poi in
concreto i lavoratori facessero corretto uso di tali strumenti (in effetti è
emersa trascuratezza al riguardo), non potendo integrare una tale violazione
(il controllo dell’uso da parte dei lavoratori cui pure erano forniti degli
strumenti antinfortunistici di protezione individuale, peraltro certamente
neppure addebitabile a consapevole volontà degli imputati che ricoprivano
posizioni apicali nell’azienda) il fatto (omessa collocazione) previsto dalla
norma incriminatrice in esame.
Quanto
poi alle parti di impianto produttivo (valvole, rubinetti e tenute) aventi
altresì destinazione prevenzionale per
la loro funzione di impedire dispersioni di gas nell’ambiente, va
intanto ricordato il fondamentale dato di fatto, documentato in atti dai rilevamenti con i gascromatografi della cui
affidabilità si è sopra detto, per il quale la concentrazione di CVM nei luoghi
di lavoro è sempre, almeno dal 1975 in poi, risultata inferiore al valore
soglia (3 ppm) stabilito nel 1978 dalla direttiva 78/610/CE, recepita in
Italia col DPR 962/1982.
Un tale
dato avvalora l’efficienza delle valvole, rubinetti e tenute dell’impianto
produttivo che impedivano dispersioni di gas nell’ambiente, contribuendo quelli
nuovi installati appunto a partire dal 1974 a ridurre drasticamente appunto le
concentrazioni di CVM nell’ambiente di lavoro. Nell’insieme dunque queste parti
d’impianto hanno svolto idonea funzione prevenzionale, ed a nulla potrebbe
rilevare la circostanza che magari qualche singola valvola fosse ancora di
concezione e tecnologia più remota, come le valvole con tenuta a baderna, non
particolarmente efficaci nell’evitare perdite ma “ancora installate negli anni ’90, sulle autoclavi del reparto
CV24” come segnalato dal P.M. e ribadito anche dalla difesa di alcune Parti
Civili.
Quello
che rileva è che tutta una serie di commesse ha portato all’adeguamento
dell’impianto con installazione, a parte qualche singola valvola che poi
bisognerebbe in concreto avere la prova della sua inefficenza, di quelle parti
che appunto rilevano ai fini della violazione di omessa collocazione
prevenzionale. Già il Tribunale, la cui sentenza integralmente si è detto deve
intendersi recepita nella presente e fatta propria dalla Corte nelle parti che
portano ad analogo giudizio, ha analiticamente ricordato le singole commesse ed
i tempi di realizzazione delle installazioni in questione, ed analitica e
documentata disamina in relazione proprio agli interventi dal 1973 al 1978 è
svolta dal consulente della difesa Foraboschi alla quale pure si rimanda, non
senza osservare che l’entità di tali interventi è altresì comprovata
testimonialmente anche in merito alle qualità caratteristiche tecniche ed
efficienza delle parti di impianto che qui interessano (vedi dichiarazioni sul
punto del teste Ferro, che ha lavorato proprio a partire dai primi anni ’70 nel
reparto CV24, ma anche del teste Paolini che riferisce degli studi ed impegno
aziendale che portò alle numerosissime sostituzioni).
Giova
comunque a titolo esemplificativo solo ricordare, come punti salienti, che nel
reparto CV24, tale intervento è stato realizzato con la commessa, già segnalata
appunto dal Tribunale, 1102.09 del 1.9.1975, relativa a:
-
installazione di rubinetti sul circuito
del CVM e dello slurry;
-
installazione di soffietti per le
valvole di regolazione sul circuito del CVM e dello slurry;
-
sostituzione delle tenute delle pompe
per CVM e slurry;
-
sostituzione delle tenute dei
compressori Bosco.
Mentre nel reparto CV6 gli
interventi sono stati posti in essere con la commessa 1099 (autorizzazione
28/5/75, fine lavori ottobre 1976) che, come ancora ricordato dal Tribunale, ha
riguardato “sostituzione della rubinetteria esistente con altra idonea a
contenere le perdite a valori minimi e installazione di soffietti sugli steli
delle valvole di regolazione sulle linee di CVM liquido a pressione”, ed ha
consentito, si cita ancora il Tribunale “di ridurre notevolmente la fuoriuscita
accidentale di CVM. Infatti, dopo l’esecuzione di tale commessa solo lo
0,1% dei rilievi effettuati negli
ambienti di lavoro superava 25 ppm, mentre prima nel 2% dei rilievi vi erano
concentrazioni superiori a 50 ppm. In
sostanza, l’operazione integrò l’acquisto e l’installazione di circa n. 380
rubinetti stagni in sostituzione del valvolame esistente, nonché di 20
soffietti per le valvole di regolazione ; vennero altresì sostituite le tenute
delle 8 pompe del lattice, delle 5 del germe, degli 8 agitatori delle autoclavi
e di quelle dei 2 compressori del CVM di recupero, con tenute meccaniche idonee
a garantire la totale segregazione all’interno delle apparecchiature del CVM
liquido o gassoso”.
Ed ancora giova
ricordare che, in via generale e come emerge ancora da quanto analiticamente
descritto dal consulente Foraboschi sulla scorta di specifica documentazione ed
accertamenti, nel periodo 1973 – 1978 si sostituirono:
nella zona dei serbatoi
della torbida:
–
le tenute a baderna degli agitatori dei
serbatoi dello slurry con tenute idrauliche con acqua a perdere nelle torbide,
–
le tenute delle pompe del CVM e dello slurry
e dei compressori del CVM/R e le valvole, eliminando così ogni possibile fonte
di inquinamento;
nella
sezione autoclavi:
–
tutte le guarnizioni sulle autoclavi e
sulle tubazioni di collegamento,
–
le tenute a premistoppa con soffietti
sulle valvole di regolazione,
–
le valvole a baderna con rubinetti,
–
le tenute a baderna con tenute
meccaniche su compressori a pompe.
In un tale contesto, appare correttamente adempiuto
da parte dei destinatari l’obbligo di collocazione di impianti prevenzionali a
partire dal 1974 relativamente appunto agli strumenti di cui sopra,
risolvendosi, le ulteriori segnalazioni di perdite o rotture ancora segnalati
dagli appellanti, come episodi normali nella vita impiantistica attinenti a
meri interventi manutentivi.
Insussistente dunque la violazione contestata per il
periodo successivo al 1973, con riferimento, tra gli impianti o apparecchi che
nello specifico si sono individuati, tra le violazioni contestate, rientranti
negli strumenti prevenzionali considerati dalla norma incriminatrice in esame,
all’impianto di monitoraggio, ai considerati strumenti di protezione
individuale ed alle parti di impianto aventi finalità prevenzionali, resta da
dire degli impianti di aspirazione di polveri, gas e vapori nocivi, e
verificare relativamente agli stessi se violazioni vi siano state per detto
periodo successivo al 1973 quando, come sopra già osservato, la consapevolezza
della necessità della collocazione di tali strumenti era ormai patrimonio di
tutti i soggetti destinatari dell’obbligo di garanzia che non potrebbero
trincerarsi dunque dietro una mera negligenza e imprudenza.
In proposito va subito,
osservato, funzionalmente alla concretezza e sviluppo stesso delle
argomentazioni che seguiranno strettamente connesse con la necessità di
motivare il giudizio, che in relazione all’accusa contestata qui viene in
rilievo solo la mera ipotesi di omessa collocazione dolosa di cautele
prevenzionali di cui al primo comma dell’art. 437 c.p., atteso che già si è
detto sopra che nessun infortunio (tra quelli ovviamente contestati), ed infra
si preciserà pure nessun disastro, si è poi verificato causalmente collegato ad
omissioni di cautele poste in essere dopo il 1973, e nello specifico all’omessa
collocazione di impianti di aspirazione.
Tanto ricordato, va pure
subito precisato che nemmeno l’accusa seriamente e specificamente sostiene che
una tale violazione sia stata posta in essere negli ultimi quindici anni,
palesemente infondata per la sua irrilevanza essendo la notazione del P.M.
secondo la quale il problema delle cappe d’aspirazione sarebbe rimasto tra i
problemi irrisolti ancora negli anni ’90, traendo spunto dalla relazione del
suo consulente Scatto circa un accertamento effettuato sull’impianto di
condizionamento del reparto CV24 il 26.6.1998, quando si verificava una fuga di
gas per asserita inidoneità dell’impianto risalente al 1974, atteso appunto che
in primis questo problema attiene non alla collocazione di uno strumento di
aspirazione di polveri, gas o vapori da apprestare nei luoghi di lavoro, bensì
un impianto di condizionamento che è cosa diversa, e poi la problematica
evidenziata dal consulente attiene alla ormai intervenuta obsolescenza di detto
impianto (che comunque giova ricordare era stato installato sempre nel 1974, a
riprova che in quest’anno vi era stata una generale presa di coscienza delle
problematiche non solo di sicurezza ma anche di benessere sul luogo di lavoro)
evidenziata dall’episodio verificatosi in periodo non più di competenza, e da
tempo, di alcun imputato.
Onde, se negli ultimi
quindi anni non si ravvisa alcuna violazione in proposito, si imporrebbe
comunque una declaratoria di prescrizione, chiaro essendo che anche nel
presente processo vale la norma di cui all’art. 129 c.p.p. che impone una tale
immediata pronuncia in mancanza di evidenza di ipotesi assolutoria.
Ora, ritiene la Corte
che, pur a sostenere che in realtà secondo l’ipotesi accusatoria specifiche
violazioni di tale obbligo sarebbero rinvenibili anche negli anni ’90,
dovendosi però correttamente considerare il solo periodo per il quale può
ritenersi estesa la contestazione, cioè fino all’ultimo momento in cui qualcuno
tra gli attuali imputati ricopriva posizione di garanzia ed era dunque
destinatario dell’obbligo in questione, vi è in realtà in atti evidenza che con
adeguata completezza almeno dai primi anni ’80 gli impianti di aspirazione
erano stati collocati in tutti gli ambienti a rischio di polveri ed esalazioni
nocivi.
Ed invero, in tal senso
depongono con chiarezza non solo le commesse ed i relativi lavori di
installazione eseguiti in forza delle commesse del novembre e del dicembre del
1980 ed infine del dicembre del 1981 (vedi le specifiche elencazioni già
operate dal Tribunale) che seguivano i lavori effettuati già negli anni ’70
quando vennero installate, nell’anno 1976, cappe di aspirazione per ciascuna
delle sale pesatura degli additivi utilizzati nella polimerizzazione (commessa
n. 84046, fine lavori nel dicembre 1976), ma anche le dichiarazioni dei testi
evocati dall’accusa (in particolare Biasiolo, ma anche De Stefani, e lo stesso
Zoccarato) che se da un lato evidenziano che ancora negli anni settanta l’ambiente
di lavoro era un inferno di polveri, riconoscono poi che la situazione era
completamente diversa a partire dagli anni ottanta, testimonianze che ben si
integrano, portando alla richiesta evidenza per una pronuncia assolutoria piena
nel merito, con le richiamate commesse in materia. Va quindi confermata
l’assoluzione pronuncita dal Tribunale per insussistenza del fatto anche per
mancata collocazione di impianti di aspirazione per periodo successivo al 1980.
Non altrettanto può
dirsi per tutti gli anni ’70 e specificamente, attesa la presa già in
considerazione con relativa pronuncia del periodo fino a tutto il 1973, per il
periodo dal 1974 al 1980 compreso (si ricordi che le commesse specifiche
richiamate che modificavano la situazione sono del novembre e dicembre 1980
seguite poi da commessa del dicembre 1981). Gli stessi elementi sopra
considerati, svilupparsi dei lavori di posa in opera degli impianti che qui
rilevano e testimonianze non solo dei testi sopra ricordati ma della quasi
totalità dei testi sentiti sul punto specifico, dimostrano che di evidenza di
insussistenza del fatto per detto periodo non si può parlare, non essendo
ovviamente sufficiente ad escludere la violazione nel complesso degli ambienti
di lavoro la commessa del 1976.
Né, per quanto sopra osservato quando si è
discusso del dolo nel reato in considerazione, può ormai seriamente parlarsi di
eventuale evidenza di assenza del necessario elemento psicologico in capo agli
imputati che in questi anni, dal 1974 al 1980 si sono succeduti o hanno
concomitantemente ricoperto posizioni di garanzia, e cioè gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi,
Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Gaiba,
Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, nei cui confronti va dichiarato
non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 437, 1° co., c.p., in
relazione appunto all’omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974
al 1980, perché estinto per prescrizione.
IL REATO DI DISASTRO NELL’IMPUTAZIONE
DI CUI AL PRIMO CAPO D’IMPUTAZIONE.
Le conclusioni di cui
sopra in merito al reato di cui all’art. 437 c.p., con assoluzione per carenza
dell’elemento psicologico in merito all’omissione, fino a tutto il 1973, delle
individuate cautele prevenzionali integrante dal punto di vista oggettivo la
previsione di cui al secondo comma dell’art. 437 c.p. in quanto causalmente
collegate alle malattie-infortunio ritenute appunto determinate dalle alte
esposizioni al CVM non schermate da detti strumenti prevenzionali, e con
esclusione poi dell’ipotesi stessa di cui all’art. 437, 2° co., c.p. per il
periodo successivo al 1973, svuotano ed assorbono ogni motivo d’appello
relativamente all’ipotesi di disastro formulata dal P.M. con la modifica delle
imputazioni: un unico disastro che avrebbe interessato, assorbito il reato di
cui agli artt. 449-434, 2° co., c.p. nella previsione di cui al capoverso
dell’art. 437 c.p., l’interno dello stabilimento con le centinaia di infortuni
verificatisi ai danni dei lavoratori, ed avrebbe interessato (e qui, se il
disastro è unico. il passaggio dall’ipotesi di cui agli artt. 449-434, 2° co.,
c.p. a quella del capoverso dell’art. 437 c.p. non è neppure astrattamente ben
chiara) l’ambiente esterno lagunare e della circostante terraferma per le
immissioni in atmosfera, discariche e scarichi inquinanti che avrebbero
causato, inquinamento, avvelenamenti delle acque di falde ed adulterazione del
biota lagunare con conseguente pericolo per la pubblica incolumità.
Ora, tanto già osservato, e se di un unico disastro interno
ed esterno causato dall’omessa collocazione all’interno dell’ambiente di lavoro
di apparecchi, impianti o segnali prevenzionali non può parlarsi, ritiene
comunque la Corte (tornando praticamente all’ipotesi originaria della
formulazione di accusa che, anche ad essere rigorosi in tema di correlazione
tra sentenza ed imputazione, può trovare spazio essendo l’ipotesi di disastro,
comunque la si voglia rubricare, tema delle imputazioni e potendone il giudice,
rispetto alla più ampia estensione del fenomeno in imputazione, delimitarne
diversamente, se nell’ambito dei fatti contestati, i contorni se ne ravvisa gli
estremi) che neppure di unico disastro può parlarsi in quanto già l’ipotesi in
fatto attenente al primo capo d’imputazione –disastro interno-, e dopo si dirà
dell’ipotesi di disastro innominato colposo di cui alle contestazioni
specificamente contenute nel secondo capo d’imputazione, è insussistente.
Rimanendo dunque per ora alle contestazioni di cui al primo capo,
pur rubricabili, come originariamente in imputazione, sotto gli artt. 449- 434,
2° co., c.p., si osserva che a fronte delle statuizioni ed argomentazioni del
Tribunale che, come sopra già citato, ha ritenuto che elementi costitutivi del
disastro sono la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una
comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la
pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo
che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività
predisponente o aggravante la situazione di rischio che nel caso che ci occupa
il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi
contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di
Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva
dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della
comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle
mansioni più a rischio, onde esclude il Tribunale completamente la
configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive al
1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale,
l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974,
avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di
rischio per l’incolumità pubblica, il P.M. nei propri motivi di appello,
sostenendo peraltro ancora la sussistenza del disastro innominato colposo e i
suoi rapporti con l’art. 437 c.p. e ferme restando le critiche in fatto sulle
epoche individuate come discrimine
della lesività o meno del CVM, censura comunque la pronuncia assolutoria alla
quale il Tribunale sarebbe pervenuto sulla base di una interpretazione non corretta
della fattispecie contestata.
Sostiene infatti l’appellante, come pure già sopra citato,
che il Tribunale, secondo il quale il
reato di disastro andrebbe inteso "come evento di danno caratterizzato nel
suo manifestarsi dalla gravità, complessità, estensione e diffusività", ha
operato una indebita sovrapposizione tra l'evento di pericolo richiesto dalla norma in discussione (artt. 449-434
c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo conseguiti. assumendoli quali
elementi costitutivi della fattispecie colposa; mentre avrebbe dovuto
configurarli come condizione di punibilità dell'ipotesi aggravata di disastro
considerata al comma secondo dell' art. 434 cp.. Ovviamente sostiene poi
l’appellante, e così anche le parti civili appellanti, la permanenza anche dopo
il 1974 del pericolo di lesività per le esposizioni a CVM i cui crolli di
concentrazione nell’ambiente di lavoro contesta e comunque assumendone lesività
anche a basse dosi.
Ora, ritiene
innanzitutto la Corte occorra fare chiarezza sui concetti di cui sopra di danno
e pericolo in relazione al reato di disastro, e soprattutto va con chiarezza
ricordato di quale reato qui si discute. Mai è stato contestato il doloso
delitto di cui all’art. 434 c.p., che effettivamente anticipa la tutela penale
al pericolo del disastro (quindi ad un mero comportamento che di per sé non
integra un evento di danno dal quale derivi concreto pericolo per la pubblica
incolumità e cioè la materialità del disastro) e relativamente al quale si può
poi discutere (ma qui non interessa) se nella previsione del secondo comma
l’intervenuto disastro con i
connaturati eventi di danno e di pericolo eventualmente in concreto conseguenti
appunto alla mera condotta astrattamente pericolosa considerata nel primo comma
abbia natura giuridica di condizione di punibilità piuttosto che di elemento
costitutivo dell’ipotesi aggravata.
Quello che è stato
contestato, superata e lasciata ormai da parte l’ipotesi del secondo comma
dell’art. 437 c.p., è un disastro
colposo ai sensi dell’art. 449 c.p. che si collega, non essendo nella
specie riferito ad alcuna delle ipotesi tipiche previste dal legislatore e
quindi essendo innominato, alla corrispondente ipotesi dolosa di cui all’art.
434, ma secondo comma. Non è invero considerata dal nostro ordinamento una
ipotesi colposa della mera previsione di cui all’art. 434, 1° co., c.p., atteso
che tale norma, come osservato anticipa la tutela alla commissione dolosa di
fatti diretti a cagionare un disastro a prescindere che questo poi si verifichi
(e se si verifica soccorre il secondo comma), mentre la previsione colposa di
cui all’art. 449 c.p. concerne la condotta di chi, per colpa, cagioni un
disastro.
Ecco allora che
indiscutibilmente in tale ipotesi il disastro
è elemento costitutivo del reato, è l’evento che deve conseguire alla
condotta dell’agente. Ciò ancora non risolve il problema, perché poi occorre
chiarirsi che cosa sia un disastro, attese le confusioni concettuali tra
pericolo concreto o astratto o presunto, danno, situazione di danno precedente
al pericolo e dalla quale appunto derivi il pericolo, concreto conseguente
danno concretizzazione del pericolo per l’effettiva lesione del bene della
pubblica incolumità.
Ora, non si vuole certo
qui ripercorrere teorie ed arresti dottrinari o giurisprudenziali, ma sempre al
fine di far comprendere il percorso decisionale è bene puntualizzare i concetti
ritenuti in diritto da questa Corte, che peraltro nulla di nuovo afferma.
Invero, i reati che
richiedono come evento materiale costitutivo il disastro, e quindi anche quello
colposo di cui all’art. 449 c.p. con riferimento al disastro innominato di cui
al secondo comma dell’art. 434 c.p., sono reati di danno essendo in sé il
disastro nella sua materialità un evento dannoso; un evento dannoso che però per
qualificarsi come disastro deve avere una gravità, complessità e diffusività
investendo cose e persone indeterminate tali da mettere in concreto pericolo la
pubblica incolumità, e cioè i beni della vita, dell’integrità e della salute
pertinenti alla singola persona umana ma anteriormente e comunque a prescindere
dal loro individualizzarsi in uno o più soggetti determinati. Non può
prescindersi dunque da una situazione fattuale di danno, si dice un macroevento
di danno, che deve concretamente sussistere ed individuarsi, sia un incendio
che devasta quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un
aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o
quant’altro abbia appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal
legislatore fanno cogliere.
Ecco allora chiarirsi i
termini della questione: se è vero infatti che sarebbe censurabile il
ragionamento del Tribunale ove avesse operato una indebita sovrapposizione tra
l'evento di pericolo richiesto dalla
norma in discussione (artt. 449-434 c.p.) e gli eventi di danno a quel pericolo
conseguiti assumendoli quali elementi costitutivi della fattispecie colposa,
censura che in realtà non appare meritare il Tribunale che però ne ha dato
origine soffermandosi proprio sui concreti eventi lesivi dei beni integranti la
pubblica incolumità per dare per dimostrato il disastro e poi per escluderlo là
dove concrete lesioni a tale bene non si ravvisino, neppure può seguirsi il
P.M. laddove ritiene sufficiente il mero pericolo, una mera situazione di
rischio con la concretizzazione del disastro che fungerebbe solo da condizione
di punibilità. Il disastro deve invece sussistere nella sua materialità già per
potersi dire integrato oggettivamente il reato; e perché sussista occorre individuare
un macroevento di danno con potenzialità gravemente lesiva per la pubblica
incolumità nei termini sopra definiti.
Dall’evento di danno che
innesca la situazione di pericolo non si può quindi prescindere. Irrilevanti
sono invece gli ulteriori danni che concretizzano quello che si poteva già
paventare: eventuali effettive lesioni dei beni vita, integrità o salute di
qualche, a quel punto individuata, persona, fatti che integrerebbero diverso e
concorrente reato (omicidio colposo o lesione personale colposa).
Ora, sulla scorta di
tali premesse in diritto, è agevole rilevare intanto che neppure si è affannata
l’accusa pubblica ma anche quella privata, forte dell’impostazione da entrambe
sostenuta che riteneva sufficiente il mero pericolo per la pubblica incolumità
per integrare il delitto in esame, ad individuare il concreto macroevento di
danno potenzialmente lesivo per la pubblica incolumità. In realtà l’elemento
fattuale, che pur può realizzarsi progressivamente, deve essere ad un tal punto
ben individuabile.
Nella specie il tutto è
vago, sapendosi solo che negli anni precedenti il 1974 gli operai nelle
specifiche lavorazioni si trovavano esposti ad alte concentrazioni di CVM. Ma
il dato non fa cogliere comunque uno specifico ben delimitabile evento dannoso,
confondendosi effettivamente il danno che dovrebbe stare a monte del pericolo
con il rischio in sé derivante dal permettere le lavorazioni in quel contesto;
sicuramente poi non è coglibile un evento di danno nella situazione degli
ambienti di lavoro dopo il 1973, attesa la riduzione di concentrazione di CVM
nell’aria ai limiti di ritenuta non pericolosità e quindi il venir meno della
stessa situazione rischiosa.
Ritiene dunque la Corte che
da disattendere sono le censure degli appellanti relativamente al suddetto
reato nella previsione fattuale contestata nel primo capo d’imputazione.
In relazione al secondo
capo di imputazione il P.M. ha contestato in principalità il reato di disastro
“innominato” colposo con riferimento agli eventi di danno concernenti diversi
comparti ambientali
e l’ecosistema nel suo
complesso provocati nel corso degli anni dalle condotte degli imputati ritenute
inosservanti di varie norme di prevenzione.
A tale contestazione il
P.M. ha affiancato anche quella di “avvelenamento” e “adulterazione” colposa di
sostanze e di acque destinate all’alimentazione con riferimento al biota
vivente nel sedimento contaminato dei canali dell’area industriale e alle falde
acquifere sottostanti alcune aree destinate a discarica all’interno e
all’esterno dell’insediamento del Petrolchimico.
Secondo il P.M. le
indagini svolte avevano permesso di accertare che gli imputati elencati alla
lettera A) del capo secondo ( Cefis, Grandi, Gatti, Porta, D’Arminio Manforte,
Calvi, Trapasso, Diaz, Morrione, Reichenbach, Sebastiani, Marzollo, Fabbri e
Zerbo) avevano realizzato, nel periodo compreso fra il 1970 ed il 1988 una
serie di discariche di rifiuti di ogni genere, ed anche di rifiuti
tossico\nocivi, alcune all’interno della zona di insediamento del Petrolchimico
ed altre anche all’esterno di tale zona.
Nella lettera B) del
capo secondo venivano poi elencati gli imputati (Porta, Morrione, Reichenbach,
Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri,
Burrai, Parillo, Patron e Necci) che, consapevoli della attività illecita posta
in essere nel periodo anteriore all’assunzione da parte loro del potere
d’impresa e del conseguente degrado ambientale, avevano continuato a
comportarsi in maniera illecita.
In particolare gli
stessi si erano disinteressati dei rifiuti tossico\nocivi contenuti nelle
discariche precedentemente create, omettendo di adottare qualsiasi iniziativa
di bonifica dei siti inquinati e continuando, al contrario, a stoccare altri
rifiuti tossico\nocivi senza la prescritta autorizzazione.
Con tali condotte gli
imputati avevano così provocato la dispersione nel suolo e nelle acque di falda
sottostanti dei residui tossico\nocivi e delle acque di rifiuto non trattate.
A ciò si doveva
aggiungere che gli imputati avevano effettuato nelle acque lagunari scarichi
che superavano per alcuni parametri i limiti di accettabilità di cui alle
tabelle allegate al D.P.R. 962\1973 (“Tutela della città di Venezia e del suo
territorio dagli inquinamenti delle acque”).
Per tutte le condotte
sopra descritte il P.M. contestava agli imputati di aver così cagionato eventi
di danno consistiti in una grave contaminazione di diversi comparti ambientali
con conseguente alterazione dell’ecosistema lagunare prospiciente la zona
industriale sì da configurare il reato di disastro innominato di cui agli
artt.434 e 449 c.p.
Secondo l’ipotesi
accusatoria, infatti, le condotte degli imputati avevano provocato la
contaminazione, con elevante concentrazioni di diossine e di altri composti
tossici, dei sedimenti dei canali e delle acque antistanti le zone industriali
di Porto Marghera e avevano gravemente compromesso il suolo, il sottosuolo e le
acque di falda sottostanti varie aree interne ed esterne allo stabilimento con
l’accumulo incontrollato di grandi quantità di rifiuti provenienti dalla stessa
attività industriale in ben ventisei discariche analiticamente indicate negli
allegati al capo d’imputazione.
Inoltre a tutti gli
imputati veniva addebitato di aver causato e, comunque, incrementato il
progressivo avvelenamento (ex artt.439 e 452 c.p.) delle acque di falda,
utilizzate anche per uso domestico ed agricolo, sottostanti l’area del
Petrolchimico ed altre aree vicine e l’adulterazione (ex artt.440 e 452 c.p.)
di risorse alimentari costituite dalla ittiofauna presente nei sedimenti e
nelle acque dei canali lagunari prossimi alle zone industriali. Tale diffusa
contaminazione si era trasmessa dagli scarichi nelle acque e dalla percolazione
delle discariche ai sedimenti dei canali e, da questi, alle specie viventi.
Da ciò un grave pericolo
attuale per l’incolumità pubblica e la permanenza in atto.
A fronte di tali gravi
contestazioni però, il giudice di primo grado, all’esito di una lunga e
laboriosa istruttoria dibattimentale, aveva assolto tutti gli imputati da tutti
gli addebiti perché il fatto non sussiste. Anche questa parte della sentenza,
concernente il secondo capo d’imputazione, è stata impugnata dal Pubblico
Ministero, dall’Avvocato dello Stato in rappresentanza della Presidenza del
Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio, nonché da varie altre parti civili ( Regione Veneto, Comune di
Venezia, Comune di Campagnalupia, Comune di Mira, Comitato Regionale del Veneto
di Lagambiente, Associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico,
artistico e naturale della Nazione Italia Nostra O.n.l.u.s., Provincia di
Venezia, Associazione Italiana per il World Wilde Fund for Nature, Medicina Democratica e la
Federazione di Venezia della Associazione Lavoratrici Lavoratori Chimici
Affini).
Dal punto di vista
metodologico si ritiene opportuno precisare in questa sede che le doglianze
avanzate dagli appellanti saranno prese in esame seguendo puntualmente lo
schema dei motivi d’appello presentati dal P.M. in quanto sono indubbiamente
quelli più completi ed esaustivi, tanto che molte altre parti appellanti non
hanno potuto fare altro che riportarsi integralmente a tali motivi nei
rispettivi atti di impugnazione.
Ovviamente, per ogni
singolo capo, verranno riportate anche le argomentazioni degli altri appellanti
se risulteranno diverse o più approfondite rispetto a quelle esposte dal P.M.
nei suoi motivi.
Fatta questa breve
premessa, si può ora passare ad esaminare le varie doglianze prospettate dagli appellanti per valutare se
sono fondate o meno.
CAPITOLO 3.1 APPELLO P.M.
I motivi d’appello presentati
dal P.M. prendono l’avvio dall’affermazione che il Tribunale avrebbe deformato
l’ipotesi accusatoria giungendo alla conclusione errata che le contestazioni
avevano assunto un contenuto generico e generalizzato al punto da apparire
infondate e non provate.
Un esempio di tale
deformazione è costituito dal fatto che il Tribunale ha costantemente parlato,
nella motivazione della sentenza, di zona industriale nel suo complesso, di
decenni di catabolismo industriale, di decenni di gestione del plesso produttivo,
ingenerando così l’idea di un processo promosso nei confronti di un certo tipo
di gestione industriale anziché nei confronti di ben individuate persone in
relazione a precise responsabilità personali.
Sul punto la doglianza
del P.M. appare fondata.
In vero il capo
d’imputazione risulta formulato in modo sufficientemente analitico malgrado la
vastità dell’oggetto del procedimento dal punto di vista sia temporale, sia
spaziale.
Bisogna infatti dare
atto che il P.M. nel suo capo d’imputazione ha contestato ai singoli imputati,
ben identificati con l’indicazione anche dei periodi per i quali avevano
assunto posizioni di garanzia nell’ambito delle rispettive organizzazioni
aziendali, fatti o comportamenti omissivi determinati che, secondo l’ipotesi accusatoria,
avevano dato origine o, comunque, incrementato l’inquinamento con riferimento a
precisi siti di discarica, alle sottostanti acque di falda, ai sedimenti e alle
acque dei canali prospicienti Porto Marghera.
I dati di fatto sopra
indicati sono analiticamente elencati negli allegati al capo di imputazione
che, ovviamente, ne fanno parte integrante.
Indubbiamente nel corso
dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e durante la discussione finale,
sia in primo che in secondo grado, il P.M. si è soffermato prevalentemente
sugli argomenti di carattere generale nel tentativo di dimostrare la fondatezza
delle proprie tesi, lasciando in secondo piano le posizioni dei singoli
imputati, ma da ciò non può dedursi la genericità o la indeterminatezza delle
accuse.
Come si è sopra detto, i
numerosi problemi affrontati nel corso del processo, l’ampiezza del periodo
temporale preso in esame, la necessità di sintetizzare le argomentazioni per
renderle adeguatamente comprensibili e inquadrabili in schemi logici quanto più
possibile chiari e memorizzabili, hanno inevitabilmente portato il P.M. a
generalizzazioni e a sintesi che possono aver erroneamente indotto a ritenere
che il processo avesse come oggetto un certo modo di svolgere attività
industriale anziché ben individuati imputati per singole e personali
responsabilità.
Tuttavia questo Collegio
ritiene che le contestazioni effettuate dal P.M. abbiano i caratteri della
concretezza e della specificità necessariamente richiesti per la validità di
qualsiasi capo d’imputazione e che consentono di esaminare e valutare la
posizione dei singoli imputati in relazione agli addebiti mossi a ciascuno.
I fatti risultano in
effetti contestati in modo specifico con l’indicazione dei luoghi in cui si
sono verificati gli inquinamenti delle acque e dei sedimenti e per ogni
imputato appaiono indicati con sufficiente precisione i relativi addebiti con
riferimento ai periodi in cui ciascuno aveva svolto il proprio incarico
all’interno delle aziende.
L’appellante lamenta poi
il fatto che la sentenza impugnata abbia erroneamente ritenuto che il P.M., con
la modifica dell’originario capo d’imputazione effettuata all’udienza
dibattimentale del 13\12\2000 e consistita, per quanto ora ci interessa,
nell’aggiungere quale specificazione del tempus commissi delicti l’espressione
“permanenza in atto”, abbia contestato a tutti gli imputati un disastro
innominato permanente.
Precisa ora il P.M. che
in realtà si voleva contestare la permanenza in atto degli effetti e non delle
condotte degli imputati (oltre alla permanenza dei reati contravvenzionali).
Tale precisazione appare
quanto mai opportuna e chiarificatrice dato che l’espressione “permanenza in
atto” non poteva che essere interpretata letteralmente come contestazione del
reato di disastro innominato permanente.
In questa sede si deve
ora prendere atto di quanto espressamente è stato chiarito dal P.M. e quindi
tener conto del fatto che la permanenza di cui si parla nel capo d’imputazione
è riferita agli effetti del reato contestato e non alle condotte degli
imputati.
Il P.M. rileva poi come
il Tribunale, dopo aver affermato con varie ordinanze dibattimentali che il
capo d’accusa era sufficientemente determinato ed aver enunciato, per quanto
riguarda l’impostazione giuridica del “disastro innominato”, una serie di
principi generali condivisibili come quello secondo cui “ la rilevanza
dell’apporto del singolo imputato (o di imputati agenti in epoca coeva)….. può
essere pensata anche in termini di efficienza causale avuto riguardo a condizioni
di aggravamento di un evento di danno ambientale già prodottosi (aggravamento,
come ovvio, adeguato alla gravità e alla complessità del danno alle cose e al
dato di pericolo per l’incolumità pubblica che il disastro porta con sé)”
(Sentenza, pag.483), era poi tornato sui suoi passi continuando ad impostare la
deformazione dell’accusa.
Infatti l’appellante
evidenzia che subito dopo la sentenza “ha assunto la rilevanza del problema di
condotte determinative di condizioni di aggravamento di un evento già verificatosi,
aggravamento di un evento di danno ambientale, è evidente, di significato
adeguato alla complessità dell’evento tipico ed adeguato alla condizione di
pericolo per l’incolumità pubblica che del disastro c.d. innominato costituisce
requisito di fattispecie” (Sentenza, pag.483).
In questo modo il
Tribunale aveva accolto un concetto di disastro unico, onnicomprensivo e di
dimensioni tali che qualsiasi contributo individuale non poteva incidere in
modo efficace e penalmente rilevante.
Il P.M. aveva invece
contestato specifici contributi da parte dei singoli imputati alla causazione
ed all’incremento di diversificati inquinamenti ed avvelenamenti riferiti in
particolare all’attività degli specifici impianti del ciclo del cloro.
Si tratta di danni nuovi
e diversificati rispetto a quelli generici e generali di cui parla la Sentenza
di primo grado.
Ad avviso di questo
Collegio anche questa doglianza del P.M. appare in linea astratta fondata, ma
si dovrà in seguito valutare se i contributi dei singoli imputati contestati
nel capo d’imputazione siano risultati provati alla luce delle emergenze
processuali.
Identiche considerazioni
devono farsi anche in relazione all’altra “deformazione dell’accusa” lamentata dal
P.M. con riferimento alle affermazioni della Sentenza di primo grado che a
pag.485 parla di “condotte…indistintamente avvinte in un addebito di
cooperazione colposa, dove ciascun cooperante assume corresponsabilità per
l’insieme delle conseguenze (asseritamene) prodotte dal catabolismo del plesso
industriale. Quello di decenni”, giungendo così alla conclusione che
“l’aggravamento preesistente non è rilevante” e che “ogni garante risponde per
come ha adempiuto alla garanzia di lui dovuta e nei limiti dell’apporto
recato.Rimane fermo che l’antecessore può essere chiamato a rispondere degli
effetti penalmente rilevanti della sua condotta, pure di quelli successivi alla
cessazione sua nella posizione di garanzia.
Ma l’imputato non potrà
essere chiamato a rispondere di fatti (anteriori, concomitanti o successivi)
cagionati da altri, senza alcun rapporto con la sua sfera di attività, senza
relazione con la garanzia dovuta, senza accertamento di un nesso di causa tra
condotta (sua propria, non dell’azienda di appartenenza) ed evento”.
Il rappresentante della
Pubblica Accusa, a fronte delle sopra citate affermazioni del giudice di primo
grado, evidenzia che nel capo d’imputazione era contestato, oltre all’art.113
c.p., anche l’art.81, commi 1° e 2° c.p. nonché l’art.437 c.p. nel suo
complesso per cui era compito del Tribunale accertare una responsabilità dei
singoli imputati sia come cooperazione colposa, sia come concorso di cause
colpose indipendenti tra loro, sia come risultato dei comportamenti di cui
all’art.437 c.p.
Anche in questo caso la
doglianza del P.M. appare astrattamente fondata, salvo accertare nel merito la
sussistenza della responsabilità degli imputati in base a quanto emerso nel
corso dell’istruttoria dibattimentale.
L’ultima deformazione
dell’accusa denunciata dal P.M.
riguarda il fatto che il Tribunale non avrebbe preso in considerazione il
disastro contestato ai sensi dell’art.437 c.p. non spendendo una sola parola
sull’argomento.
In effetti la sentenza
di primo grado, nella parte relativa al capo secondo dell’imputazione, non
parla mai dell’art.437 c.p.
La circostanza risulta
sicuramente spiegabile in considerazione del fatto che il primo giudice, dopo
aver preso in esame l’accusa di omissione di cautele antinfortunistiche nella
parte della sentenza concernente il primo capo d’imputazione, aveva assolto
tutti gli imputati da tale accusa con formula ampia escludendo l’esistenza di
omissioni di cautele antinfortunistiche rilevanti per una condanna.
Su tale premessa era
quindi una logica conseguenza che il Tribunale non prendesse più in esame il
reato di cui all’art.437 c.p. come presupposto del disastro ambientale di cui
al capo secondo dell’imputazione.
Questo Collegio ha
invece ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art.437 c.p.(pur dichiarandolo
prescritto) in relazione all’omessa collocazione di impianti di aspirazione
negli ambienti di lavoro nel periodo compreso fra il 1974 ed il 1980.
Si può fin da ora
rilevare che la mancanza di impianti di aspirazione non appare idonea a
provocare l’evento di disastro “ambientale” comunque qualificato e sicuramente
non risulta acquisita alcuna prova che tale omissione abbia avuto conseguenze
penalmente rilevanti al di fuori dell’ambiente di lavoro coinvolgendo persone
esterne ai singoli reparti presi in considerazione con conseguente pericolo per
la pubblica incolumità.
Ora è possibile passare
all’esame dei motivi d’appello concernenti i vari punti della sentenza
impugnata.
CAPITOLO 3.2
APPELLO P.M.
In primo luogo il P.M.
prende in esame il capo della sentenza in cui si respinge l’accusa rivolta agli
imputati di cui alla lettera A) dell’imputazione di aver concorso a provocare
l’inquinamento e, di conseguenza, il progressivo avvelenamento delle acque di
falda e delle acque dei canali lagunari prospicienti il Petrolchimico, mediante
condotte poste in essere in epoca precedente all’entrata in vigore del D.P.R.
10\9\1982 n.915 e consistite nella realizzazione e gestione di discariche
abusive in assenza di opportune cautele.
Il primo giudice aveva
infatti ritenuto che l’attività di gestione dei rifiuti da parte degli imputati
prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 non fosse disciplinata da alcuna
norma specifica e che, di conseguenza, non era individuabile una “norma agendi”
da valutare come parametro al quale la condotta degli imputati avrebbe dovuto
attenersi per risultare esente da colpa.
Secondo il Tribunale gli
imputati avevano gestito i rifiuti industriali con modalità non dissimili da
quelle utilizzate da coloro che in quel periodo svolgevano le stesse attività;
a conferma di ciò vi era la circostanza che la pubblica amministrazione aveva,
di fatto, consentito che varie aree situate all’interno e all’esterno dell’insediamento
del Petrolchimico fossero dedicate al deposito e alla gestione dei rifiuti
industriali, non intervenendo in alcun modo.
Sul punto il P.M.
evidenzia che già prima dell’entrata in vigore della disciplina generale sui
rifiuti di cui al D.P.R. 915\82 il deposito di rifiuti sul suolo e, quindi, la
realizzazione di discariche era soggetta a divieti e limitazioni normativi.
L’appellante ricorda:
1) la legge regionale
del Veneto del 6\6\1980 n.85 il cui art.38 vietava “…di abbandonare e
depositare rifiuti di qualsiasi genere su aree pubbliche o private, nonché
scaricare o gettare rifiuti nei corsi d’acqua, canali, laghi, lagune o in
mare”;
2) la legge 5\3\1963
n.366 il cui art.10 stabiliva che “ è vietato di scaricare o disperdere in qualsiasi
modo rifiuti o sostanze che possono inquinare le acque della laguna…”. “Entro
l’attività lagunare non possono esercitarsi industrie che refluiscano in laguna
rifiuti atti ad inquinare o intossicare le acque”;
3) l’art.17 della legge
20\3\1941 n366 che vietava in modo assoluto “il gettito dei rifiuti ed il
temporaneo deposito di essi nelle pubbliche vie e piazze…,nei terreni pubblici
e privati”;
4) gli artt. 9 e 36 del
R.D. 8\10\1931 n.1604 che prevedevano la necessità per gli stabilimenti
industriali, prima di versare rifiuti nelle acque pubbliche, di ottenere il
permesso dal Presidente della Giunta Provinciale il quale doveva anche
prescrivere gli eventuali provvedimenti atti ad impedire danni all’industria
della pesca.
Il P.M. ricorda poi
anche i Regolamenti d’Igiene dei Comuni di Mira (pubblicato in data 30\7\1954)
e Venezia ( approvato con determinazioni Podestarili 16\2\1928 e 8\6\1929), nei
cui territori si trovavano buona parte delle discariche elencate in
imputazione, che vietavano esplicitamente il getto e l’accumulo di rifiuti e
immondizie su qualsiasi area scoperta, sia pubblica che privata sancendo che
gli stessi dovevano essere portati fuori dall’abitato nei luoghi e depositi
stabiliti dall’Autorità Comunale.
Di conseguenza, secondo
il P.M., l’ordinamento prevedeva, anche prima del D.P.R. 915\82, “dei precisi
divieti che non consentivano la realizzazione delle discariche oggetto di
imputazione, e quindi non essendo queste in alcun modo autorizzate, le stesse
dovevano considerarsi contra legem” .(Appello P.M., pag.1100).
Alle sopra riferite
argomentazioni del Pubblico Ministero, ribadite in sede di discussione dal
Procuratore Generale nella memoria depositata il 6\7\2004 (pagg. 8 e 9), si è
associata anche la parte civile Provincia di Venezia che, nella memoria
depositata il 2\12\2004, aggiunge alle disposizioni di legge e regolamentari
indicate dal P.M. una serie di altre leggi che, già all’epoca, si preoccupavano
di salvaguardare la salubrità dell’ambiente e di preservare l’ecosistema da
ogni forma di inquinamento.
La parte civile
Provincia di Venezia ricorda infatti la Legge 2\3\1963 n.397 “Nuovo ampliamento
del porto e zona industriale Venezia – Marghera” che imponeva il rispetto delle
esigenze di sicurezza, di igiene pubblica e di incolumità degli abitanti nella
attuazione del piano di ampliamento della zona industriale di Porto Marghera;
la Legge 13\7\1966 n.615 che recava Provvedimenti contro l’inquinamento
atmosferico, e il successivo D.P.R. 15\4\1971 n.322 esecutivo di tale legge limitatamente
al settore industriale; la Legge 16\4\1973 n.171 Interventi per la salvaguardia
di Venezia; il D.P.R. 20\9\1973 n.962 sulla Tutela della città di Venezia e del
suo territorio dagli inquinamenti delle acque; la Legge 10\5\1976 n.319 Norme
per la tutela delle acque dall’inquinamento.
Rileva questo Collegio
che, indubbiamente, le norme indicate dagli appellanti offrono un panorama dei
più significativi tentativi fatti dal legislatore dell’epoca per tutelare e
salvaguardare la salubrità dell’ambiente e per proteggere il territorio dalle
varie forme di inquinamento.
Tuttavia nessuna delle
disposizioni indicate sembra dare una risposta adeguata al problema che oggi si
deve risolvere e cioè se nel periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R.
915\82 fosse in qualche modo individuabile una norma agendi alla quale i nostri
imputati avrebbero dovuto attenersi nell’attività di deposito e gestione dei
rifiuti.
Tale norma agendi non
può certo ricavarsi dalle leggi indicate dalla sola parte civile Provincia di
Venezia che prevedono disposizioni di carattere generale tendenti a prevenire
fenomeni di inquinamento della più varia origine, ma che nulla dicono circa le
modalità di gestione dei rifiuti industriali.
Invece le norme indicate
dal P.M. nei suoi motivi d’appello contengono sicuramente delle prescrizioni
relative alla gestione dei rifiuti, ma si tratta con tutta evidenza di
prescrizioni assolutamente generiche che non forniscono alcuna regola di
condotta alla quale gli imputati avrebbero potuto e dovuto attenersi.
Troviamo infatti sempre
generici divieti di getto, deposito o dispersione di rifiuti in aree pubbliche
o private o in acque pubbliche, ma nulla si dice circa le modalità da seguire
per una corretta gestione dei rifiuti stessi da parte di privati che si
trovavano nella necessità di liberarsi di notevoli quantitativi di rifiuti
industriali.
In altre parole bisogna
prendere atto che all’epoca il problema di una corretta gestione dei depositi
di rifiuti non era sentito come particolarmente pressante nella coscienza
sociale non essendo ancora ben conosciuti i pericoli insiti nella presenza sul
territorio di grandi masse di sostanze tossiche e nocive abbandonate perché non
più utilizzabili.
Le Autorità Pubbliche si
preoccupavano essenzialmente di regolare il trattamento dei rifiuti al solo
fine di evitare che venissero abbandonati in modo incontrollato su aree
pubbliche e private con conseguenti problemi di natura igienica ed “estetica”;
nessuno si era ancora posto il problema di regolamentare tutte le fasi dello
smaltimento dei rifiuti e, tanto meno, di fissare disposizioni e regole per
garantire che i luoghi usati come discariche fossero individuati e organizzati
in modo tale da fornire la sicurezza
che nel tempo il percolato non mettesse in pericolo le falde acquifere
sottostanti o i terreni circostanti.
Quindi, il Tribunale,
dopo aver preso atto della mancanza di norme specifiche che fornissero un
parametro per valutare le condotte degli imputati che avevano creato e gestito
le discariche prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82, è giunto alla
conclusione che le uniche disposizioni che in qualche modo, all’epoca,
regolavano la materia delle discariche erano quelle di cui al Testo Unico delle
Leggi Sanitarie (R.D. 27\7\1934 n.1265) con particolare riferimento all’art.216
che conteneva la prescrizione di isolare le lavorazioni insalubri nelle
campagne, lontano dalle abitazioni o con speciali cautele per la incolumità del
vicinato.
Nel territorio del
Comune di Venezia la prescrizione dell’art.216 T.U.LL.SS. era stata recepita
con le Norme tecniche di attuazione del Piano Regolatore Generale del 1956 che
all’art.15 prevedeva che: “Nella zona industriale troveranno posto
prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o
esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano sostanze velenose, che
producono vibrazioni e rumori”.
Gli appellanti
sostengono che le disposizioni di cui all’art.216 T.U.LL.SS. e all’art.15
N.T.A. del P.R.G. di Venezia del 1965 non possono ritenersi idonee a
legittimare le condotte di realizzazione delle discariche in imputazione in
quanto la prima norma si riferiva unicamente alle manifatture e alle fabbriche
(e non alle discariche), mentre la seconda norma aveva natura prettamente
urbanistica e, comunque, non prevedeva la possibilità di creare nell’area di
Porto Marghera zone di scarico e gestione di rifiuti.
Rileva questo Collegio
che effettivamente l’art.216 del T.U.LL.SS. si riferisce esplicitamente alle
“manifatture o fabbriche” e non parla di discariche, ma esaminando l’elenco
delle industrie insalubri allegato al T.U. troviamo tra le Attività industriali
indicate alla lettera C della Parte I il riferimento agli “Inceneritori” e al
“Deposito e demolizione di autoveicoli ed altre apparecchiature elettromagnetiche
e loro parti fuori uso”. Si tratta con tutta evidenza di attività relative al
trattamento di materiali destinati alla eliminazione e, quindi, estremamente
simili a quelle attività connesse allo smaltimento dei rifiuti veri e propri.
Da ciò può desumersi la
volontà del legislatore di regolamentare tutte le attività il cui svolgimento
comportasse l’emissione di vapori, gas o altre esalazioni insalubri (come
appunto il trattamento dei rifiuti), indipendentemente dal fatto che si trattasse
di “manifatture o fabbriche” in senso tecnico, quanto meno fino al momento in
cui entrò in vigore una disciplina organica concernente i rifiuti con il D.P.R.
915\82. Fatte queste osservazioni si deve quindi concludere che correttamente
il Tribunale ha ritenuto di escludere qualsiasi addebito di colpa per gli
imputati che crearono e gestirono le discariche di cui all’imputazione prima
dell’entrata in vigore del D.P.R. 915\82.
CAPITOLO 3.3
APPELLO P.M.
RIFIUTI TOSSICO NOCIVI E SCARICHI IDRICI
3.3.1 ILLECITO
SCARICO DI RIFIUTI ANCHE DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DEL D.P.R. 915\82
La sentenza impugnata,
continuando ad esaminare il problema delle discariche interne ed esterne al
Petrolchimico, afferma anche che le prove raccolte in dibattimento non
consentono di giungere alla conclusione che anche dopo il 1983 (anno di entrata
in vigore del D.P.R. 915\82) gli imputati che all’epoca esercitavano potere
d’impresa abbiano continuato a gestire le discariche stesse in violazione delle
disposizioni concernenti la materia dei rifiuti.
In base alle
testimonianze rese in dibattimento e alla documentazione acquisita agli atti si
era infatti accertato che (alla data di entrata in vigore del D.P.R. 915\82)
buona parte delle discariche indicate nel capo d’imputazione non erano più
utilizzate e che, per quelle ancora in attività, era stata richiesta ed
ottenuta l’autorizzazione allo stoccaggio provvisorio di rifiuti tossici e
nocivi.
Il Pubblico Ministero,
il Procuratore Generale e la parte civile Provincia di Venezia contestano le
conclusioni sul punto del primo giudice.
Gli appellanti
sostengono che proprio le dichiarazioni testimoniali richiamate nella sentenza
e la documentazione acquisita, se correttamente valutate ed interpretate,
dimostrerebbero che anche dopo il 1982 erano continuati i conferimenti abusivi
di rifiuti nelle discariche.
In particolare i testi
Spoladori, Gavagnin e Pavanato, citati dalla sentenza impugnata a riprova delle
proprie conclusioni, non avevano affatto escluso che dopo 1982 non vi fossero
più stati conferimenti abusivi di rifiuti.
Il teste Gavagnin,
all’udienza del 16\3\2001, si era limitato ad affermare che dopo il 1982 erano
cessati i fenomeni più macroscopici; il teste Pavanato, Dirigente del Settore
Politiche Ambientali della Provincia di Venezia, aveva precisato di non essere
in grado di escludere ogni possibile attività illecita dopo il 1982 in quanto
il servizio di vigilanza non poteva effettuare controlli sufficientemente
efficienti per mancanza di mezzi e di personale; il teste Spoladori, Ispettore
del Corpo Forestale, non aveva affatto fornito elementi a sostegno delle
conclusioni del primo giudice, ma, al contrario aveva confermato che almeno in
due discariche l’attività illecita era continuata dopo il 1982 (nelle isole 31
e 32 c.d. “Katanga” fino al 1987\89 e nella discarica Moranzani fino al 1989).
In realtà un esame
attento delle deposizioni testimoniali non consente di ritenere fondate le
doglianze degli appellanti.
Iniziando da quanto
dichiarato dall’Ispettore Spoladori si rileva che il teste non ha affatto
affermato che nelle discariche “Katanga” e Moranzani il conferimento dei
rifiuti si era protratto oltre il 1982, al contrario il teste ha precisato
all’udienza del 7\11\2000 che per la c.d. “Katanga” l’inizio dello scarico si poteva
datare intorno al 1976 e che aveva avuto fine attorno al 1982, mentre per la
discarica Moranzani ha dichiarato che l’area era stata utilizzata da Montedison
tra 1965 ed il 1975 per scaricare rifiuti provenienti dalla produzione
dell’acetilene e dell’acido fluoridrico. Lo stesso teste, quando ha poi parlato
delle stesse discariche con riferimento ad epoca successiva al 1982 ha fatto
riferimento ad attività dirette alla messa in sicurezza delle stesse e non
certo ad attività di utilizzazione abusive.
Per quanto riguarda i
testi Pavanato e Gavagnin è vero che gli stessi non sono stati tassativi
nell’affermare la cessazione di attività abusive dopo il 1982 in quanto non
avrebbero potuto farlo date le loro rispettive possibilità di conoscenza dei
fatti; tuttavia dalle loro dichiarazioni si evince con sicurezza che dopo il
1982 non si verificarono violazioni macroscopiche della normativa regolante lo
smaltimento dei rifiuti.
Sarebbe stato compito
della pubblica accusa provare il contrario, ma ciò non è stato fatto.
Risulta quindi
condivisibile l’affermazione del primo giudice che non esiste prova certa e
convincente che dopo il 1983 vi sia stata da parte degli imputati una abusiva
gestione delle discariche di cui all’imputazione.
Gli appellanti lamentano
poi il fatto che la sentenza di primo grado, dopo aver dato atto della
acquisizione delle autorizzazioni rilasciate dall’autorità competente per lo
stoccaggio provvisorio dei rifiuti, non ha individuato per ogni singola
discarica quale specifica autorizzazione era stata rilasciata.
Si tratta di una
doglianza generica e indeterminata che non consente alcuna valutazione, mentre
sarebbe stato necessario per le accuse pubblica e privata indicare espressamente
eventuali carenze o cause di illegittimità delle singole autorizzazioni.
Astrattamente fondata appare invece la
doglianza degli appellanti relativa al tipo di autorizzazione richiesta e
rilasciata dall’Autorità competente per le discariche in imputazione.
Risulta infatti
pacificamente che nel caso in esame si trattava di smaltimento definitivo di
rifiuti nelle discariche che richiedeva quindi l’autorizzazione indicata alla
lettere d) dell’art.16 del D.P.R.915\82 e non certo quella di cui alla lettera
b) dello stesso articolo prevista per lo stoccaggio provvisorio.
Le condizioni e le
cautele richieste per i due tipi di autorizzazione sono sostanzialmente
diverse, come ha giustamente evidenziato la parte civile Provincia di Venezia
nella memoria depositata il 2\12\2004 (pag.29-32), in considerazione della
diversa natura del tipo di attività che si intende svolgere.
Ciò significa dal punto
di vista astratto che gli imputati che all’epoca svolgevano funzioni di
garanzia si sarebbero resi responsabili della violazione del disposto degli
artt. 16, comma 1° lett.d) e 26 D.P.R. 915\82 avendo chiesto ed ottenuto per le
discariche autorizzazioni diverse da quelle prescritte dalla legge.
Tuttavia su tali contravvenzioni
non è possibile alcuna pronuncia, neppure di prescrizione, perché non sono mai
state formalmente contestate.
In vero, a parte il
generico riferimento alle norme incriminatici (artt.16 e 26 D.P.R. 915\82)
contenuto nel capo d’imputazione, il P.M. non ha mai formalmente contestato,
neppure nel corso della fase dibattimentale, agli imputati di aver gestito
discariche con titolo autorizzativo diverso da quello specificamente previsto
dalla legge in relazione alla effettiva natura dell’attività di smaltimento
rifiuti svolta.
Si tratta infatti di un
argomento sollevato per la prima volta con la redazione dei motivi d’appello e,
di conseguenza, gli imputati non sono mai stati messi in condizione di svolgere
le proprie difese su tale addebito.
Per gli stessi motivi la
condotta illecita di cui ora ci occupiamo non può essere neppure valutata come
addebito di colpa in relazione ai delitti di disastro innominato, avvelenamento
e adulterazione; si tratterebbe comunque di una inutile argomentazione in quanto,
come si vedrà in seguito, la prospettata illecita gestione delle discariche non
produsse, per una fortunata serie di circostanze, conseguenze giuridicamente
rilevanti sullo stato delle acque di falda, dei canali industriali, dei
sedimenti e del biota lagunare.
A conclusione di questo
capitolo si deve quindi affermare (a conferma di quanto sostenuto dal
Tribunale) che non esiste prova che dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82
vi sia stata, da parte degli imputati che all’epoca rivestivano funzioni di
garanzia, conferimento di rifiuti nelle discariche che formalmente risultavano
ormai chiuse.
3.3.2 OMESSA
APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA CONCERNENTE LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI IN
RELAZIONE AGLI APPORTI IDRICI TALI DA QUALIFICARSI RIFIUTI TOSSICO- NOCIVI E\O
RIFIUTI PERICOLOSI, CON CONSEGUENTE DIVIETO DI LORO SVERSAMENTO NELLE ACQUE
DELLA LAGUNA DI VENEZIA.
In questo capitolo viene
affrontato un problema molto dibattuto nel corso del giudizio di primo grado e
cioè quello della normativa applicabile ai reflui liquidi scaricati dal
Petrolchimico nelle acque della laguna.
Si deve ricordare che,
secondo l’ipotesi accusatoria, gli scarichi delle acque di processo provenienti
dai reparti CV 22\23 e CV 24\25 contenevano Cloruro di Vinile Monomero e
confluivano nel flusso in uscita dagli scarichi SM2 ed SM15 del Petrolchimico
finendo nelle acque dei canali lagunari.
La presenza del CVM
nelle acque di processo dei reparti CV 22\23 e CV 24\25 conferiva all’intero
flusso in uscita dagli scarichi principali sopra indicati il carattere di
“rifiuto tossico e nocivo”.
Conseguentemente,
secondo l’accusa, tutti i reflui provenienti dal Petrolchimico avrebbero dovuto
essere trattati come rifiuti “tossico – nocivi” nel rispetto delle disposizioni
di cui al D.P.R. 915\82, anziché come semplici scarichi idrici regolati dalle
disposizioni della Legge 10\5\1976 n.319 con l’osservanza dei parametri di
accettabilità di cui al D.P.R. n.962\1973, legge speciale “ratione loci”.
Il Tribunale, all’esito
della approfondita istruttoria dibattimentale, aveva invece ritenuto infondata
la tesi accusatoria sul punto in esame in quanto i flussi in uscita dagli
scarichi del Petrolchimico non potevano essere in alcun modo qualificati come
rifiuti tossico-nocivi e, di conseguenza, non avrebbero dovuto essere gestiti,
trattati e smaltiti secondo le norme del D.P.R. 915\82 in quanto in realtà
assoggettabili alla disciplina dello scarico delle acque, in fatto sicuramente
rispettata dato che tutti gli scarichi erano risultati debitamente autorizzati.
Anche tale parte della
sentenza di primo grado è stata oggetto di specifici motivi d’appello, sia da
parte del P.M., sia da parte dell’Avvocato dello Stato che, sull’argomento, si
è particolarmente cimentato anche con memorie depositate nel corso della discussione.
Alcune delle doglianze
avanzate dagli appellanti sono una mera riproposizione degli argomenti esposti
nel corso del giudizio di primo grado a sostegno della tesi accusatoria, ma
ritenuti infondati dal Tribunale con motivazione pienamente condivisibile.
In primo luogo, infatti,
gli appellanti sostengono che in base alla
normativa vigente all’epoca dei fatti qualsiasi scarico idrico, dovendo
essere considerato una “….sostanza…derivante da attività umane……destinata all’abbandono”
(art.2 D.P.R. 915\82) rientrava astrattamente nella previsione del D.P.R. sopra
citato, salvo verificare caso per caso la sussistenza delle condizioni che
eventualmente legittimassero l’applicazione delle discipline normative relative
agli scarichi nelle acque (Legge 319\76 e D.P.R. 962\73).
Secondo tale tesi
sarebbe la reale “tipologia del refluo” a definire se ad uno scarico sia
applicabile la legge 319\76 (e nella laguna di Venezia il D.P.R. 962\73) o se
invece sia applicabile la normativa generale sui rifiuti di cui al D.P.R.
915\82.
Ciò premesso, risulta
quindi necessario far ricorso alla normativa tecnica e di attuazione del D.P.R.
915\82 per accertare quali scarichi rientrino nella previsione della legge
319\76 e quali invece nell’ambito della più severa normativa concernente i
rifiuti.
La Deliberazione
27\7\1984 del Comitato Interministeriale previsto dall’art.5 D.P.R. 915\82
sancisce che possono essere regolati dalla Legge 319\76 tutti gli scarichi che
non derivano dalle attività produttive che figurano nell’elenco 1.3 della
stessa Deliberazione, mentre per quelle attività che figurano nel citato elenco
il soggetto obbligato deve dimostrare positivamente che i rifiuti prodotti non
sono classificabili tossici e nocivi provando che i reflui non contengono una o
più sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori
di concentrazione limite indicati nella stessa tabella e\o una o più delle
altre sostanze appartenenti ai gruppi di cui all’allegato al D.P.R. 915\82 in
concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite.
Nel caso in esame i
reflui dei reparti CV 22\23 e CV 24\25 provengono da attività riconducibili a
quelle indicate nella tabella 1.3 della Deliberazione del Comitato
interministeriale 27\7\1984 trattandosi di acque reflue di impianti di
produzione dei clorurati organici; conseguentemente gli imputati, per potersi
avvalere del regime più blando previsto dalla normativa per gli scarichi
idrici, avrebbero dovuto dimostrare che i reflui non contenevano sostanze
indicate nella tabella 1.1 in concentrazione superiore alla concentrazione
limite.
Tale prova non era stata
fornita dagli imputati, al contrario era stata accertata la presenza di CVM
negli scarichi anche in concentrazioni superiori ai limiti.
Tutto ciò, secondo la
tesi accusatoria, dimostrava che tutti i reflui convogliati negli scarichi del
Petrolchimico avrebbero dovuto essere considerati come rifiuti tossico\nocivi e
smaltiti tramite termodistruzione come previsto dal D.P.R. 915\82.
Ad avviso di questo
Collegio il Tribunale ha giustamente disatteso le argomentazioni della pubblica
accusa.
E’ noto il travaglio
giurisprudenziale e dottrinale che per molti anni ha caratterizzato la
trattazione del problema in esame.
I criteri fondamentali da
adottare per definire i campi di intervento delle due discipline normative
fondamentali in materia ambientale (D.P.R. 915\82 in materia di rifiuti e Legge
319\76 in materia di scarichi idrici) sono stati finalmente precisati e
riassunti nella pronuncia delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione del 27\10\1995 ripetutamente richiamata da
tutte le parti processuali a sostegno delle rispettive tesi.
In realtà una corretta e
lineare interpretazione di tale importante decisione della Suprema Corte consente
di risolvere in modo chiaro anche il problema che tanto si è dibattuto nel
presente procedimento.
Dalla lettura di tale
sentenza si rileva in primo luogo che il D.P.R. 915\82 regola l’intera materia
dei rifiuti al cui interno si inserisce “come cerchio concentrico minore” la
normativa relativa agli scarichi e cioè la Legge 319\76 e la legge speciale
“ratione loci” D.P.R. 962\73.
Dal punto di vista delle
caratteristiche fisiche delle sostanze destinate all’abbandono vi è poi la
distinzione fra le sostanze solide, per il cui smaltimento si deve far ricorso
alla disciplina fissata dal D.P.R. 915\82, e le sostanze liquide o a prevalente
contenuto acquoso, comunque convogliate o convogliabili in condotte, la cui
disciplina si ricava dalle disposizioni della Legge 319\76 e altre norme
speciali ratione loci.
Inoltre, ai sensi
dell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, sono soggetti alla disciplina degli
scarichi anche lo smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo dei
liquami e dei fanghi, compresi quelli residuati da cicli di lavorazione e da
processi di depurazione, a condizione che non appartengano alla classe dei
rifiuti tossico\nocivi. Infatti se i liquami e i fanghi di cui sopra risultano
essere tossico\nocivi si deve applicare allo smaltimento degli stessi la
normativa del D.P.R. 915\82.
L’ultimo principio
ricavabile dalla normativa e accuratamente evidenziato dalla sentenza della
Suprema Corte è quello per cui il D.P.R. 915\82 disciplina tutte le singole
operazioni di smaltimento dei rifiuti prodotti da terzi con esclusione delle
fasi concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili come i fanghi e i liquami
non appartenenti alla classe dei rifiuti tossico\nocivi).
Alla luce di tali
principi è inevitabile giungere alla conclusione che non può essere applicata
la normativa sui rifiuti ai reflui provenienti dai reparti CV del
Petrolchimico.
E’ pacifico e non
contestato dalle parti che nel caso in esame le sostanze destinate
all’abbandono non sono solide e, conseguentemente, non rientrano “per natura”
nella disciplina del D.P.R. 915\82.
Si tratta, al contrario,
di sostanze liquide convogliate di fatto in condotta ed immesse direttamente,
senza soluzione di continuità, nel corpo recettore previo trattamento e
abbattimento del carico inquinante; quindi, “per natura”, la disciplina
applicabile è quella degli scarichi di cui alla Legge 319\76 e, ratione loci,
al D.P.R. 962\73.
Fatta questa premessa,
si tratta ora di appurare se i reflui dei reparti CV possano rientrare nella
categoria dei “fanghi e liquami” per la quale è previsto il particolare regime
di cui al comma 6° dell’art.2 D.P.R. 915\82 con la conseguente necessità di
accertare se si tratta di rifiuti tossico\nocivi per poter determinare il
regime di smaltimento al quale devono essere sottoposti.
Sembra evidente che i
reflui del Petrolchimico non possono definirsi “fanghi” stante la loro natura
essenzialmente “liquida”.
Secondo gli appellanti
si tratterebbe di “liquami”, ma la tesi non appare accoglibile.
Dal complesso normativo
preso in esame si ricava in modo evidente che il legislatore, ricorrendo al
termine “liquame” abbia voluto far riferimento a quei rifiuti liquidi o
semiliquidi che vengono smaltiti in forma non canalizzata.
Significativa in tal
senso risulta la terminologia usata dal legislatore per indicare il modo con il
quale il liquame viene disperso nel corpo recettore dato che sia nell’art.2
lett.e) punto 2 della Legge 319\76, sia nell’art.2, comma 6° D.P.R. 915\82, usa
il termine “smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo” e non già il termine
“scarico”.
E’ noto che il termine
“smaltimento” viene usato per indicare qualsiasi modalità di sversamento di
rifiuti liquidi o semiliquidi nel corpo ricettore, mentre il termine “scarico”
indica tecnicamente la specifica modalità di sversamento effettuata mediante
canalizzazione continua e stabile.
In conclusione si può
quindi affermare che i liquami sono rifiuti liquidi o semiliquidi smaltiti in
modo diverso dallo scarico nel corpo recettore tramite canalizzazione.
Sul punto gli appellanti
hanno sostenuto che nel caso in esame non si potrebbe parlare di scarico
effettuato senza soluzione di continuità, ma di scarico indiretto e,
conseguentemente, i reflui dei reparti CV dovrebbero essere considerati rifiuti
liquidi per i quali sarebbe necessario accertare se sono tossico\nocivi o meno
per valutare la disciplina normativa applicabile.
L’argomentazione degli
appellanti si basa sul fatto che i reflui provenienti dai reparti CV 22\23 e CV
24\25 del Petrolchimico confluiscono nell’impianto di trattamento denominato SG
31 prima di essere scaricati in laguna; risulta altresì pacificamente che
l’impianto SG 31 è gestito da un soggetto giuridico diverso dal titolare dello
stabilimento Petrolchimico, di conseguenza il rapporto diretto tra le acque dei
reparti CV ed il corpo recettore risulta interrotto dall’attività di un
soggetto diverso dal produttore dello scarico.
Ci si trova quindi in
presenza di un c.d. “scarico indiretto” che, ai sensi del D.Leg.vo 152\99, non
può essere regolamentato dalla normativa sugli scarichi idrici, ma da quella
sullo smaltimento dei rifiuti.
Rileva questo Collegio
che effettivamente il D.Leg.vo 152\99, ridisegnando tutta la normativa sulla
tutela delle acque dall’inquinamento, ha fornito all’art.2, comma 1° lett. bb)
una precisa definizione del concetto di “scarico” precisando che si tratta di
“.qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide,
semiliquide e comunque convogliabili…” statuendo così che gli scarichi
indiretti sono esclusi dalla disciplina degli scarichi e assoggettati a quella
dei rifiuti.
Tuttavia la distinzione
fra scarico diretto e scarico indiretto è chiaramente riferita alla
conformazione naturalistica dello scarico in esame.
Lo scarico è diretto
quando non vi è soluzione di continuità nella canalizzazione che porta il
refluo dal luogo di produzione e quello di immissione nel corpo recettore.
Lo scarico è indiretto,
e quindi assoggettato alla disciplina sui rifiuti, quando non vi è una canalizzazione
continua fra luogo di produzione e luogo di immissione del refluo; in altre
parole la trasformazione del refluo in rifiuto liquido, con conseguente
applicazione della disciplina dei rifiuti, presuppone “l’interruzione
funzionale del nesso di collegamento diretto fra la fonte di produzione del
refluo ed il corpo recettore” (Cass. Sez. III, 24\2\2003 n.8758) attraverso il
trasporto extrafognario del refluo ( un esempio classico è costituito dal
trasporto dei reflui mediante autobotte o bettoline).
Non è possibile, invece,
ritenere uno scarico “indiretto” per il semplice fatto che una persona (fisica
o giuridica) diversa dal produttore del refluo sia titolare in tutto o in parte
dell’impianto di depurazione o della canalizzazione.
L’accoglimento di simile
tesi porterebbe infatti a conseguenze assurde ed inaccettabili; basta pensare a
tutti coloro che si servono di un impianto di trattamento o depurazione
consortile che si troverebbero in aperta violazione della norma penale perché
smaltiscono senza autorizzazione rifiuti liquidi.
Riassumendo quanto fin
ad ora esposto si deve quindi convenire con quanto affermato dal Tribunale sul
punto in esame e cioè che le tesi di accusa sulla necessità di qualificare i
reflui di derivazione da alcuni reparti del Petrolchimico come rifiuti
tossico\nocivi sono infondate.
Si tratta infatti di
reflui che per la loro natura fisica (liquidi) e per le modalità di smaltimento
(mediante canalizzazione stabile e continua dal luogo di produzione a quello di
sversamento nel corpo recettore) devono essere regolati dalla normativa sugli
scarichi idrici (Legge 319\76 e D.P.R. 962\73 ratione loci).
Per le argomentazioni
sopra esposte si deve altresì escludere che gli stessi reflui rientrino
nell’eccezione prevista dal comma 6° dell’art.2 del D.P.R. 915\82 con la
conseguente necessità di accertare se si tratti di rifiuti tossico\nocivi o
meno al fine di determinare la disciplina applicabile per lo smaltimento degli
stessi. Infatti gli scarichi idrici sono regolati dalle disposizioni della
Legge 319\76 ( e del D.P.R. 962\73) indipendentemente dalla qualità e dalla
quantità di sostanze inquinanti che contengono purché vengano rispettati i
limiti tabellari previsti per ciascuna sostanza al momento della confluenza
dello scarico nel corpo recettore.
Quest’ultima
affermazione ha trovato una precisa conferma normativa nel disposto dell’art.2,
comma 1° lett. bb) del D.Leg.vo 11 maggio 1999 n.152 che ha definito “scarico”:
“qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide,
semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel
sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante,
anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”.
Gli imputati non avevano
quindi alcun onere di provare che i reflui non contenevano le sostanze indicate
nella tabella 1.1 della Deliberazione 27\7\1984 del Comitato Interministeriale
in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite, né le altre
sostanze di cui all’allegato al D.P.R. 915\82 proprio perché tali reflui non
erano assoggettabili alla disciplina relativa ai rifiuti, ma a quella
concernente gli scarichi idrici.
Si deve a questo punto
ricordare che l’Avvocato dello Stato, con una memoria depositata all’udienza
del 26\11\2004, dopo aver riproposto le tesi e gli argomenti discussi in primo
grado e dei quali si è sopra detto, ha voluto ricordare che i reflui derivanti
dagli impianti CV sono da vari anni, e cioè dal 1997, facilmente individuabili
nel Catalogo Europeo dei Rifiuti in cui essi sono identificati in relazione
alla loro provenienza e alle loro caratteristiche con uno specifico codice
(CER), senza dimenticare che in precedenza (fin dal 1994) gli stessi reflui
erano identificati e qualificati come rifiuti liquidi nel Codice Italiano
Rifiuti definito dalla Legge n.70\94.
La classificazione dei
reflui in questione come rifiuti confermerebbe quindi per l’Avvocato dello
Stato che gli stessi dovevano essere smaltiti secondo le norme concernenti i
rifiuti e non già in base a quelle regolanti gli scarichi idrici.
Ad avviso di questo
Collegio anche questa argomentazione dell’accusa non risulta fondata. Risulta
infatti evidente che i codici richiamati dall’appellante hanno il compito di
definire la tipologia delle varie sostanze che in precedenza siano già state
classificate come rifiuti e non già per determinare il confine fra
l’applicazione della disciplina dei rifiuti e quella delle acque.
Lo stesso Magistrato
alle Acque, autorità preposta istituzionalmente alla vigilanza sugli scarichi e
sulla tutela della laguna, con interpretazione corretta e puntuale della
normativa vigente in materia, non ha mai posto agli imputati il problema della
eventuale applicazione della disciplina dei rifiuti agli scarichi del
Petrolchimico, avendo sempre rilasciato autorizzazioni allo scarico ai sensi
della disciplina sulle acque di cui prima alla Legge “Merli” n.319\76 e poi al
D.Leg.vo 152\99.
Giunti a queste
conclusioni appare logico non occuparsi in questa sede della complessa
discussione sorta tra le parti processuali nel corso del giudizio di primo
grado e riproposta nei motivi d’appello circa gli accertamenti fatti sui reflui
in questione dal dr. Cocheo, consulente dell’accusa privata rappresentata
dall’Avvocato dello Stato.
Il dr. Cocheo, nel corso
del giudizio di primo grado, aveva infatti riferito di aver accertato,
utilizzando i rilievi effettuati da un gascromatografo che controllava la
concentrazione di CVM sulla vasca di neutralizzazione posta immediatamente
prima dell’impianto di depurazione SG 31, la presenza in tale vasca di CVM in
concentrazioni superiori al limite fissato dalla Delibera 27\7\1984 del
Comitato Interministeriale perché il rifiuto debba essere considerato
tossico\nocivo in almeno dieci occasioni.
Sulle affermazioni del
consulente Cocheo si è svolta una accanita battaglia processuale in quanto i
consulenti delle Difese hanno contestato i risultati degli accertamenti
sostenendo che il dr. Cocheo aveva effettuato i suoi calcoli applicando una
legge della termodinamica sbagliata (la legge di Raoult anziché la legge di
Henry) e di conseguenza aveva calcolato erroneamente le concentrazioni di CVM
nelle acque di scarico giungendo a risultati enormemente superiori a quelli che
si sarebbero ottenuti applicando la legge della termodinamica corretta.
Come si è detto, le
parti si sono ripetutamente scontrate sui risultati dei rispettivi consulenti
circa la presenza o meno nelle acque di scarico del Cloruro di Vinile Monomero
e circa il superamento o meno delle concentrazioni limite.
Ad avviso di questo
Collegio la soluzione di tale problematica appare assolutamente inutile ai fini
della decisione.
Una volta appurato che i
reflui dei reparti CV erano e sono soggetti al regime degli scarichi idrici e
non a quello dei rifiuti, risulta inutile sapere se gli stessi contenevano CVM
e in che quantità, tenuto conto del fatto che comunque la presenza di CVM non
avrebbe imposto una modifica del regime normativo applicabile agli scarichi che
avrebbero continuato ad essere regolati dalle disposizioni della Legge 319\76 e
del D.P.R. 962\73.
In conclusione
l’eventuale presenza di CVM nei reflui dei reparti CV non risulta aver alcuna
rilevanza circa la sussistenza di violazioni penalmente rilevanti del D.P.R.
915\82, non applicabile agli scarichi idrici, ma risulta irrilevante anche come
addebito di colpa in relazione ai contestati delitti di disastro innominato,
avvelenamento e adulterazione.
Occorre premettere sul
punto che non risulta acquisito agli atti alcun bollettino di analisi attestante
la presenza di CVM nelle acque di scarico, ma, anche se si volesse ritenere
provato tale fatto, resta comunque il dato incontroverso che il CVM non ha
contaminato né le acque della laguna, né i sedimenti dei canali, né il biota.
L’accusa pubblica e le
accuse private non hanno mai prospettato un inquinamento della laguna, dei
sedimenti e del biota ad opera del CVM e ciò per motivi scientifici precisi
riferiti in dibattimento dallo stesso dr. Cocheo, consulente dell’accusa, nel
corso dell’udienza del 15\5\2001.
Il CVM è un gas che
immesso in acqua evapora dopo un breve tempo; conseguentemente non può
oggettivamente accumularsi né in acqua, né nei sedimenti, né nei pesci.
La tesi accusatoria circa
la presenza di CVM negli scarichi idrici del Petrolchimico risulta quindi
irrilevante rispetto alla contestazione di disastro o di avvelenamento e
adulterazione in quanto l’asserito omesso trattamento e smaltimento dei reflui
che si pretendono contaminati da CVM nelle forme previste dal D.P.R. 915\82 non
risulta comunque correlabile ad alcun evento rispetto al quale abbia un senso
porre il problema della colpa per violazione di regole a contenuto cautelare.
A questo punto bisogna
però ricordare che il Procuratore Generale, con memorie depositate il 6\7\2004,
ha sostenuto che la scelta operata dagli imputati di smaltire come scarichi
idrici, anziché come rifiuti tossico\nocivi, i reflui provenienti dagli
impianti di CV aveva comunque provocato un incremento della contaminazione
dell’ambiente lagunare da rame e da diossine tenuto conto del fatto che nel
ciclo produttivo del CVM ottenuto presso il reparto CV 22 dal cracking del
1,2-Dicloroetano si ha la formazione, a seguito di reazioni parassite, di PCDD (Poli
Cloro Dibenzo Diossina) e di PCDF (Poli Cloro Dibenzo Furani) e che il cloruro
di rame, supportato su matrice di allumina, costituisce il catalizzatore
utilizzato presso il reparto CV 23 nel processo produttivo del
1,2-Dicloroetano.
Sulla base della
relazione tecnica depositata il 30\3\2001 dai consulenti Roberto Carrara e
Luigi Mara, nonché di uno studio effettuato da P. Isosaari a proposito di un
impianto di produzione di CVM situato
in Finlandia, si era calcolato l’incremento dell’inquinamento da Rame e da
PCDD\PCDF dei diversi comparti ambientali derivante dalla produzione di CVM
presso il Petrolchimico di Marghera.
In conclusione era stato
possibile stimare che per ogni 100.000 tonnellate di CVM prodotte a Marghera si
erano formate una quantità di PCDD\F corrispondente a un valore I-TEQ di 69,48
grammi nel periodo compreso fra il 1980 e il giugno 2003.
Le stime delle quantità
di diossine e di rame prodotte e scaricate dal Petrolchimico nel corso degli
anni, così come sono state prospettate ed esposte dal P.G., hanno subito aspre
critiche da parte dei difensori degli imputati.
In primo luogo si è
evidenziato da parte della Difesa che le stime dei Consulenti del P.M. erano
state ottenute trasponendo in modo assolutamente acritico alla realtà di Porto
Marghera i dati pubblicati nello studio di Isosaari a proposito di un impianto
finlandese.
Sul punto le parti hanno
molto discusso anche in sede di esame delle istanze di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale ed è stato possibile accertare che l’impianto
di Porto Marghera e quello Finlandese potevano essere difficilmente comparati
essendo molto diverse le modalità di gestione dei residui della produzione e
del trattamento delle acque reflue che in Finlandia venivano lasciate
sedimentare in due laghetti situati presso l’impianto, mentre a Marghera
venivano sottoposte a trattamento di strippaggio dei clorurati a piè di
impianto e poi a trattamento chimico – fisico – biologico ed i fanghi di
risulta venivano inviati a incenerimento e non abbandonati sul terreno come in
Finlandia.
A parte tali
considerazioni che rendono poco accettabile il confronto fra i due impianti di
produzione del CVM, bisogna anche ricordare che la Difesa ha contestato i
risultati dell’indagine prospettati dal P.G. anche perché in palese contrasto
con quanto riportato in letteratura.
L’avv. Mucciarelli,
nella memoria depositata in data 1\12\2004, evidenzia che: “Dall’inventario
delle emissioni annuali di PCDD\F degli impianti di produzione di DCE e CVM per
gli anni 1995-1998 si ricava per l’intera produzione USA, Giappone e Belgio
e per i vari comparti ambientali (atmosfera, acqua, suolo) un valore di
35,05 grammi di I-TEQ anno a fronte di un valore stimato dai consulenti
dell’accusa di 69,48 grammi I-TEQ per 100.000 t di CVM prodotto….Nella
pubblicazione di Caroll ed altri (“Organohalogen Compounds 1999”) prodotta dal
P.M. nel processo di primo grado si legge testualmente che “supponendo che tutti i siti PVC degli USA
emettano PCDD\F alla concentrazione media riportata per i sei siti inclusi in
questo studio, le emissioni totali di PCDD\F sarebbero all’incirca di 0,011
grammi o 0,15 grammi per anno. Analogamente le emissioni totali annue dalle
acque di scarico trattate dagli impianti di produzione DCE, CVM e DCE\CVM\PVC
statunitensi sono stimate a 0,032 o 0,17 grammi.”
I quantitativi di PCDD\F
stimati dall’accusa come prodotti dagli impianti del CV 11 CV22 e CV 23 del
Petrolchimico sarebbero di gran lunga superiori a quanto riportato in
letteratura per impianti simili e risultano incompatibili con le emissioni di
PCDD\F a livello internazionale riportate nella letteratura
scientifica”.(pagg.21 e 22).
A fronte di questo
evidente e macroscopico contrasto fra i dati forniti dall’accusa e quelli
forniti dalla difesa circa i quantitativi di PCDD\F stimati come prodotti dagli
impianti CV del Petrolchimico bisogna anche rilevare che si parla sempre di
quantitativi di diossine prodotte e non già di quantitativi effettivamente
scaricati in laguna.
Il P.G. nella memoria
tecnica depositata il 13\5\2004 e nella memoria depositata il 6\7\2004 mette in
rilievo la circostanza che i reflui dei reparti CV confluivano nell’impianto di
trattamento centralizzato chimico – fisico – biologico SG 31 pacificamente
inidoneo ad effettuare una qualche biodegradazione – depurazione dei composti
organici clorurati ecopersistenti come le PCDD\F.
Da ciò si dovrebbe
dedurre che tutta la diossina prodotta finisca nelle acque della laguna, ma ciò
non è risultato vero.
Infatti se è vero che il
trattamento biologico non è in grado di abbattere direttamente le diossine è
altresì vero che lo stesso trattamento biologico favorisce l’assorbimento delle
diossine nei fanghi che ne trattengono la quasi totalità; i fanghi impregnati
di diossine vengono poi inviati all’inceneritore per la distruzione.
Ciò spiega perché lo
stesso Ministero dell’Ambiente con il Decreto del 26\5\1999 individuando e
prescrivendo le migliori tecnologie disponibili da applicare agli impianti
industriali di Porto Marghera ha inserito fra le migliori tecnologie per
l’abbattimento delle diossine (PCDD equivalenti) proprio il trattamento
biologico.
Tornando ora al problema
della individuazione dei quantitativi di diossine effettivamente sversate in
laguna si deve prendere atto che l’accusa non ha fornito elementi concreti e
precisi, vi sono però dei dati ufficiali forniti da pubbliche autorità e che,
dal punto di vista processuale, assumono una rilevanza determinante.
Vi è in primo luogo il
Decreto 26\5\1999 del Ministero dell’Ambiente che, con particolare riferimento
all’area di Porto Marghera, indica l’apporto totale di diossine in laguna
attraverso gli scarichi del Petrolchimico nell’ordine di una decina di mg\anno
e l’apporto complessivo di tutte le fonti di contaminazione per l’intera area
di Porto Marghera nell’ordine delle decine di milligrammi l’anno.
Né possiamo dimenticare
la “Relazione sulle caratteristiche degli scarichi idrici dell’area di Porto
Marghera – Dati relativi al 1999” del Magistrato alle Acque che dopo aver
segnalato che “i microinquinanti organici (diossine, IPA, PCB) sono stati
ricercati solo nei principali scarichi del Petrolchimico (SM 15, SM 22, SM 2),
negli scarichi della raffineria Agip Petroli e nello scarico dell’impianto di
depurazione ASPIV” conclude affermando che “alla luce di valutazioni derivanti
da campagne svolte negli anni precedenti la stima del carico inquinante totale
per l’intera area di Porto Marghera potrebbe essere per le diossine delle
decine di milligrammi, espressi come fattore di tossicità equivalente (I-TE)”.
Si tratta di valori
enormemente inferiori rispetto alle stime dei consulenti dell’accusa e non
rilevanti penalmente ai fini delle contestazioni dei reati di disastro
innominato, di avvelenamento e di adulterazione.
Il P.G. ha anche fatto
riferimento ad un incremento della contaminazione da rame, ma si tratta di un
argomento che non sembra avere alcun rilievo processuale in quanto non è mai
stato contestato agli imputati di aver effettuato scarichi contenenti rame in
quantità superiore ai limiti di concentrazione posti dalla legge né di aver
provocato l’avvelenamento o l’adulterazione delle acque, dei sedimenti e del
biota con un eccesso di rame.
Nel merito basterà
ricordare che lo stesso Ministero dell’Ambiente nel Decreto del 26\5\1999, già
più volte citato, precisa che: “Il rame è un elemento comune nell’acqua
potabile e deriva in parte dall’erosione delle rocce e in parte da fonti
artificiali (industria ma soprattutto dall’erosione dei componenti di trasporto
dell’acqua e dai sali di rame usati per il controllo delle alghe). L’indagine
dell’USEPA assegna una concentrazione media nell’acqua che viene distribuita
alle utenze pari a 45 microgrammi per litro. Il rame è un elemento chiave nella
dieta con un’ingestione suggerita di almeno 2 milligrammi al giorno. Il rame in
eccesso viene normalmente espulso ma, ad alte dosi, può determinare irritazione
del tratto gastrointestinale. Il rame non è ritenuto cancerogeno”.
Con ciò si può quindi escludere
che eventuali apporti di rame da parte del Petrolchimico alle acque della
laguna abbiano una qualche rilevanza al fine di decidere il presente
procedimento.
A conclusione di questo
capitolo si deve quindi confermare la sentenza del Tribunale anche nella parte
in cui ha ritenuto applicabile ai reflui provenienti dai reparti CV del
Petrolchimico la normativa concernente gli scarichi idrici anziché quella
relativa ai rifiuti.
CAPITOLO 3.4 APPELLO
P.M.
OBBLIGO DI ATTIVARSI
PER I SITI INQUINATI DA TERZI ANTECESSORI
A proposito
dell’argomento trattato in questo capitolo dei motivi d’appello del P.M.
bisogna ricordare che nel capo d’imputazione viene, fra l’altro, contestato
agli imputati indicati alla lett. B) (Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri,
Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Parillo,
Patron e Necci) una responsabilità penale, a titolo di concorso nei contestati
reati di disastro e avvelenamento, in relazione al fatto che, una volta
subentrati nelle rispettive cariche all’interno della società, avevano omesso
di effettuare interventi di bonifica o di messa in sicurezza di quelle
discariche realizzate e gestite in passato dai propri predecessori ed ormai
chiuse.
La contestazione, basata
su una ipotesi di responsabilità per omesso impedimento dell’evento ex art. 40
cpv. c.p., si fonda sulla asserita sussistenza di un obbligo giuridico di
attivarsi in relazione a siti contaminati da terzi antecessori.
Il Tribunale ha ritenuto
infondato l’assunto accusatorio affermando il principio che il mero mantenere
nell’area rifiuti scaricati o fatti scaricare da altri, quando ormai la
discarica sia stata chiusa non rientra nel concetto di gestione di discarica
penalmente rilevante.
Il primo Giudice è
giunto a tale conclusione facendo proprie le argomentazioni sul punto della
sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 5\10\1994.
La Suprema Corte,
chiamata a dirimere un contrasto giurisprudenziale sulla questione se i reati
di gestione e realizzazione abusiva di discarica, nel sistema del D.P.R.
915\82, fossero reati istantanei o permanenti e, in quest’ultima ipotesi, quale
fosse la portata della permanenza, aveva con estrema chiarezza statuito che: “
La gestione di discarica senza autorizzazione presuppone l’apprestamento di
un’area per raccogliere i rifiuti e consiste nell’attivazione di una
organizzazione, articolata o rudimentale non importa, di persone, cose e\o
macchine diretta al funzionamento della discarica. Il reato è permanente per
tutto il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva.
Il fatto però che il
reato di discarica sia permanente non significa che esso comprenda anche il
mero mantenere nell’area i rifiuti scaricativi o fattivi scaricare da altri,
quando ormai la discarica sia stata chiusa o soltanto disattivata. Con la
conseguenza che è estraneo al reato chi sia subentrato e si trovi l’area con i
rifiuti ammassativi da quegli che in precedenza vi aveva gestito la
discarica…All’attuale detentore non è fatto alcun obbligo di controagire e cioè
di intervenire per la rimozione dei rifiuti dal terreno entrato nella sua
disponibilità”.
Si ricorda che la sopra
citata sentenza delle Sezioni Unite si inseriva nel solco di una preesistente
giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass.14\2\1992; Cass.29\1\1993 e Cass.
5\11\1993).
Gli appellanti P.M. e
Avvocato dello Stato contestano le conclusioni alle quali è pervenuto il
Tribunale seguendo fedelmente i principi fissati dalla Cassazioni a Sezioni
Unite.
In primo luogo, da un
punto di vista testuale, si sostiene che nei concetti di “gestione di
discarica” e di “smaltimento di rifiuti tossici” non possono includersi il solo
conferimento e accumulo dei rifiuti senza ricomprendervi il mantenimento degli
stessi.
Secondo gli appellanti
sarebbe sufficiente scorrere il dettato degli artt.10 e 16 del D.P.R. 915\82
per rendersi conto che nel concetto di “gestione della discarica” e di
“smaltimento dei rifiuti tossici” sono state sempre ricompresse non solo le
fasi del conferimento e deposito dei rifiuti, ma anche quelle successive
all’esaurimento dell’impianto, necessarie per il controllo e la messa in
sicurezza del medesimo.
In particolare l’art.16
del D.P.R. 915\82 precisa che l’autorizzazione allo stoccaggio definitivo in
discarica dei rifiuti tossico\nocivi deve contenere “le modalità e le cautele
da osservare per l’esercizio della discarica controllata anche dopo la sua
chiusura”.
Dal dettato della norma
si desume che anche dopo la cessazione del conferimento dei rifiuti vi è
comunque un esercizio, una gestione della discarica e che anche tale fase della
gestione risulta talmente delicata e fondamentale da imporre puntuali
prescrizioni autorizzatorie da parte dell’autorità di controllo; alcune di tali
cautele gestionali relative alla fase “post-operativa” o “passiva” del sito
sono addirittura specificamente indicate negli artt.16 e 10 del D.P.R. 915\82
come ad esempio la ricopertura della discarica e il riutilizzo dell’area nei
modi e nei tempi stabiliti nella stessa autorizzazione.
Si deve inoltre
ricordare la Delibera Interministeriale 27\7\1984 (contenente disposizioni per
la prima applicazione del D.P.R. 915\82) che al punto n.4.2 con riferimento
allo stoccaggio definitivo in discariche stabiliva testualmente che: “ i
sistemi di drenaggio e captazione del percolato, nonché l’eventuale impianto di
trattamento del medesimo dovranno essere mantenuti in esercizio anche dopo la
chiusura della discarica stessa, e a carico del gestore di quest’ultima, per il
periodo di tempo che sarà stabilito dall’autorità competente”, ponendo così a
carico del gestore della discarica un evidente obbligo positivo di attivarsi
per impedire lo sversamento di percolato in discariche già esaurite.
Anche la successiva
normativa sui rifiuti introdotta dal D.Lgs.vo 5\2\1997 n.22 aveva confermato le
prescrizioni sopra indicate nel punto in cui, fornendo la definizione di
“gestione dei rifiuti” (art.6 lett.d), vi includeva espressamente “il controllo
delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura”.
Per gli appellanti la corretta
interpretazione ed applicazione della normativa evidenziava che la condotta
omissiva integrante i reati di cui agli artt.25 e 26 D.P.R. 915\82 non era
tanto il semplice mantenimento o la mancata rimozione dei rifiuti accumulati su
una determinata area, quanto la mancata attuazione di tutte quelle cautele
gestionali, imposte dalla normativa tecnica, necessarie per prevenire
l’inquinamento provocato dagli stessi rifiuti.
Secondo il P.M. tale
“interpretazione della normativa statale si impone anche alla luce della
disciplina comunitaria recepita nel nostro Paese con il D.P.R. 915\82,
dapprima, e con il D.Lgs. n.22\1997, successivamente”. In particolare l’art.4
della Direttiva 75\442\CE stabilisce che gli Stati membri devono adottare “le
misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti
senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che
potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e in particolare senza creare rischi
per l’acqua, l’aria, il suolo..
Sulla base di tale
disposizione la Corte di Giustizia C.E., con decisione del 9\11\99, aveva
desunto l’obbligo, in capo al detentore di un’area utilizzata in passato come
discarica abusiva, di adottare le misure necessarie per impedire la protrazione
del persistente degrado ambientale.
Rileva questo Collegio
che in realtà gli artt. 10 e 16 del D.P.R. 915\82 e le disposizioni della
Delibera Interministeriale 27\7\1984 stabiliscono il contenuto tassativo delle
autorizzazioni prevedendo una serie di “prescrizioni” che devono essere
indicate nelle autorizzazioni stesse, ma non fissano direttamente degli
“obblighi” in capo al titolare della discarica, ma dei meri oneri di gestione
il cui mancato rispetto viene sanzionato dall’art 27 D.P.R. 915\82.
Le disposizioni di cui
al D.Lgs. 22\97 non sembrano confermare la tesi degli appellanti. Infatti
l’art.17 del citato Decreto introduce in Italia per la prima volta “gli
obblighi di bonifica e ripristino ambientale” che vengono però posti a carico
di “chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti”
di contaminazione del sito “ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di
superamento dei limiti medesimi….”
Quindi neppure il D.Lgs.
22\97 prevede obblighi di bonifica a carico del proprietario in quanto tale, al
di fuori dell’ipotesi di concorso nel fatto dell’inquinamento. In questo senso
si è subito orientata la giurisprudenza della Suprema Corte che ha
puntualizzato che anche ai sensi del decreto Ronchi non integra il reato di
“realizzazione” o di “esercizio” di discarica abusiva la condotta di chi,
avendo la materiale disponibilità di un’area sulla quale altri abbiano
abbandonato in epoca pregressa rifiuti, si limiti a non attivarsi perché
vengano rimossi (Cfr. Cass. III, 2\7\1997); e successivamente stabilendo con
riferimento all’art.51 bis D.Lgs. 22\97 – che punisce chi cagiona
l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto
dall’art.17 – che tale norma non è applicabile a chi rivesta la qualità di
proprietario senza aver posto in essere alcuna condotta incidente sul pericolo
di inquinamento del sito, a questi può applicarsi esclusivamente la
responsabilità solidale in sede amministrativa e civile per l’onere reale
derivante dai commi 10 e 11 dell’art.17 (Cfr. Cass. III, 28\4\2000).
Non sembra possibile,
poi, desumere un obbligo giuridico di attivarsi in capo al detentore di un’area
utilizzata in passato come discarica abusiva dai principi fissati dall’art.4
della Direttiva 75\442\CE, così come è stato prospettato dagli appellanti.
Si tratta, in vero, di una normativa
comunitaria che ha per destinatari esclusivamente gli Stati membri e dalla
quale non può farsi discendere direttamente la sussistenza nel nostro
ordinamento di un obbligo giuridico di attivarsi per l’attuale titolare di
un’area inquinata dai suoi predecessori; inoltre la norma citata dagli
appellanti prescrive genericamente l’adozione di misure necessarie senza
determinarne il contenuto concreto proprio in considerazione del fatto che si
tratta di una disposizione di natura meramente programmatica.
Il richiamo fatto dal
P.M. alla sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 9\11\99
non appare idoneo a fornire elementi per risolvere la questione della
responsabilità omissiva del proprietario subentrante dopo la cessazione
dell’attività di discarica.
Infatti è vero che nella
sentenza citata la Corte europea aveva statuito che la Repubblica italiana non
aveva correttamente e integralmente attuato l’art.4 ed altri principi della
Direttiva 75\442\CE in relazione ad un’area ove vi era uno scarico di materiali
biologici e chimici provenienti da strutture ospedaliere, omettendo di adottare
“le misure necessarie per obbligare il gestore della discarica abusiva a
consegnare i rifiuti ad un raccoglitore privato o pubblico o ad un’impresa di
smaltimento”, ma è facile rilevare che nella sentenza si parla, con riguardo
alla stessa persona, di “gestore” della discarica e di “detentore” dei rifiuti
e da ciò si ricava che le due qualità erano compresenti nello stesso soggetto.
Situazione, quindi, completamente diversa da quella di cui dobbiamo occuparci.
Tutte le norme citate
dagli appellanti sono dirette a regolare un ambito ben definito e cioè il tipo
e l’estensione degli oneri inerenti la gestione di una discarica autorizzata
dopo che la stessa venga a cessare l’attività in quanto è evidente che chi
smette l’esercizio di una discarica non può disinteressarsi degli eventuali
effetti nocivi provocati dai rifiuti che vi sono contenuti.
Non appare invece
legittimo vincolare a questi stessi oneri chi, come nel caso in esame, sia
subentrato nella proprietà di terreni occupati da una discarica non sottoposta
a controllo e senza averla mai gestita, dopo che l’attività della stessa è
ormai cessata.
Utilizzare le norme
indicate per ricavarne obblighi penalmente rilevanti con riferimento ad una
situazione diversa (anche se simile) da quella che vi è espressamente
disciplinata e nei confronti di soggetti (proprietari subentranti) diversi
dalle persone (gestori della discarica) cui quelle norme si rivolgono finirebbe
per estendere gli estremi del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice
in aperta violazione del principio di tassatività del precetto sancita
dall’art.25 della Costituzione e dall’art.1 c.p.
La questione è stata
affrontata espressamente nella citata sentenza 5\10\94 della Cassazione a
Sezioni Unite che, proprio al fine di definire e delimitare il contenuto del
concetto di “gestione” di discarica, ricorda che l’avverbio “espressamente”
contenuto nell’art.1 c.p. : “lungi dall’essere pleonastico, impone
all’interprete di attenersi alla dizione della norma, che si suppone chiara,
senza indulgere a interpretazioni analogiche, e, ove chiara non sia, gli
impedisce comunque di adottare interpretazioni che si discostino dal dettato
della norma stessa. E ciò al fine di evitare che il cittadino si trovi esposto
a responsabilità di maggior ampiezza rispetto alla responsabilità cui era
espressamente chiamato”.
Il P.M. e l’Avvocato
dello Stato hanno poi sostenuto che la sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite non
avrebbe avuto l’avvallo della giurisprudenza successiva che, al contrario,
avrebbe confermato le tesi degli appellanti e, sul punto, sono state citate
varie decisioni di merito e di legittimità.
Anche tale assunto non è
risultato fondato.
E’ stata ricordata la
sentenza 31\1\95 del Pretore di Terni nella quale il giudice, pur dichiarando
di aderire ai principi di diritto fissati dalla sentenza 5\10\94 delle Sezioni
Unite, ha anche affermato la necessità di accertare con particolare rigore,
sotto il profilo soggettivo, il comportamento del nuovo proprietario di un’area
che trova in loco i rifiuti smaltiti abusivamente, precisando che devono
considerarsi quali comportamenti attivi di gestione di una discarica ormai
esaurita anche comportamenti apparentemente passivi, ma di fatto commissivi,
come ad esempio la semplice custodia dell’area già adibita a discarica.
In realtà il Pretore si
era limitato a rilevare che da un comportamento di mero subentro passivo nella
titolarità del sito (ritenuto non sufficiente ad integrare una condotta di
gestione abusiva di discarica), si doveva tenere distinta una condotta soltanto
apparentemente passiva, ma che in realtà nascondeva una “sotterranea attività
gestionale di fatto della discarica; magari anche come semplice custodia per il
futuro, dopo la iniziale realizzazione e gestione attiva in senso stretto”.
La sentenza citata
conferma quindi il principio che il reato in esame può integrarsi solo con una
condotta commissiva anche se dissimulata dietro ad un comportamento solo
apparentemente passivo. Il P.M. cita poi, a sostegno della sua tesi, la
sentenza 4\11\94 della Cassazione, Sez.III, per la quale: “ il concetto di
gestione di discarica abusiva ex art.25 D.P.R. 915\82 deve essere inteso in
senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo,
diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave
stato del fatto reato, strutturalmente permanente”.
Appare difficile
considerare la sentenza sopra citata come una aperta presa di posizione
contraria ai principi fissati dalle Sezioni Unite in quanto si tratta di
sentenza pronunciata prima del deposito di quella delle Sezioni Unite avvenuto
il 28\12\94. Comunque la sentenza della Sezione III aveva per oggetto condotte
diverse da quelle contestate agli odierni imputati e cioè l’aver “consentito e
tollerato” la gestione di rifiuti in discarica; si trattava cioè di condotte
concomitanti alla gestione della discarica e non successive ad essa.
E’ infatti evidente che per tutta la durata
della gestione attiva della discarica possono assumere rilievo, a titolo di
concorso, anche condotte di natura omissiva che si concretizzino, ex art.40 cpv.
c.p. nella violazione di precisi obblighi di intervento previsti dalla norma.
Ma si tratta di situazione diversa rispetto a quella di chi, subentrato nella
titolarità di un sito contaminato in precedenza da altri con attività ormai
cessata, ometta di attivarsi per rimuovere i rifiuti o per bonificare l’area.
Argomentazioni analoghe
valgono in relazione al contenuto della sentenza 17\12\96 della Cassazione
citata dal P.M. a pagina 1141 dei suoi motivi in quanto relativa al
comportamento omissivo del titolare di un sito che in tal modo agevolava la
gestione “in corso” di una discarica.
Più interessante appare
invece il richiamo alla sentenza 11\4\97 della Sez.III della Cassazione ove si esprime
un giudizio critico sulla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del
5\10\94 in quanto avrebbe reso “ondivago” il termine di cessazione della
permanenza del reato ancorandolo alla emissione o meno da parte del Sindaco di
un provvedimento di rimozione dei rifiuti senza includere nella nozione di
gestione della discarica il mantenimento della stessa senza alcun conferimento
ovvero l’obbligo di rimessione in pristino. La sentenza però risulta
pronunciata nell’ambito di un procedimento penale in cui l’imputato era il
gestore attivo di una discarica ed il rilievo mosso alla decisione delle
Sezioni Unite appare come una obiezione ad una soluzione formulata in forma
ipotetica dalle stesse Sezioni Unite circa un possibile rimedio ad eventuali
vuoti di tutela e cioè la via di un eventuale provvedimento di rimozione dei
rifiuti nei confronti di chi succeda nella disponibilità del sito contaminato
da altri antecessori.
Per completare l’esame
della giurisprudenza ritenuta dagli appellanti in contrasto con i principi
fissati dalla sentenza 5\10\94 delle Sezioni Unite si deve ora ricordare che
l’Avvocato dello Stato, nella memoria depositata in data 2\12\2004, ha
ricordato la sentenza 14\5\2004 della Cassazione Sez.III che ha statuito : “In
tema di smaltimento dei rifiuti, integra il reato omissivo punito dall’art.50,
comma 2° del D.Lgs. 22\97, la mancata osservanza dell’ordinanza sindacale
emanata ai sensi dell’art.14, comma 3° del citato decreto, con la quale si
intima al proprietario (o possessore) dell’immobile, ove risulta giacente un
deposito incontrollato di rifiuti, la rimozione degli stessi, senza che possa
avere rilevanza il fatto che l’accumulo dei rifiuti non sia ascrivibile al
comportamento del destinatario dell’intimazione o risalga a tempi antecedenti
l’acquisto dell’immobile stesso”.
Anche in questo caso si
tratta di una situazione diversa da quella che ora interessa in quanto
l’obbligo giuridico di bonificare l’area gravante in capo al proprietario
incolpevole del sito trova una fonte precisa e legittima nell’ordinanza
sindacale e non nella semplice detenzione dei rifiuti.
In conclusione si può
affermare che la giurisprudenza successiva alla decisione delle Sezioni Unite
non si è mai discostata in modo sostanziale dai principi di diritto fissati in
tale decisione ed è anzi possibile ricordare anche varie sentenze perfettamente
conformi agli stessi principi (Cfr Cass.2\7\97 n.8944; App. Catanzaro 3\6\98,
Caputo).
A conclusione di quanto
detto fin ora si può quindi affermare l’insussistenza di un obbligo di
controagire, sulla base della normativa vigente, in capo a chi sia subentrato
nella titolarità di un sito contaminato dai suo predecessori e ciò comporta che
non lo si può ritenere responsabile né di violazioni contravvenzionali, né di
disastro innominato, né di avvelenamento o adulterazione.
La posizione di garanzia
è un elemento costitutivo della fattispecie penale e deve trovare fondamento in
specifiche norme di legge che regolino tassativamente il caso previsto.
L’obbligo giuridico
rilevante ai sensi dell’art.40, comma 2° c.p. non può essere desunto dallo
spirito di altre norme.
Giustamente il P.M. ha
rilevato come possa apparire paradossale la circostanza che non siano punibili
persone consapevoli (come nel caso in esame) di una situazione di fatto
antigiuridica per la presenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossici
e del conseguente rischio di contaminazione del suolo, del sottosuolo e delle
falde idriche e che non abbiano posto in essere alcuna attività per porre
termine o per limitare le conseguenze negative di tale situazione.
In effetti la mancata
previsione di obblighi di bonifica e di messa in sicurezza di siti contaminati
in capo a chi ne acquisisce la proprietà rappresenta una grave lacuna
legislativa che però non può essere colmata avvalendosi di procedimenti
analogici.
Un argomento nuovo a
sostegno della tesi accusatoria è stato proposto dal Procuratore Generale nella
memoria depositata il 2\12\2004 ove, parlando della questione della successione
di posizione di garanzia e, quindi, dell’obbligo gravante su chi subentra in
essa di porre nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, fa
ricorso ad una diversa e nuova figura di posizione di garanzia cui ha riguardo
l’art.40 cpv. c.p. completamente svincolata da norme, anche non scritte, di
diritto privato o di diritto pubblico, ma in una semplice situazione di fatto,
per precedente condotta illegittima e non soltanto per condotta attribuibile a
quello stesso soggetto garante, ma anche quella attribuibile ad un diverso
soggetto che lo abbia preceduto nella medesima posizione di garanzia; tutto ciò
in nome dei “principi solidaristici che impongono (oggi anche in base alle
norme contenute negli artt. 2, 32 e 41, comma 2° Cost.) una tutela rafforzata e
privilegiata di determinati beni”.
La tesi del P.G. appare
estremamente interessante in quanto effettivamente esiste una giurisprudenza di
legittimità citata nella memoria in esame (Cass. Sez.IV 8\10\2003, Corinaldesi)
secondo la quale “la posizione di garanzia può trarre origine da una situazione
di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta
illegittima, che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere
giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di
impedire l’evento”.
Si deve tuttavia
rilevare che tale posizione di garanzia svincolata dal riferimento a precise
norme giuridiche trae origine da precedenti comportamenti dello stesso soggetto
tenuto all’azione impeditiva e non da comportamenti tenuti in precedenza da
altri senza nessun concorso del soggetto asseritamene tenuto; si tratta della
categoria dell’”azione propria precedente” come risulta dalla lettura della
sentenza citata concernente la responsabilità del conducente di uno scuola-bus
che, dopo aver accompagnato a destinazione una bambina dodicenne, non aveva
impedito che questa attraversasse imprudentemente la strada, finendo investita
da una vettura.
Ad avviso di questo
Collegio non è possibile passare dalla posizione di garanzia per azione propria
precedente ad una posizione di garanzia che coinvolga la responsabilità degli
imputati per comportamenti tenuti in precedenza da altri senza nessun concorso
degli imputati stessi facendo un semplice riferimento ai principi solidaristici
di rilievo costituzionale.
I principi solidaristici
possono avere rilievo giuridico solo quando si concretizzano in norme
giuridiche che impongano specifici obblighi di attivarsi, altrimenti si corre
il rischio che l’ambito delle posizioni di garanzia potrebbe essere liberamente
individuato sulla base di letture soggettive delle norme costituzionali e non
sarebbe possibile individuare in modo certo gli obblighi impeditivi specifici
gravanti sui destinatari delle norme penali chiamati a sventare i pericoli creati
da altri.
A conclusione di questo
capitolo devono di conseguenza essere rigettate le doglianze degli appellanti
tendenti ad ottenere il riconoscimento della sussistenza delle contravvenzioni
al D.P.R. 915\82 e l’integrazione delle condotte tipiche dei reati di disastro,
avvelenamento e adulterazione in relazione al comportamento di quegli imputati
che, subentrati nelle rispettive cariche all’interno della società, avevano
omesso di effettuare interventi di bonifica o di messa in sicurezza di discariche
realizzate e gestite in passato dai propri predecessori.
CAPITOLO 3.5
APPELLO P.M.
ERRONEA,
CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DEL REATO DI AVVELENAMENTO COLPOSO
In questo capitolo il P.M.
contesta, con argomenti identici a quelli proposti dall’Avvocato dello Stato
nei suoi motivi d’appello, la sentenza di primo grado nella parte in cui ha
escluso la sussistenza del reato di avvelenamento colposo.
Gli appellanti partono
dalla premessa che il delitto di avvelenamento rientra pacificamente nella
categoria dei reati di pericolo astratto per i quali la pericolosità è
generalmente insita nel fatto tipico.
In altre parole nei
reati di pericolo astratto la stessa norma indica i fatti che il legislatore
ritiene – secondo l’id quod plerumque accidit – abbiano un carattere di
generale pericolosità. Tale indicazione può aver luogo mediante riferimento a
termini significativi e pregnanti come appunto il termine avvelenamento nel
reato di cui ora ci occupiamo.
Il P.M. sostiene poi che
“nel caso previsto dall’art.439 c.p. non deve essere provato l’effettivo
(concreto) verificarsi del pericolo per la salute pubblica, ma pur sempre si è
tenuti a fornire la prova che le acque
e sostanze alimentari sono state avvelenate, cioè che sono state contaminate da
sostanze tossiche, anche non letali, in concentrazioni tali da poter comunque
danneggiare l’organismo umano.” (pag.1148).
Nel caso in esame “il
pericolo è stato contestato in ragione dell’avvelenamento delle acque e delle
sostanze alimentari, vale a dire in una modificazione prodotta mediante
immissione di veleni o di sostanze tossiche, capace di introdurre sostanze
dannose in un sistema biologico, alterandone seriamente le funzioni”
(pag.1154).
A questo punto si
ricorda che una rilevanza decisiva ed esclusiva dovrebbe essere riconosciuta
alla pericolosità generalmente, normalmente insita nel fatto tipico di
avvelenamento secondo l’id quod plerumque accidit; ciò, non certamente per
negare l’utilità della scienza nella prova del pericolo, ma solamente perché la
prova scientifica non può mai essere ontologicamente certa.
Nel rispetto di tale
premessa gli appellanti sostengono di aver provato, nel corso del giudizio di
primo grado, che i mitili ed i pesci della laguna erano contaminati e che i
contaminanti avevano causato delle mutazioni.
In base agli
accertamenti svolti era stato possibile appurare la presenza di “addotti” e di
“micronuclei” (cioè alterazioni del DNA) nei mitili e nei pesci della laguna e
tale presenza era da considerarsi una chiara manifestazione di danno genetico
provocato dalle sostanze immesse nelle acque dal Petrolchimico.
Da ciò si dovrebbe
ragionevolmente dedurre che un rischio analogo di modificazione genetica
sussista anche per la collettività umana esposta direttamente o indirettamente
alle stesse sostanze tossiche che si è dimostrato essere state immesse
nell’ambiente dallo stabilimento.
Secondo gli appellanti,
alla luce di tali accertamenti, il Tribunale avrebbe dovuto chiedersi che cosa
accade non solo nei molluschi e nei pesci la cui contaminazione ed i cui
effetti sul DNA sono stati appurati, ma anche alla popolazione che di essi si
nutre, con particolare attenzione agli effetti indotti da tale consumo sulla
salute umana.
Secondo le leggi della
biologia si può parlare di non
impossibilità di danno genetico, di possibili
risposte biologiche negative.
Non ci troveremmo di
fronte, quindi, ad un “pericolo congetturale”, ma a una condizione di fatto
molto concreta che individua un fattore di rischio (e quindi di pericolo) per
la salute dell’uomo derivante dalla contaminazione delle acque e degli alimenti
(pesci e molluschi); circostanza ignorata dalla sentenza di primo grado.
Rileva questo Collegio
che in realtà il problema ora in esame era stato affrontato e ampiamente
discusso anche nel corso del giudizio di primo grado con un approfondito
confronto fra i consulenti delle parti e con la citazione di numerosi studi
scientifici.
All’esito di tale
approfondimento scientifico non è stato possibile giungere a conclusioni che
confermino la tesi accusatoria.
In primo luogo la
tecnica usata dalla consulente Venier per misurare gli “addotti” non permette
di identificare le sostanze responsabili della loro formazione; la circostanza
è confermata dalla stessa Venier che nella sua relazione del 6\4\2001 precisa:
“ ..la tecnica di postmarcatura con 32P rileva molecole aromatiche stericamente
ingombranti e DNA-reattive andate a bersaglio sul DNA qualunque esse siano,
senza specifici standard analitici…”. Quindi se è provata la presenza di
“addotti” nei mitili della zona di Marghera, non sappiamo quali sostanze ne
abbiano provocato la formazione.
Non è stato inoltre
possibile accertare in quale segmento del DNA si sono formati gli addotti; la
circostanza è particolarmente rilevante in quanto vi sono parti del DNA che non
hanno funzioni particolari per cui viene meno qualsiasi rischio di mutazione
genetica. La stessa dott.ssa Venier all’udienza del 17\10\2000 ha ammesso che:
“…quindi la presenza di addotti può determinare mutazioni…..dipenderà dal
tratto di DNA coinvolto”.
A tutto ciò si deve
aggiungere che la possibilità che un addotto possa portare ad una mutazione
dipende dalla persistenza dell’addotto stesso durante un periodo di
proliferazione cellulare; in assenza di qualsiasi informazione sul tipo di
addotto rilevato nei mitili e nei pesci, sul tipo di danno in ipotesi prodotto
al DNA e sui meccanismi di riparazione del DNA, non è stato possibile
attribuire un significato qualunque alla presenza di tali addotti in relazione
ad un eventuale ipotetico danno allo stesso DNA.
L’unico dato certo ed
incontestato è che gli addotti al DNA rappresentano misure di esposizione, cioè
indicano che è avvenuta una esposizione ad agenti genotossici, ma non indicano
un danno biologico vero e proprio.
Considerazioni identiche
si possono fare anche in relazione alla presenza di micronuclei nei mitili e
nei pesci della laguna. La stessa dott.ssa Venier ha riferito che i “composti
che danno micronuclei sono dei più vari, questo è quindi aspecifico come
indice” (Udienza 17\10\2000); inoltre i micronuclei sono stati osservati anche
in assenza di esposizione, in individui e animali perfettamente sani, manca
quindi la prova che i micronuclei siano provocati dagli inquinanti della
laguna.
In conclusione i dati
certi sui quali si basano le doglianze degli appellanti consistono nella
constatata presenza nei mitili e nei pesci della laguna di addotti e
micronuclei in moderato eccesso rispetto ad individui raccolti in zone diverse
ma nei quali erano comunque egualmente presenti sia gli addotti, sia i
micronuclei.
Manca invece la prova
che la presenza di addotti e di micronuclei sia dovuta alle sostanze immesse in
laguna dal Petrolchimico.
Mancano elementi scientificamente
fondati per affermare che addotti e micronuclei abbiano effettivamente
provocato mutazioni fino al punto di poter essere valutati come lesioni
promutagene.
L’argomentare della
pubblica accusa diventa ancora più problematico e privo di certezze nel momento
in cui sostiene la trasferibilità all’uomo in termini anche solo di rischio
delle osservazioni fatte per i pesci e i mitili.
Come si è più sopra
accennato, il P.M., nei suoi motivi, sostiene che “…se nei mitili il danno
genetico causato da esposizione alle sostanze inquinanti scaricate e\o immesse
dallo stabilimento del Petrolchimico è stato accertato al di là di ogni
ragionevole dubbio, allora si dovrebbe con ragionevolezza affermare che un
rischio analogo di modificazione genetica sussista per la collettività
esposta…….In questo caso, sono le leggi della biologia che provano la
non-impossibilità del danno nel caso concreto e consentono, su tale base, la
legittima configurazione di un pericolo scientificamente supportato.”
(pag.1157-1158).
Ma a questo punto si
pone il problema di accertare come in concreto gli addotti e i micronuclei
presenti nei mitili e nei pesci possano trasferirsi agli uomini.
Non certo per via
alimentare in quanto le più elementari leggi della genetica escludono tale possibilità;
è infatti notorio che il materiale genetico è qualcosa di altamente specifico,
assolutamente non trasferibile per via alimentare da un organismo all’altro. La
via usuale di scambio genetico è la riproduzione tra individui della stessa
specie. Si deve quindi concordare con il consulente della Difesa, dr. Dragani,
il quale ha precisato che la presenza di addotti al DNA non comporta alcun
pericolo tossicologico perché “essi rappresentano prodotti che hanno già
reagito con il DNA del prodotto alimentare e quindi non sono in grado di
reagire con il DNA umano.”
Si potrebbe sostenere
che i contaminanti che possono provocare una alterazione genetica nei molluschi
potrebbero provocare analoghe alterazioni nell’uomo, ma non è stata acquisita
alcuna prova di un qualche aumento di danno al DNA in persone esposte ai
livelli di inquinanti riscontrati a Porto Marghera in quanto nessun operaio
dello stabilimento e nessun abitante risulta essere stato sottoposto ad analisi
di danni al DNA.
Nessun elemento a sostegno
dell’ipotesi accusatoria può ricavarsi dalla pacifica diversità delle reazioni
metaboliche degli invertebrati rispetto a quelle dell’uomo; indubbiamente
l’essere umano possiede vie metaboliche più complesse ed efficienti di quelle
dei mitili, ma da ciò non può dedursi che “le nostre reazioni metaboliche
producono più quantità di intermedi reattivi capaci di formare addotti sul
nostro DNA” (Motivi P.M. pag.1167); è solamente possibile affermare che la
trasformazione di una determinata sostanza avverrà in modo diverso.
In ultima analisi si può
giungere alla conclusione che non esiste una legge scientifica sulla base della
quale si possa sostenere in termini oggettivamente validi e ripetibili che vi è
nesso causale fra la presenza di contaminanti nei pesci e nei mitili e
l’insorgere negli stessi di addotti e micronuclei; né che vi sia nesso causale
fra gli addotti e micronuclei presenti nei pesci e nei mitili e quelli
ipotizzati come presenti negli esseri umani abitanti nella zona, né che vi sia
nesso causale fra i contaminanti presenti nelle acque e nei pesci della laguna
e l’eventuale presenza di addotti e micronuclei nell’uomo.
Si tratta di semplici
ipotesi formulate dagli appellanti ispirandosi ad un criterio di
“ragionevolezza” che non ha trovato alcun riscontro o sostegno in leggi
scientifiche.
A sostegno della tesi
accusatoria non è possibile far ricorso al “principio di precauzione” che non
si basa su criteri scientifici, ma è la manifestazione di decisioni di
carattere precauzionale adottate da organi politico-amministrativi con finalità
di prevenzione e senza valenza scientifica.
Il delitto di
avvelenamento è pacificamente un reato che ha lo scopo di prevenire un pericolo
per la salute pubblica, ed è altresì pacifico che il pericolo è presunto in via
assoluta dalla legge perché l’art. 439 c.p. non richiede la prova che sia sorto
un effettivo pericolo per le persone.
Tuttavia il pericolo che
la norma vuole prevenire deve essere un pericolo reale, individuato o
individuabile attraverso norme scientifiche di copertura, non un pericolo
supposto o immaginato come nel caso in esame.
Conseguentemente anche
questa doglianza degli appellanti deve essere rigettata.
CAPITOLO 3.6
APPELLO P.M.
ERRONEA,
CONTRADDITORIA ED ILLOGICA ESCLUSIONE DELLA SUSSISTENZA DEGLI ESTREMI COLPOSI
DI CUI AGLI ARTT. 440 – 452 C.P.
In questa parte dei
motivi d’appello il P.M. contesta la sentenza del Tribunale nel capo in cui ha
escluso la sussistenza del reato di adulterazione colposa delle acque, in
diritto e in fatto.
Vengono poste delle
premesse in diritto sulla struttura del reato nelle quali l’appellante accoglie
in parte le conclusioni del Tribunale sul punto.
In particolare si
concorda con il primo giudice che il delitto di adulterazione è un reato di
pericolo concreto per la cui sussistenza è necessario che il giudice accerti la
possibilità di un danno alla salute pubblica, mentre non è necessaria la prova
di una effettiva lesione della stessa.
Però, secondo il P.M.,
la prova del pericolo non può consistere nella dimostrazione scientifica della
certezza di conseguenze dannose per la salute dell’uomo quale effetto della
condotta adulterante.
Il pericolo è il
risultato di un giudizio ex ante che consenta di ritenere prevedibile che dalla
situazione in esame derivi un futuro evento dannoso.
L’appellante si pone poi
il problema di individuare gli elementi sulla base dei quali il giudice può
formulare il giudizio di pericolosità in concreto e mette in rilievo che
secondo varie decisioni della Cassazione il convincimento del giudice si può
basare su qualsiasi mezzo di prova consentito in quanto la pericolosità
dell’acqua o degli alimenti non deve necessariamente essere accertata a mezzo
di analisi chimiche o di indagini peritali.
In particolare il
giudizio di pericolosità può basarsi su
parametri normativi quando esiste una disposizione che riconosce una specifica
pericolosità (intesa come attitudine generica a ledere la salute) ad alimenti
che si trovino in particolari condizioni o che presentino certe
caratteristiche.
Si giunge così alla
problematica del significato giuridico da riconoscere agli standars di qualità
di un prodotto o di un alimento previsti dalle leggi speciali.
Secondo l’appellante
l’orientamento ora prevalente della giurisprudenza sarebbe nel senso che la
responsabilità penale presuppone sempre la violazione degli standards perché si
tratta di limiti imposti dal legislatore a tutela della salute umana il cui
superamento comporta necessariamente il verificarsi di una situazione che il
legislatore stesso considera – in base a dati scientifici ormai acquisiti – di
rischio per la salute.
Per quanto riguarda le
acque di falda oggetto nel presente procedimento del contestato reato di
adulterazione un preciso indice normativo di pericolo è fornito dai valori di
concentrazione massima ammissibile stabiliti dal D.P.R. 24\5\1988 n. 236 per le
acque destinate al consumo umano.
Con le disposizioni
sopra richiamate il legislatore nazionale, in attuazione della direttiva CEE
n.80\778, ha fissato i requisiti di qualità delle acque destinate al consumo
umano sulla base dei valori e delle indicazioni relativi ai parametri elencati
nell’allegato I ed ha ribadito che ogni superamento del valore di
concentrazione massima ammissibile fissato per ogni parametro tra quelli indicati
nell’allegato I rappresenta sempre un fattore di rischio per la salute
dell’uomo e che deroghe possono essere consentite solo quando non comportino un
rischio inaccettabile.
Il giudice ha quindi a
disposizione un preciso elemento di carattere normativo da utilizzare per
valutare la significatività del rischio per la salute pubblica conseguente alla
adulterazione (in questo caso) delle acque di falda, non essendo vincolato agli
esiti di una dimostrazione scientifica in concreto del rischio esistente e del
suo livello. Ad avviso di questo Collegio non può essere condivisa la tesi del
P.M.
Seguendo tale tesi, in
caso di insufficienza delle leggi scientifiche come metro del giudizio di
pericolosità si potrebbe far ricorso al metro alternativo costituito dai
parametri normativi dei limiti-soglia previsti dalla legislazione speciale al
cui superamento verrebbe attribuita una presunzione assoluta di pericolosità.
Occorre però tener
presente che i limiti-soglia sono fissati dal legislatore in vista di misure di
tutela ultracautelare del bene protetto al fine di prevenire ed evitare
qualsiasi ipotesi di rischio.
Non possiamo inoltre
dimenticare che il reato di adulterazione è, pacificamente, un delitto di
pericolo concreto per la pubblica incolumità, e che l’accertamento del pericolo
concreto impone sempre una dimostrazione reale e non ipotetica della
pericolosità della condotta tipica.
La prevalente
giurisprudenza di legittimità e di merito riconosce la completa autonomia
strutturale tra le fattispecie di avvelenamento e adulterazione e le diverse
ipotesi contravvenzionali o di illecito amministrativo previsti dalla
legislazione speciale degli alimenti e dell’ambiente e conseguenti al
superamento dei limiti-soglia.
Sul punto appare
estremamente chiarificatrice la sentenza della Suprema Corte che ha affermato
che: “ …la nozione di pericolo per la salute pubblica va oltre la semplice
finalità di prevenzione propria delle contravvenzioni ed implica l’accertamento
di un nesso tra consumo e danno alla salute fondato quanto meno su rilievi
statistici che valgano a costituire un rapporto tra due fatti in termini di
probabilità” (Cass. 30\5\1997, Rigoni).
Anche la Corte
Costituzionale, chiamata ad intervenire proprio sul rapporto tra il delitto di
adulterazione e la contravvenzione prevista dall’art.3 del D.Lv. 27\1\1992
n.118 relativa al divieto di somministrazione di talune sostanze ad azione
ormonica e tireostatica nella produzione di animali, ha evidenziato: “…la
reciproca autonomia e la diversità dei tipi di illecito”, sottolineando in
particolare “…il diverso requisito costitutivo del reato consistente, nella
disposizione del codice penale, nel pericolo concreto per la salute pubblica,
che non si riscontra in quella impugnata (contenuta nella legge speciale) fondata
sulla generica previsione del pericolo astratto” (Corte Cost. 21 luglio 1993
n.326).
Si deve quindi giungere
alla conclusione che per la sussistenza del reato di adulterazione è comunque
necessario accertare l’esistenza di un pericolo concreto per la pubblica
incolumità; a tal fine può essere utile, ma non sufficiente, il ricorso ai
limiti-soglia fissati dalla legislazione speciale in quanto l’eventuale
superamento degli stessi configura il reato contravvenzionale o l’illecito
amministrativo, ma deve essere affiancato da un ulteriore accertamento circa la
concreta messa in pericolo del bene protetto.
Giustamente, quindi, il
Tribunale ha recluso la sussistenza del reato di adulterazione contestato
evidenziando che nel caso in esame le acque di falda, pur risultando inquinate
per la presenza di varie sostanze in misura superiore ai limiti di
concentrazione massima ammissibile previsti dal D.P.R. 236\88, non
rappresentavano, in concreto, un pericolo per la pubblica incolumità perché
oggettivamente non idonee ad essere destinate al consumo umano e quindi non
utilizzabili.
Il P.M. impugna però
anche quest’ultima affermazione del Tribunale perché basata su erronei
presupposti di fatto.
Prima di passare
all’esame di queste ulteriori doglianze dell’appellante appare opportuno
presentare un quadro d’insieme delle circostanze di fatto di cui ci occupiamo
in questo capitolo.
Agli imputati viene
contestato di aver provocato l’adulterazione delle acque di falda non impedendo
il percolamento dei rifiuti stoccati nelle varie discariche create nel corso
degli anni sia all’interno che all’esterno dello stabilimento.
Si deve quindi
distinguere fra discariche esistenti all’interno dell’area del Petrolchimico e
discariche esistenti all’esterno di tale area.
Le prove raccolte nel
corso del giudizio di primo grado hanno permesso di definire, in modo non
contestato, la posizione e la distinzione dei corpi acquiferi presenti nelle
due aree entro i primi 30 metri di profondità.
I)
Partendo dall’alto vi è un primo strato
costituito in gran parte da materiali di riporto fino ad una profondità di
circa 5 metri ove raggiunge il livello limoso-argilloso (caranto) che fa da
tetto al secondo strato. All’interno di questo primo strato non vi è una vera e
propria falda (anche se impropriamente viene chiamata “falda superficiale”), ma sono presenti acque di impregnazione di origine meteorica e pressoché stagnanti.
Tali acque sono risultate molto inquinate.
II)
Vi è poi il primo acquifero contenuto fra il caranto ed il primo livello
impermeabile situato a circa 15 metri di profondità. In questo secondo strato
vi è la prima vera falda acquifera risultata inquinata in modo apprezzabile soltanto in
corrispondenza ad aree ristrette corrispondenti ai luoghi di deposito dei
rifiuti.
III)
Giungiamo infine al secondo acquifero situato tra il primo livello impermeabile ed una
formazione argillosa-limosa a bassa permeabilità individuata ad una profondità
media superiore ai 22 metri. In questo strato si trova la seconda falda acquifera che mostra localmente ed esclusivamente per
qualche sostanza concentrazioni sensibili.
Le emergenze processuali
avevano indotto il Tribunale a ritenere che nell’area all’interno del
Petrolchimico non era in alcun modo ipotizzabile l’utilizzo delle falde
acquifere entro i primi trenta metri di profondità per la loro scarsissima
portata e per la elevata salinità che le rendeva inidonee a qualsiasi uso
antropico. Quindi l’assetto idrogeologico della penisola del Petrolchimico
evidenziava l’assenza di un requisito indispensabile per la sussistenza del
delitto di adulterazione e cioè quello della attingibilità almeno potenziale
delle acque di falda impedendo così il verificarsi anche della semplice ipotesi
di un pericolo per la pubblica incolumità.
Per quanto riguarda le
acque di falda sottostanti le aree esterne al Petrolchimico bisogna ricordare
che il Tribunale aveva escluso che l’inquinamento delle acque sottostanti le
discariche situate all’interno dello stabilimento potesse essere veicolato
verso i canali lagunari stante le bassissime velocità di falda, l’ostacolo
costituito dai movimenti mareali e dall’ingressione di acqua marina che
determinava una grossa diluizione degli inquinanti. Anche l’ipotesi del
trasferimento della contaminazione verso l’entroterra era stata esclusa in
quanto le falde erano orientate a scendere verso la laguna; inoltre le analisi
effettuate sull’acqua dei pozzi situati fuori dal plesso industriale avevano
evidenziato l’assenza di inquinanti di origine industriale. Infine non era
stata acquisita alcuna prova di contaminazione delle falde acquifere
sottostanti le discariche esterne al Petrolchimico.
In primo luogo il P.M. rileva che dalle
schede di autodenuncia acquisite con ordinanza in data 8\5\2001 risulta
l’esistenza di numerosi pozzi che pescano nelle prime falde del sistema
idrogeologico veneziano; il dato appare confermato da uno studio della
Provincia di Venezia – Settore Ecologia e Ambiente – Servizio Programmazione
Ambientale e cioè dall’ “Indagine idrogeologica del territorio provinciale di
Venezia” del 1998 dal quale risulta l’esistenza nel territorio della Provincia
di 463 pozzi noti.
Tutto ciò dimostrerebbe
come le falde oggetto del presente procedimento risultino normalmente sfruttate
per uso umano. In verità le conclusioni del P.M. appaiono infondate.
Si deve infatti rilevare
che tutti i pozzi ad uso industriale-alimentare risultanti dalle schede di
autodenuncia acquisite con ordinanza dell’8\5\2001 sono lontani diversi
chilometri (comunque mai inferiore ad una distanza di 2 Km.) dall’area dello
stabilimento e dalle discariche esterne o si trovano al di là dei canali
industriali che circondano lo stabilimento che costituiscono un limite
invalicabile per le acque della falda del Petrolchimico. Di conseguenza i pozzi
in questione pescano in falde il cui inquinamento ad opera dello stesso
Petrolchimico non risulta provato.
Per quanto riguarda lo
studio della provincia di Venezia pubblicato nel 1998, bisogna ricordare che si
tratta di uno studio parziale confluito in quello più generale pubblicato nel
2002 con il titolo “Indagine idrogeologica del territorio provinciale di Venezia”
dal quale emerge in modo inequivocabile che le falde della provincia
diminuiscono naturalmente la loro qualità man mano che si avvicinano alla
laguna e, di conseguenza, non sono idonee per scopi idropotabili per la
presenza di ferro e ammoniaca di origine naturale nonché, in prossimità della
costa, di cloruri.
Tutto ciò conferma la
non utilizzabilità delle acque di falda sottostanti l’insediamento industriale.
Relativamente all’area
del Petrolchimico risulta in modo pacifico che non vi sono mai stati pozzi con
profondità inferiore ai 30 metri che potessero pescare nelle falde inquinate,
mentre ne esistevano 16 con profondità compresa fra i 91 e i 312 metri che però
erano stati chiusi fin dal 1964 a seguito di una ordinanza del Genio Civile
tendente ad evitare il fenomeno della subsidenza.
L’appellante contesta
poi l’affermazione del Tribunale che aveva escluso un rilevante trasferimento
orizzontale degli inquinanti presenti nelle acque di falda sottostanti le
discariche interne al Petrolchimico in direzione dei canali lagunari in
considerazione del basso coefficiente di permeabilità del sottosuolo. Rileva il
P.M. che il primo giudice aveva erroneamente indicato il coefficiente di
permeabilità in cm\s mentre la dimensione normalmente usata era in m\s.
In realtà qualsiasi
misura di velocità lineare può essere espressa indifferentemente sia in m\s sia
in cm\s perché la correttezza del risultato dipende unicamente dall’uso della
stessa unità di misura all’interno dei calcoli che vengono effettuati.
Dal punto di vista
sostanziale appare incontestabile che il valore di permeabilità indicato dal
primo giudice relativamente agli acquiferi contenenti la prima falda risulta
corretto; si tratta infatti di un acquifero costituito prevalentemente da
sabbie fini limose la cui granulometria comporta una permeabilità pari al
valore indicato nella sentenza di primo grado. Infatti le diverse prove di
permeabilità effettuate nell’area del Petrolchimico e lo stesso consulente del
P.M. prof. Nosengo, concordano nell’indicare bassi valori di trasmissività e
permeabilità dei materiali di riporto e degli acquiferi superficiali in accordo
con le granulometrie dei terreni dedotte dalle stratigrafie.
L’appellante sostiene poi che non risponde a
verità l’affermazione del Tribunale secondo cui le acque di falda sottostanti
l’area del Petrolchimico sarebbero sostanzialmente stagnanti in quanto si
riverserebbero in laguna in una misura stimata in 4 litri al secondo da tutto
il complesso dei terreni.
Secondo il P.M. il dato
di 4 l\s riguarderebbe solamente le acque di impregnazione e non già la prima
falda, inoltre anche una tale fuoriuscita non può considerarsi indifferente
dato che corrisponde ad un apporto annuo di 126 milioni di litri.
In primo luogo si deve
escludere che il dato di 4 l\s che definisce l’apporto stimato delle acque di
falda alla laguna si riferisca alle sole acque di impregnazione. Si deve
ricordare che tale stima venne proposta in prima battuta in una memoria della
difesa Montedison depositata il 20\4\2001 nella quale si faceva esplicito
riferimento alla prima falda e non già
alla falda superficiale (o acque di impregnazione) che veniva considerata come
stagnante; il consulente del P.M. prof. Nosengo ha riconosciuto l’esattezza
della stima facendo ovviamente riferimento allo stesso dato fornito dalla
difesa Montedison. Appare quindi certo che il dato di 4 l\s concerne l’apporto
in laguna delle acque della prima falda perché quelle della falda superficiale
restano sul posto essendo stagnanti, mentre quelle della seconda falda non
possono finire in laguna trovandosi ad una profondità superiore rispetto
al fondo della laguna stessa per cui, eventualmente, defluiranno in mare
aperto.
Il secondo argomento
dell’appellante consiste in buona sostanza nell’affermazione che: “ il
quantitativo di 4 litri al secondo, espresso in questa unità temporale, tende
ad essere percepito come molto piccolo” (motivi P.M. pag. 1208), ma in realtà
appare rilevante se il medesimo dato viene espresso su base giornaliera o
annuale.
In realtà si tratta di
un artificio numerico che non sposta i termini della questione principale e
cioè l’apprezzamento e la valutazione del contributo percentuale degli apporti
delle acque provenienti dalla falda sottostante il Petrolchimico rispetto all’apporto
degli altri afflussi che si riversano in laguna calcolati in misura pari a
50.000\55.000 litri al secondo. Ciò che veramente rileva ai nostri fini è il
raffronto tra gli apporti che si riversano in laguna e non il valore assoluto
di ciascuno di essi.
In conclusione si può
ribadire che l’apporto della falda del Petrolchimico è assolutamente
insignificante e trascurabile.
Giustamente, quindi, il
Tribunale ha escluso che l’inquinamento esistente nel sottosuolo dell’area di
insediamento del plesso industriale possa aver raggiunto i sedimenti e le acque
dei canali lagunari in concentrazione tale da provocarne la contaminazione,
dopo essere stato veicolato dalle acque di falda.
Il confronto tra le
portate in entrata in laguna da parte dei più vari afflussi e la portata massima stimata delle acque
provenienti dalla falda sottostante il Petrolchimico evidenzia che queste
ultime subiscono una enorme diluizione ad opera delle altre acque in arrivo in
laguna per cui, qualunque fosse la concentrazione delle sostanze inquinanti
eventualmente presenti nelle acque provenienti dal sottosuolo del
Petrolchimico, proprio il fenomeno della diluizione sopra descritto permette di
escludere la rilevanza di un qualsiasi contributo alla contaminazione della
laguna attribuibile a questa fonte.
L’appellante esclude
anche che le acque delle falde sottostanti il Petrolchimico non siano
utilizzabili perché sature di cloruri; si rileva in proposito che non vi è
prova che anche la seconda falda sia costituita da acque salmastre e che
comunque le acque salmastre possono essere utilizzate anche per alcune
coltivazioni ( “le piante tollerano sali fino a 900 mg\l, certe colture possono
essere irrigate con acque contenenti fino a 3500 mg\l. All’occorrenza persino
l’uomo può bere senza danno acque salate fino a 2500 mg\l.”). Anche a tali
obiezioni la risposta risulta facile.
E’ pacifico in causa il
fenomeno della miscelazione delle acque salate di provenienza marina con le
acque continentali delle falde situate fino a 30 metri di profondità: Dalle
cartografie esistenti emerge che il tenore di cloruri caratteristico delle
acque marine superiore a 10 g\l si trova nei piezometri che attraversano la
prima falda in tutto il Petrolchimico. Per quanto riguarda la seconda falda la
tabella 6.6\4 allegata allo studio “Aquater Basi 96” indica concentrati di
cloruri paragonabili a quelli della prima falda.
Risulta quindi provato
che tutte e due le falde sottostanti il Petrolchimico hanno una salinità simile
a quella dell’acqua marina superiore a 10 g\l.
Si tratta di acque
sicuramente non utilizzabili a fini antropici perché i 10 g\l non consentono
neppure quelle utilizzazioni indicate dal P.M. nei motivi d’appello.
Infatti, trasformando in
grammi i milligrammi che figurano negli esempi fatti dal P.M. risulta che
l’uomo può bere senza danni acque salate fino a 2,5 g\l, le piante tollerano
sali fino a 0,9 g\l e certe colture possono essere irrigate con acque
contenenti cloruri fino a 3,5 g\l, tutti valori di molto inferiori ai 10 g\l
contenuti nelle acque di falda del Petrolchimico.
Il P.M. definisce poi
“apodittica ed indimostrata” la conclusione cui è pervenuta la sentenza di
primo grado nel punto in cui ha affermato che: “ le falde entro i primi 30
metri di profondità nell’area del Petrolchimico (quelle considerate in tesi
d’accusa) sono da ritenersi non sfruttabili dal punto di vista idraulico, a
causa del ridotto spessore degli acquiferi che non permettono di estrarre
portate utili per un uso antropico”.
La doglianza
dell’appellante non appare fondata in quanto le conclusioni del primo giudice
sul punto risultano adeguatamente provate da indagini dirette condotte
nell’area. Vi è in primo luogo l’indagine Aquater del 1995 sull’intervento di
messa in sicurezza delle isole 31 e 32, in cui si precisa che durante le prove
di emungimento si è notato che, con portate di soli 0,14 l\s, il piezometro si
svuota. La successiva indagine Aquater 2000 ha confermato la insignificante
produttività degli acquiferi con indagini dirette condotte nell’area, infatti riassumendo
i risultati di 9 prove di pompaggio effettuate nel primo acquifero all’interno
del Petrolchimico, aveva evidenziato portate estraibili molto basse ( in genere
non superiori a 0,1 – 0,2 l\s).
Si deve poi ricordare un
altro documento elaborato per conto del Comune di Venezia e cioè la “Analisi di
rischio” – seconda fase, luglio 1999 – sulla discarica 43 ettari inserita
all’interno del polo industriale costiero di Porto Marghera, in cui
testualmente si dice: “ dato lo scarso interesse che rivestono le falde più
superficiali a scala provinciale, non si fa riferimento ai dati di
bibliografia, praticamente inesistenti”.(Cap.4, pag.12).
Anche un teste
dell’accusa Chiozzotto, tecnico esperto del Comune di Venezia, ha confermato lo
scarso interesse idraulico delle acque di falda entro 30 metri di profondità
dichiarando: “ …se io le guardo dal punto di vista idraulico esclusivamente,
potrei dire è carente, ha scarsa importanza..” (Ud. 27\3\2001).
In fine il P.M. censura
la sentenza di primo grado nel punto in cui afferma che il Petrolchimico non
può rappresentare una fonte di inquinamento rispetto alle falde dell’entroterra
perché le acque di falda si muovono da monte verso la laguna e non viceversa.
L’appellante lamenta il
fatto che il primo giudice aveva omesso di prendere in considerazione
l’andamento centrifugo delle falde sottostanti il Petrolchimico rilevato in una
carta ad isofreatiche del 1995 predisposta da Aquater Basi 1996.
In realtà il consulente
della difesa prof. Dal Prà ha messo in discussione l’attendibilità di tale
carta ad isofreatiche evidenziando come fosse in aperto contrasto con una
analoga carta di provenienza Aquater del 1991 dalla quale emergeva una
direzione di deflusso delle acque di falda dall’entroterra verso la laguna
sempre con riferimento alla stessa zona.
Comunque anche volendo
ritenere corretta la carta ad isofreatiche del 1995 si rileva che l’andamento
centrifugo della falda ivi segnalato riguarda un’area molto ristretta dalla
quale può derivare soltanto un flusso in grado di fuoriuscire per pochi metri
dai confini del Petrolchimico per poi defluire inevitabilmente verso i canali
industriali a seguito di assorbimento da parte della direzione di flusso
regionale della falda che impedisce la risalita verso monte e l’uscita della
falda dall’area.
Un riscontro in tal
senso viene dalla carta isofreatica e dalla carta piezometrica redatte dalla
Regione del Veneto – Segreteria Regionale per il Territorio, Dipartimento per
l’Ecologia – sulla base dei rilievi sperimentali del 1983 le quali mostrano che
per tutte le falde (sia freatiche, sia profonde) le direzioni di deflusso si
sviluppano da nord-ovest verso sud-est e cioè dall’entroterra verso la laguna.
In conclusione si può affermare
che le falde sottostanti l’area del Petrolchimico sono di dimensioni modeste,
poverissime di acqua con alto contenuto di cloruri e praticamente stagnanti
dati i bassi valori di permeabilità. Tali caratteristiche delle falde le
rendono totalmente inadatte a qualunque tipo di ragionevole sfruttamento.
In altre parole le acque
in questione sono risultate, per tutti i motivi sopra elencati, non attingibili
(neppure in linea teorica) per qualsiasi uso e ciò esclude la sussistenza di
qualunque pericolo per la pubblica incolumità ex art.440 c.p.
Si è altresì accertato
che gli inquinanti contenuti nelle acque di falda vengono trasferiti ai canali
lagunari circostanti in misura tale da non apportare un apprezzabile contributo
alla contaminazione dei sedimenti e del biota.
Risulta provato che gli
inquinanti contenuti nelle acque di falda e provenienti dalle discariche
sovrastanti non potevano essere trasferiti a zone esterne e a monte del
Petrolchimico essendo ciò impedito dall’andamento regionale delle falde stesse.
Per quanto riguarda le
aree esterne al Petrolchimico manca qualsiasi prova che le discariche in
imputazione abbiano provocato un inquinamento apprezzabile delle falde
sottostanti e delle acque dei pozzi che vi pescano..
Tutti questi dati di fatto
confermano la conclusione del Tribunale circa la insussistenza del reato di
adulterazione contestato agli imputati.
CAPITOLO 3.7 APPELLO
P.M.
IMPIANTI VECCHI E
OBSOLETI A PORTO MARGHERA
LE MIGLIORI
TECNOLOGIE DISPONIBILI
3.7.1 La mancata
adozione di dispositivi blow down sugli scarichi di emergenza degli impianti.
Secondo il P.M. e
l’Avvocato dello Stato (pag.217 e segg. motivi d’appello) il tema delle
emissioni in atmosfera non sarebbe stato adeguatamente affrontato dal Tribunale
malgrado avesse una importanza rilevante rispetto alla contestazione di
disastro colposo (così come integrata nel corso dell’udienza del 13\12\2000)
verificatosi all’esterno dello stabilimento non solo con riferimento alle
condotte descritte originariamente nel secondo capo d’imputazione, ma anche in
relazione alla contaminazione dell’atmosfera provocata dalle emissioni non
consentite di gas tossici nell’ambito dello stabilimento e, di conseguenza,
delle zone circostanti.
Ora la questione viene
riproposta dal P.M. nei motivi d’appello che, in primo luogo ricorda come tutti
i recipienti chiusi contenenti fluidi pericolosi devono essere dotati di
dispositivi (sfiati di emergenza) idonei ad evitare pericoli di scoppio; nel
momento in cui tali dispositivi entrano in azione il contenuto dei recipienti
viene rilasciato e, ovviamente, deve essere convogliato in un sistema di
raccolta (Blow- down) per impedirne la dispersione.
Negli impianti del
Petrolchimico lo scarico diretto in atmosfera degli sfiati di emergenza,
anziché in un apposito sistema di raccolta, era la regola almeno fino al 1993.
Tale soluzione era in aperto contrasto con i principi di buona tecnica in
quanto non garantiva né il contenimento, né l’abbattimento degli inquinanti
pericolosi per la loro tossicità e cancerogenicità e ciò con particolare
riferimento agli impianti della filiera 1,2-DCE\CVM\PVC.
Evidenzia l’appellante
che la tecnologia per l’installazione di idonei sistemi di Blow-down era
disponibile fin dagli anni ’60 ed era nota al gruppo Montedison che li aveva
adottati presso gli impianti micropilota e pilota del Centro Ricerche di
Castellana e presso lo stabilimento di Ferrara negli anni ’70.
Il P.M. rileva ancora
che il negativo impatto ambientale provocato dagli impianti CV22 – 23 si
sarebbe potuto ridurre notevolmente attraverso l’adozione dell’Ossigeno puro in
luogo dell’Aria nel processo produttivo dell’1,2 DCE (Dicloroetano). Infatti il
1,2 Dicloroetano viene prodotto presso il reparto CV23 del Petrolchimico di
Marghera attraverso la reazione di ossiclorurazione di Acido cloridrico,
Etilene e Aria. Tale processo produttivo dà luogo alla formazione di residui
consistenti in sottoprodotti clorurati, acqua di reazione e gas.
Da oltre venti anni è
stata realizzata ed applicata in U.S.A. e in Giappone una modifica del processo
produttivo con la sostituzione dell’Aria con Ossigeno puro e si è ottenuta una
riduzione degli effluenti gassosi, degli scarichi liquidi, dei residui, delle
scorie e dei rifiuti di processo con aumento della resa produttiva. Malgrado
ciò nel Petrolchimico di Marghera si era continuato e si continua a produrre
con il vecchio processo ad Aria con il suo maggiore impatto ambientale.
Rileva questo Collegio
che in realtà la sentenza di primo grado ha dato una risposta anche ai problemi
sopra elencati, pure se in modo
indiretto, esaminando la questione del contributo del fall-out atmosferico alle
immissioni in laguna.
La trattazione del
problema non risulta particolarmente approfondita per un motivo abbastanza
evidente. Il primo giudice, giunto alla conclusione (per i motivi esposti in
altre parti della sentenza) che la concentrazioni di sostanze inquinanti nei
sedimenti e nel biota della laguna, non superavano i limiti di qualità e i
limiti soglia fissati dalle varie organizzazioni internazionali e dalla
legislazione vigente, ha ritenuto il problema del fall-out atmosferico non
particolarmente rilevante ai fini della decisione. All’udienza del 3\10\2000 il
Tribunale ha preso in esame i dati sul fall-out forniti dal consulente tecnico
dell’accusa dott. Guerzoni e derivanti da una sperimentazione descritta nel
Rapporto finale al Magistrato alle Acque nell’ambito del Progetto 2023 in tema
di “Nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia – Programma generale delle
attività di approfondimento del quadro conoscitivo di riferimento per gli
interventi ambientali” (Consorzio Venezia Nuova, 1999). Il consulente Guerzoni, esaminando i dati
della sperimentazione sopra indicata, aveva ipotizzato una relazione tra
deposizioni al suolo di diossine (PCDD\PCDF) ed emissioni da impianti del
Petrolchimico; tale ipotesi era stata criticata dai consulenti della Difesa.
Si era comunque giunti
alla conclusione che pur assumendo il dato di valori massimi di ricaduta degli inquinanti
riportati dal consulente Guerzoni ed attribuendoli tutti al Petrolchimico, “le
conseguenze in termini di impatto ambientale risulterebbero essere
trascurabili, in assoluto, e, per i loro significati in termini di rilevanza
causale” (Sentenza pag.715) in relazione all’ipotizzata alterazione dei valori
dei sedimenti lagunari o di altri comparti ambientali.
Mancando quindi la prova
che le emissioni di entità pari a quelle calcolate dal dott. Guerzoni come
attribuibili al Petrolchimico abbiano avuto un qualche effetto significativo
sulla contaminazione dei sedimenti e del biota, non può logicamente
considerarsi come addebito di colpa rilevante in relazione ai contestati reati
di disastro, avvelenamento e adulterazione, la mancata o tardiva adozione di
dispositivi di blow down sugli scarichi di emergenza o di modifiche di processo
che comunque non avrebbero inciso in modo apprezzabile sul tasso di
contaminazione.
Il P.M. contesta poi al
Tribunale di non aver tenuto conto dell’addebito di colpa consistito nella
mancata adozione della migliore tecnologia disponibile negli impianti di
produzione di cloro-soda sostituendo il processo con celle a catodo di mercurio
prima con quelle a diaframma e, poi, con quelle a membrana.
E’ provato in causa che
i primi impianti di produzione di cloro-soda realizzati a Marghera tra la fine
degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta (CS3 e CS4) utilizzavano
celle a catodo di mercurio che erano pacificamente molto inquinanti; il
processo di produzione comportava un pesante impatto ambientale in
considerazione della emissione di rilevanti quantità di reflui di processo fra
cui anche fanghi mercuriali contenenti alti tassi di Mercurio che venivano
tumulati in varie discariche esterne al Petrolchimico.
Nel 1971 i vecchi
impianti erano stati chiusi e la Montedison, in quello stesso anno aveva
realizzato un nuovo impianto di cloro-soda sempre a celle di mercurio.
Agli imputati di
pertinenza Montedison si contesta quindi di aver fatto tale scelta malgrado vi
fosse la possibilità di adottare celle a diaframma che avrebbero evitato il
problema del catabolismo del mercurio.
Questo Collegio non
ritiene di dover giudicare negativamente la scelta fatta dagli imputati che
all’epoca rivestivano posizione di garanzia per due ordini di motivi.
In primo luogo si deve
ricordare che il consulente della difesa, dott. Pasquon, ha evidenziato che
l’impianto di cloro-soda realizzato nel 1971 aveva caratteristiche tecniche
idonee a ridurre alla fonte il catabolismo del mercurio rispetto agli impianti
precedenti tanto che durante gli anni settanta era la soluzione di più
frequente realizzazione nei paesi a tecnologia avanzata.
Sul punto le
affermazioni del dott. Pasquon non risultano essere state contestate, ma anche
se non si volesse tener conto di quanto sostenuto dal consulente della Difesa,
si deve comunque considerare che nelle celle a diaframma quest’ultimo era
costituito a base di fibre di amianto e, quindi, probabilmente più pericolose
per l’ambiente e per la salute umana di quelle a mercurio.
A questo punto però
l’appellante obietta che da oltre 25 anni vi era sul mercato la disponibilità
di celle a membrana nel processo cloro-soda che non presentavano le
controindicazioni delle cellule a diaframma o di quelle a mercurio e che già a
metà degli anni settanta erano state usate in impianti di produzione di
cloro-soda.
In realtà le
affermazioni del P.M. risultano parzialmente smentite dalle emergenze
processuali. E’ stato infatti provato che all’inizio degli anni sessanta la
società USA Dupont annunciò la messa a punto del “Nafion” e cioè del materiale
potenzialmente idoneo ad essere impiegato per le membrane nelle celle del
processo cloro-soda; tuttavia ancora nel 1978 gli studi sulle applicazioni
industriali delle celle a membrana erano ancora in corso di perfezionamento.
Nel 1981 esistevano impianti sperimentali ed esperienze “pilota” per studiare
la resistenza delle membrane alla corrosione chimica.
Il primo impianto
industriale per la produzione di cloro-soda con celle a membrana negli USA è
del 1983, mentre nel 1989 ne esistevano ancora solamente sette (Cfr. “Enciclopedia of
Chemical Technology).
In Europa la situazione
era analoga, dato che nel 1986 erano in attività solo 10 impianti con celle a
membrana su oltre 100 esistenti (75 dei quali con celle a mercurio).
Se si considera che gli
impianti della Montedison di cui ora ci occupiamo entrarono in attività nel
1971, risulta condivisibile l’opinione del primo giudice che al momento del
fatto l’evoluzione tecnologica della cella a membrana non era tale da
consentirne una tranquillizzante applicazione di serie nella produzione
industriale.
Di conseguenza non
appare legittimo addebitare agli imputati a titolo di colpa il non aver
adottato tecniche di produzione che non avevano ancora superato il limite della
fase conoscitiva e sperimentale e non potevano ancora essere ritenute idonee e
mature per una immediata applicazione industriale.
Il P.M. passa poi ad
esaminare il problema dell’impianto di depurazione dei reflui derivanti dal
processo cloro-soda, il c.d. impianto di demercurizzazione delle acque
collaudato nel dicembre 1982.
L’appellante prende le
mosse dalla descrizione di tale impianto fatta dal consulente della Difesa,
prof. Pasquon, nel corso dell’udienza del 15\11\2000.
In quella occasione il
Consulente aveva messo in evidenza la circostanza che l’impianto in questione
era il primo del genere a livello mondiale e consentiva di raggiungere limiti
di concentrazione di Mercurio nelle acque dopo la depurazione inferiori a 5
parti per miliardo.
Secondo l’appellante fin
dall’inizio degli anni ’60 era disponibile la tecnologia impiantistica che
consentiva la depurazione delle acque reflue in questione fino a limiti di
concentrazione finale di 5 ppb di Mercurio e anche meno; appare quindi
colpevole il ritardo con il quale è stato attivato a Marghera un simile
impianto di depurazione.
L’affermazione del P.M.
appare però priva di riscontri probatori; risulta invece dall’istruttoria
dibattimentale che solo nel 1973 la Montedison depositò il brevetto per la
realizzazione di un processo di abbattimento del mercurio per via chimica e che
nel 1974 era iniziata a Porto Marghera la realizzazione dell’impianto di
“demercurizzazione” ultimato due anni dopo e cioè nel 1976, quando era stato
attivato.
E’ vero che l’impianto
risulta essere stato collaudato solo in data 15\12\1982, ma dalla lettura
dell’atto di collaudo ( e cioè di un atto redatto in epoca non sospetta) emerge
che: “la costruzione dell’impianto è stata iniziata nel 1974 e lo stesso è
entrato in funzione nel marzo 1976” (pag.5 atto di collaudo).
In base a tali dati di
fatto si può rilevare che fra la messa a punto di un idoneo trattamento delle
acque mercuriose (1973) e la sua applicazione pratica (1976) non trascorse un
lasso di tempo di molto superiore a quello strettamente necessario per
progettare e costruire l’impianto stesso.
Di conseguenza anche
l’addebito di colpa inerente alla tardiva realizzazione dell’impianto di
trattamento delle acque mercuriose risulta infondato.
3.7.2 La tecnologia per la realizzazione degli impianti di
trattamento chimico-fisico-biologico
delle acque reflue industriali era disponibile negli anni ’50.
Il P.M., nei motivi d’appello,
e la parte civile Medina Democratica, nella memoria depositata il
2\12\2004, ripropongono la tesi che il
“depuratore biologico” (SG31) per le acque reflue industriali avrebbe potuto
essere realizzato già negli anni ’50, mentre, con colpevole ritardo, era invece
diventato operativo nello stabilimento di Porto Marghera solo poco dopo il
1980.
Gli appellanti rilevano
sul punto che il Tribunale aveva escluso tale tesi sostenendo che “un
depuratore biologico di uno stabilimento chimico, della entità e della
complessità di quella considerata, era in quegli anni una applicazione inedita
nel contesto italiano” senza però dire nulla sulla documentazione che il
Pubblico Ministero aveva illustrato nel corso della discussione e che provava
come la tecnologia per la realizzazione di tale impianto fosse disponibile da
lungo tempo.
Le doglianze risultano
fondate in quanto nella sentenza appellata non figura alcun riferimento alla
documentazione prodotta a sostegno della tesi d’accusa.
In primo luogo vi sono
gli Atti del Convegno dell’Associazione Nazionale di Ingegneria Sanitaria –
A.N.D.I.S. tenutosi a Bologna il 20-24 aprile 1961 dalla lettura dei quali
emerge, in linea generale, che le industrie, i tecnici e i ricercatori, le
istituzioni a tutti i livelli erano già pienamente consapevoli della gravità
del problema dell’inquinamento causato dagli scarichi industriali.
In merito alle soluzioni
tecniche relative al trattamento delle acque reflue, nel corso del convegno
sopra citato il Prof. Luigi Mendia aveva fatto una relazione ( “Aspetti tecnici
del problema degli scarichi industriali”) nel corso della quale aveva
presentato, fra le varie soluzioni, anche lo schema dell’ “Impianto consorziale
del bacino del Niers” che era un impianto a fanghi attivi particolarmente
idoneo all’epurazione di grandi volumi di scarico (come quelli del
Petrolchimico di Marghera).
Vi sono poi gli Atti del
Convegno Internazionale di Studio su “Le acque industriali: aspetti
tecnologici” tenutosi a Milano – Museo della Scienza e delle Tecnica dal 30
maggio al 2 giugno 1960 nel corso del quale il dottor Luigi Morandi, vice
presidente della Società Chimica Italiana e presidente della Sezione Lombardia,
tenne una relazione affermando, fra l’altro, che: “L’acqua industriale è una
grande malata. …….i mezzi tecnici per la depurazione delle acque di rifiuto
sono oggi perfettamente conosciuti. Il problema quindi è essenzialmente
economico e può essere agevolmente risolto, specialmente quando si può contare
su sovvenzioni statali o regionali”.
Osserva questo Collegio
che in base alla documentazione sopra indicata emerge chiaramente che già
all’inizio degli anni ’60 la gravità del problema posto dagli scarichi
industriali era ben nota e che era diffusa la consapevolezza di dover adottare
idonee misure per tutelare l’ambiente.
Non risulta invece
provato che esistesse la necessaria tecnologia per attuare impianti di
depurazione adeguati ad uno stabilimento delle dimensioni di quello operante in
Porto Marghera.
Vi è in vero la generica
dichiarazione del dottor Morandi al Convegno tenutosi a Milano fra il 30 maggio
e il 2 giugno 1960 circa una perfetta conoscenza dei mezzi tecnici per la
depurazione delle acque di rifiuto, ma tale dichiarazione non è supportata da
indicazioni tecniche che consentano di risolvere il problema della esistenza o
meno di conoscenze scientifiche immediatamente applicabili ai processi
produttivi del Petrolchimico.
Più concreto appare
invece il richiamo fatto dal relatore Mendia nel Convegno A.N.D.I.S. del 1961 all’impianto
consorziale del bacino del Niers idoneo alla depurazione di grandi volumi di
scarico.
In realtà l’impianto di
Niers trattava acque dolci, mentre l’impianto da costruire a Marghera avrebbe
dovuto trattare (come in effetti poi avvenne con l’impianto SG31) acque
salmastre.
Risulta quindi evidente
che la tecnologia adottata a Niers non avrebbe potuto essere applicata
direttamente a Marghera; era necessaria una adeguata sperimentazione per
valutare e controllare il funzionamento di un impianto destinato a operare con
acque salmastre non essendo disponibili nella letteratura tecnica dati
sufficienti per la sua progettazione.
E’ infatti pacifico che
l’impianto SG31 è stato uno dei primi impianti del genere ad essere stato
realizzato in Europa.
Di conseguenza non è
possibile parlare di colpevole ritardo nella attuazione dell’impianto biologico
del Petrolchimico di Porto Marghera.
La parte civile Medicina
Democratica, nella memoria depositata il 2\12\2004, dopo aver ribadito che non
tutte le acque clorurate provenienti dai vari impianti del Petrolchimico erano
sottoposte al trattamento di strippaggio prima di pervenire al depuratore
biologico in quanto quelle in uscita dai reparti CV10-11 non subivano tale
trattamento, ha evidenziato che l’impianto chimico-fisico-biologico SG31 non
era e non è in grado di trattare i composti organoclorurati e in modo
particolare le diossine (PCDD) e i furani (PCDF) essendo stato progettato per
la sola biodegradazione delle sostanze organiche carbonacee.
La tesi della parte
civile risulta smentita da una fonte ufficiale al di sopra di ogni sospetto e
cioè dal Decreto Ministeriale 26\5\1999 avente ad oggetto la “Individuazione
delle tecnologie da applicare agli impianti industriali ai sensi del punto 6
del decreto interministeriale del 23\4\1998 recante requisiti di qualità delle
acque e caratteristiche degli impianti di depurazione per la tutela della
laguna di Venezia”.
Nella tabella allegata
al citato decreto ministeriale, ove vengono riepilogate le migliori tecnologie disponibili
per l’abbattimento degli inquinanti nelle acque, si afferma esplicitamente che
il trattamento biologico costituisce la migliore tecnologia disponibile per
l’abbattimento delle diossine nelle acque reflue secondo gli Universal
Standards dell’EPA.
Nel Documento tecnico di
supporto alla redazione dello stesso Decreto Ministeriale si fornisce anche la
spiegazione tecnica della conclusione sopra riportata in quanto si precisa che:
“ un trattamento di chiariflocculazione ben effettuato si può ritenere che sia
in grado di abbattere i solidi sospesi fino a qualche ppm, con presumibili
abbattimenti dei microinquinanti organo clorurati adesi intorno al 95%”.
A chiarimento di quanto
sopra riferito bisogna ricordare che l’impianto biologico SG31 del Petrolchimico
prevede il trattamento di chiariflocculazione citato nel Documento tecnico come
risulta dalla descrizione dell’impianto stesso contenuta nell’allegato al
Decreto Ministeriale 26\5\1999 Parte I.
In altre parole il
Decreto Ministeriale conferma che un comune impianto di trattamento
chimico\fisico delle acque (come quello del Petrolchimico) può essere in grado
di abbattere quasi interamente (attorno al 95%) i microinquinanti
organoclorurati e le diossine presenti nelle acque attraverso l’eliminazione dei
solidi sospesi a cui le diossine tendono ad aderire.
In conclusione anche
questa doglianza della parte civile Medicina Democratica è risultata quindi
infondata.
3.7.3 Gli scarichi idrici.
Si deve ora procedere
all’esame delle doglianze avanzate dalla accusa pubblica e dalla accusa privata
nei confronti della affermata infondatezza, da parte della sentenza appellata,
di due addebiti di colpa relativi agli scarichi idrici e cioè la negazione
della tesi accusatoria secondo cui gli scarichi sarebbero stati effettuati in
violazione del divieto di “diluizione” e dell’altra tesi accusatoria secondo
cui il superamento dei parametri di accettabilità previsti dal D.P.R. 962\1973
avrebbe determinato condizioni peggiorative dello scarico nelle acque.
Prima di iniziare
l’esame di questa parte dei motivi d’appello sembra opportuno delineare in
maniera succinta la situazione degli scarichi idrici del Petrolchimico tenuti
al rispetto dei limiti di accettabilità previsti dal D.P.R. 962\73.
Al momento della entrata
in vigore dei limiti di accettabilità sopra citati (1\3\1980) gli scarichi di
acque reflue con recapito in laguna tenuti al rispetto di tali limiti erano i
seguenti:
I)
SM 15, con recapito nel canale
Malamocco-Marghera, nel quale confluivano acque di processo ed altre correnti
interne costituite da acque di raffreddamento e di lavaggio, nonché la corrente
SM 22 proveniente dall’impianto chimico-fisico-biologico (SG31) che però doveva
rispettare i limiti di accettabilità prima della immissione nello scarico
principale. Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 133\92 due delle altre correnti
interne confluenti nello scarico principale furono assoggettate al rispetto dei
limiti di accettabilità direttamente a piè di reparto e cioè le correnti SI 1
(acque mercuriose che erano il refluo dell’impianto di demercurizzazione) ed SI
2 (acque contenenti composti organoclorurati che erano il refluo dell’impianto
CS 30);
II)
SM 2 con recapito nel Canale
Lusore-Brentelle, nel quale confluivano le correnti interne SA 9 e SC 25;
III)
SM 7 con recapito nel Canale Industriale
Sud;
IV)
SM 8 con recapito nel canale Industriale
Ovest, nel quale confluiva anche la corrente interna SA 9;
V)
SM 9 con recapito nel Canale Industriale
Ovest.
Il Magistrato alle Acque aveva quindi
rilasciato le prescritte autorizzazioni per gli scarichi sopra indicati senza
imporre alcuna specifica prescrizione per le correnti interne confluenti nei
cinque scarichi principali, fatta eccezione, come si è detto, per la corrente
SM 22 e, successivamente, per le correnti SI 1 ed SI 2, confluenti nello
scarico SM 15.
A fronte di questa
situazione di fatto, sostanzialmente incontestata, già in primo grado l’accusa
aveva sostenuto che stante l’incontroversa confluenza nello scarico SM 15 di
acque di processo e di altre correnti recapitate da scarichi parziali, sarebbe
stata realizzata una diluizione vietata consentendo così di scaricare quantità
di inquinanti che non sarebbe stato consentito immettere nel corpo ricettore se
ciascun flusso di acque fosse stato scaricato separatamente e se i limiti di
concentrazione di sostanze inquinanti fossero stati applicati a ciascun flusso separatamente
prima della miscelazione.
Il Tribunale aveva
rigettato la tesi accusatoria con motivazione pienamente condivisibile in
quanto basta su una corretta interpretazione delle norme vigenti.
In vero le norme
speciali per la tutela della laguna (D.P.R. 171\73 e D.P.R. 962\73) non
contenevano norma specifiche sul problema della diluizione e sulla confluenza
di più correnti in uno scarico finale con recapito in laguna, conseguentemente
la disciplina applicabile era quella dettata dalla Legge 10\5\1976 n.319 ( c.d.
legge Merli) la quale stabiliva all’art.9, comma 4, che “i limiti di
accettabilità non potranno in alcun caso essere conseguiti mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente allo
scopo”.
Il significato della
norma appare evidente nel senso che la diluizione vietata è esclusivamente
quella realizzata mediante miscelazione delle acque reflue industriali con
acque prelevate espressamente e specificamente allo scopo di diluire il refluo
per conseguire fraudolentemente il rispetto del limite di accettabilità allo
scarico.
Risulta al contrario
consentita la miscelazione con acque che, funzionalmente, attengono, anche se
in modo indiretto, al processo produttivo e cioè quelle acque che sono
utilizzate per il funzionamento degli impianti come, nel nostro caso, erano
sicuramente le acque di raffreddamento e di lavaggio (notoriamente gli impianti
industriali necessitano di acque per raffreddare le parti degli impianti
soggette ad atrito o per lavare macchinari e contenitori).
Le acque di raffreddamento
e di lavaggio non possono certo definirsi come acque prelevate al solo scopo di
diluire le acque di processo.
La conferma di tale
interpretazione della norma in esame proviene anche dai commi 6° e 7° dello
stesso art.9 della legge Merli il primo dei quali prevedeva la possibilità per
l’autorità di controllo di “richiedere per gli scarichi parziali contenenti le
sostanze di cui al punto 10 delle tabelle A e C allegate alla presente legge
(sostanze estranee al presente procedimento), subiscano un trattamento
particolare prima della loro confluenza nello scarico generale”; mentre il
comma 7° statuiva che “non è comunque consentito diluire con acque di
raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi
parziali contenenti le sostanze di cui al n.10 delle tabelle A e C prima del
trattamento degli scarichi parziali stessi per adeguarli ai limiti previsti
dalla presente legge”.
Dal complesso normativo
sopra esposto si evince quindi chiaramente che la legge Merli non solo non
vietava, ma dava anzi per scontata la possibilità di una confluenza degli
scarichi parziali nello scarico generale prevedendo una disciplina più rigorosa
solo per gli scarichi parziali contenenti delle sostanze diverse da quelle
scaricate dal Petrolchimico.
Si deve inoltre rilevare
che con la disposizione del comma 7° dell’art.9 il legislatore ha evidenziato
di aver ben presente la differenza concettuale fra acque di raffreddamento o di
lavaggio e acque prelevate esclusivamente allo scopo di diluire i reflui.
La disciplina normativa
prevista sul punto dalla legge Merli è stata poi integralmente confermata dal
D. Lgs. 11\5\1999 n.152 che ha integralmente abrogato e sostituito la legge
Merli.
L’art. 28, commi 4° e 5°
del D.Lgs. 152\99 confermano integralmente le disposizioni della legge Merli
sulla diluizione facendo però una precisazione che conferma l’interpretazione
data dal Tribunale alla normativa in esame. Si deve infatti rilevare che l’art.
28, comma 5° del D.Lgs. 152\99 dispone testualmente che: “ l’autorità
competente, in sede di autorizzazione, può prescrivere che lo scarico delle
acque di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la produzione di
energia, sia separato dallo scarico terminale di ciascun stabilimento”.
Ciò conferma che di regola
la confluenza di diverse correnti (acque di processo, di raffreddamento, di
lavaggio o altre acque) nello scarico generale all’interno di un determinato
complesso industriale è perfettamente consentita, salvo che si tratti di
scarichi contenenti particolari sostanze (che non riguardano il nostro
processo) o che vi sia un esplicito provvedimento dell’autorità amministrativa
(che non risulta essere mai stato emesso nel caso in esame).
In sede di giudizio
d’appello le accuse pubbliche e private hanno insistito nel sostenere una
interpretazione particolarmente rigida della normativa facendo rilevare che la
disciplina specifica e più rigorosa di quella generale prevista per alcuni
scarichi parziali in ragione del loro contenuto non faceva venir meno il carattere
assoluto ed inderogabile del divieto di diluizione, previsto dal comma 4°
dell’art.9 della legge Merli e, poi, dal comma 5° dell’art.28 del D.Lgs.152\99,
dal quale deriverebbe un divieto egualmente assoluto ed inderogabile di
miscelazione delle acque di raffreddamento e di lavaggio con le acque di
processo.
Il P.G., a sostegno di
questa interpretazione della normativa, ha anche citato alcune pronunce
giurisprudenziali (Cass. Sez.III, 21\7\1988 n.8331 e Cass. Sez.III, 19\1\1994
n.439) nelle quali si era sostenuto che il divieto di diluizione imposto dalla
legge Merli aveva un carattere assoluto ed inderogabile e aveva vietato
qualsiasi forma di miscelazione dei reflui dello specifico ciclo produttivo con
altre correnti interne.
Si tratta di un orientamento
giurisprudenziale già noto a questo Collegio, ma che appare espressione di una
eccessiva forzatura del significato letterale della norma che arriva ad essere
interpretata in via di analogia.
Le citate decisioni
della Cassazione avevano l’evidente scopo di raggiungere obbiettivi di tutela
ambientale in casi limite nei quali la possibilità di miscelare acque di
processo con acque di raffreddamento e di lavaggio aveva consentito fraudolenti
superamenti dei limiti di accettabilità.
Indubbiamente la normativa
vigente consentiva che un imprenditore di pochi scrupoli potesse modulare il
quantitativo delle acque di lavaggio o di raffreddamento immesse nello scarico
finale non in funzione delle esigenze effettive degli impianti e del ciclo
produttivo, ma in relazione alla necessità di ridurre la concentrazione degli
inquinanti presenti nel refluo entro i limiti di accettabilità.
Anche in presenza di
tali situazioni è facile replicare che in linea di principio non è necessario
forzare l’interpretazione della legge in quanto le acque prelevate in eccesso
rispetto a quelle effettivamente necessarie ai fini di raffreddamento e di
lavaggio e poi scaricate allo scopo di diluire i reflui sono sicuramente acque
prelevate esclusivamente allo scopo di diluizione per le quali è pacificamente
applicabile la disciplina dettata dall’art.9, comma 4° legge Merli
nell’interpretazione data dal Tribunale e condivisa da questo Collegio, senza
ricorrere a forzature interpretative del dettato letterale.
Indubbiamente nei casi
sopra indicati si verificavano in pratica grosse difficoltà di accertamento e
di prova.
Il legislatore si è reso
conto di tale problematica e, come si è già detto, vi ha posto rimedio
prevedendo, con la disposizione dell’art.28, comma 5° del D.Lgs. 152\99, che
“l’autorità competente , in sede di autorizzazione, può prescrivere che lo
scarico delle acque di raffreddamento, di lavaggio, ovvero impiegate per la
produzione di energia, sia separato dallo scarico terminale di ciascun
stabilimento”; mentre un obbligo di separare le acque di raffreddamento e
meteoriche da quelle di processo è stato previsto per la prima volta e soltanto
per gli scarichi che recapitano nella Laguna di Venezia con il Decreto
Ministeriale Ronchi-Costa del 30\7\1999 con decorrenza dal 1\1\2002.
Tornando ora all’oggetto
del presente procedimento penale, resta da rilevare che non è stata acquisita
alcuna prova che gli imputati abbiano fraudolentemente aumentato le portate
delle acque di raffreddamento e lavaggio per diluire i reflui contenuti nello
scarico principale ed è pacifico che l’autorità amministrativa non ha mai
prescritto (nel periodo temporale in esame) la separazione delle acque di
raffreddamento e lavaggio da quelle di processo.
Per tali motivi non può
quindi parlarsi, nel caso in esame, di abusiva diluizione delle acque di
scarico sulla base della semplice circostanza che negli stessi scarichi
confluivano acque di processo e acque di raffreddamento in quanto tale
miscelazione era consentita dalla normativa vigente.
Sempre a proposito degli
scarichi idrici del Petrolchimico gli appellanti contestano la sentenza di
primo grado nella parte in cui ha negato che il semplice superamento dei
parametri di accettabilità più volte riscontrato documentalmente abbia
determinato condizioni peggiorative delle acque lagunari rilevanti ai fini dei
reati contestati di disastro, adulterazione e avvelenamento.
Il P.M. parte dalla
premessa che nel corso dell’istruttoria dibattimentale erano stati acquisiti
tutti i bollettini interni delle analisi compiute sugli scarichi del
Petrolchimico; dall’esame di tale grande mole di documenti era emerso che gli
scarichi idrici dello stabilimento avevano presentato rilevanti frequenze di
superamento dei limiti stabiliti dalla legge per diversi tipi di inquinanti.
La frequenza temporale
di tali casi di superamento era andata decrescendo dagli anni ’80 agli anni ’90
per poi attestarsi negli ultimi anni su una percentuale superiore all’1%.
Nel corso del giudizio di
primo grado i consulenti delle parti avevano molto discusso sulle modalità di
rilevamento e di calcolo dei superamenti, ma in questa sede tali problemi non
hanno più interesse.
La questione posta dagli
appellanti nei motivi è infatti di carattere generale dato che si sostiene che
i superamenti dei limiti tabellari, indipendentemente dal loro numero e dalla
loro frequenza, avrebbero comunque determinato un peggioramento delle
condizioni delle acque lagunari rilevante ai fini dell’accertamento dei reati di
disastro, avvelenamento e adulterazione contrariamente a quanto ritenuto dal
Tribunale.
Secondo il P.M. la
normativa sulla tutela delle acque dall’inquinamento ha sempre previsto, come
elemento basilare, un sistema di valori limite della concentrazione degli
inquinanti negli scarichi idrici stabiliti in opportune tabelle; si tratta di
limiti di concentrazione massima che non possono essere superati in alcun caso.
La scelta del
legislatore è stata precisa e pienamente consapevole delle conseguenze, per cui
non è possibile negarla perché altrimenti verrebbe negata o stravolta la norma.
Tale stravolgimento era
stato appunto operato dal Tribunale nel momento in cui aveva ritenuto, aderendo
alle tesi difensive, che i valori limite fossero da riferirsi alle concentrazioni
medie (addirittura medie annue).
Si rileva che
accogliendo la tesi delle difese si giungerebbe a conseguenze assurde in quanto
uno scarico potrebbe, per periodi limitati, presentare concentrazioni di
inquinanti così elevate da costituire un vero e proprio veleno per la vita
acquatica del corpo recettore, e poi ridurre nel corso dell’anno le
concentrazioni in modo da non superare il valore limite medio.
Comunque se il
legislatore avesse inteso stabilire dei valori limite medi (giornalieri, mensili
o annui) lo avrebbe detto espressamente come ha in effetti fatto in materia di
tutela contro l’inquinamento atmosferico fissando anche i tempi su cui si
devono mediare le concentrazioni (un anno per i microinquinanti, una settimana
per altri inquinanti).
Ad avviso di questo
Collegio la tesi accusatoria non appare condivisibile.
Indubbiamente il sistema
normativo di tutela delle acque dall’inquinamento è basato sui limiti di
concentrazione previsti nelle apposite tabelle; il superamento di tali limiti ha
immediato rilievo penale nel senso che comporta l’applicazione delle sanzioni
previste dalle varie contravvenzioni in materia indipendentemente da qualsiasi
accertamento sugli effetti negativi cagionati in concreto dall’inquinante sul
corpo recettore.
In questa sede, però,
non ci stiamo occupando di contravvenzioni, ma dei contestati delitti di
disastro, avvelenamento e adulterazione; dobbiamo cioè accertare se la condotta
degli imputati (concretizzatasi nel superamento dei limiti tabellari) abbia
cagionato gli eventi costitutivi dei delitti in esame.
In altre parole dobbiamo
accertare se a seguito degli accertati superamenti dei limiti di concentrazione
si sia verificato un obiettivo peggioramento della qualità delle acque del
corpo recettore con conseguente danno per i sedimenti, per il biota e per
l’ambiente in generale.
Tale accertamento può
essere effettuato solo in un modo e cioè calcolando quanto inquinante poteva
essere legittimamente immesso in laguna, in un certo periodo di tempo,
rispettando istante per istante i parametri tabellari e confrontando il
risultato con il quantitativo di inquinante effettivamente immesso nello stesso
corpo ricettore nell’identico periodo di tempo.
Solo da tale confronto
si potrà dedurre se vi sia stato un peggioramento della qualità del corpo
ricettore rispetto a quanto previsto dalle norme di tutela e si potrà valutare
l’entità e la gravità di tale eventuale peggioramento.
Nel presente
procedimento il consulente della difesa prof. Foraboschi ha elaborato i dati a disposizione
calcolando i valori medi di concentrazione degli inquinanti per cinque anni
tenendo conto di tutti i parametri per i quali si era verificato un superamento
e per tutti gli scarichi giungendo alla conclusione che non si era mai ottenuto
un valore medio di concentrazione nell’anno superiore al corrispondente limite
annuo calcolato sulla base delle tabelle di legge.
La conclusione è che se
uno scarico, nel suo complesso, si attesta su valori medi inferiori ai valori
soglia, produce un impatto complessivo corrispondente a quello di uno scarico
che sia stato regolare in ogni momento.
Ai fini della decisione
che si deve prendere in questa sede non si può prescindere dalla valutazione
del contributo all’inquinamento del corpo idrico e cioè del carico inquinante complessivo riversato nel corpo
ricettore dagli scarichi in esame.
La valutazione del
contributo all’inquinamento del corpo idrico è una cosa diversa dal controllo
del rispetto dei limiti di accettabilità e la sua rilevanza non è una
invenzione delle difese degli imputati o del Tribunale, ma trova riscontri in
vari riferimenti normativi.
Basterà ricordare che
l’Istituto di Ricerca sulle Acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche nel
Quaderno 100 pubblicato nel 1994, trattando dei metodi di campionamento,
precisava che: “fra i diversi obiettivi da perseguire nel campionare le acque
di scarico si possono indicare come più frequenti i seguenti: - controllo dei limiti di accettabilità previsti da
leggi e regolamenti – valutazione del contributo
all’inquinamento del corpo idrico e più in generale del sistema
ricettore…”.
Vi è poi il D.Lgs.152\99
che richiede la “stima dell’inquinamento in termini di carico e la stima
dell’impatto” (all.4) e indica il carico massimo ammissibile come elemento
centrale per la determinazione proprio dei valori limite di emissione in
funzione della tutela delle acque, consentendo alle Regioni di fissare tali
valori con riferimento alla “quantità massima per unità di tempo” immessa nel
corpo idrico, per ogni inquinante e per gruppi o famiglie di inquinanti
(art.28, commi 1° e 2°); il Decreto Ministeriale 23\4\1998, relativo ai
requisiti di qualità delle acque e caratteristiche degli impianti di
depurazione per la tutela della laguna di Venezia, che richiede la valutazione
dei “carichi massimi ammissibili complessivi di inquinanti in laguna”; ed in
fine il D.P.C.M. 27\12\1988 (Norme tecniche per la redazione degli studi di
impatto ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità di cui
all’art.6 Legge 8\7\1986 n.349, adottate ai sensi dell’art.3 del D.P.C.M.
10\8\1988 n.377), che richiede la “stima del carico inquinante” per le analisi
concernenti i corpi idrici.
In conclusione appare
condivisibile la decisione del Tribunale di ritenere infondata la tesi
dell’accusa secondo cui il superamento dei parametri di accettabilità
verificatosi in alcune occasioni negli scarichi idrici del Petrolchimico
avrebbe determinato condizioni peggiorative delle acque della laguna rilevanti
ai fini dei reati contestati in quanto tale valutazione può essere fatta solo
in base ad una stima del carico inquinante complessivo e del relativo impatto
sul corpo ricettore calcolato sulla base di valori medi rilevati nel corso di
un periodo di tempo determinato.
E’ sicuramente vero che il
ricorso ai valori medi di concentrazione comporta il pericolo che uno scarico
possa sversare in un periodo di tempo limitato altissime concentrazioni di
inquinanti costituenti un vero veleno per la vita acquatica e poi rientrare nei
limiti in modo tale da non superare il valore limite medio calcolato nell’anno;
ma identico pericolo sussiste con il criterio dei valori limite di
concentrazione in quanto uno scarico anomalo può verificarsi in tutti i momenti
in cui non vengono effettuati i prelievi per le analisi di controllo.
Bisogna comunque
evidenziare che nel caso in esame nessuno delle migliaia di bollettini di
analisi acquisiti agli atti attesta sversamenti di inquinanti in misura così
elevata da potersi definire come episodio di grave inquinamento.
3.7.4 Rifiuti e inceneritori.
In questo paragrafo il
P.M. non espone dei veri e propri motivi di impugnazione limitandosi a svolgere
considerazioni di carattere generale a chiarimento del suo totale dissenso
rispetto alle tesi sostenute dalle difese degli imputati e accolte dal
Tribunale.
Si rileva che l’Italia,
sollecitata dalla Comunità internazionale, aveva adottato normative specifiche
allo scopo di ottenere il contenimento dell’inquinamento delle acque proprio a
salvaguardia di Venezia e del suo ambiente e si cita in particolare la Legge
16\4\1973 n.171 ( “Interventi per la salvaguardia di Venezia”) che prevedeva un
serrato programma di interventi a carico delle istituzioni nazionali, regionali
e locali in quanto le stesse avrebbero dovuto stabilire: “ limitazioni
specificamente preordinate alla tutela dell’ambiente naturale, alla
preservazione dell’unità ecologica e fisica della laguna, alla preservazione
delle barene ed all’esclusione di ulteriori opere di imbonimento, alla
prevenzione dell’inquinamento atmosferico ed idrico e, in particolare, al
divieto di insediamenti industriali inquinanti, ed ai prelievi e smaltimenti
delle acque sopra e sotto suolo” (art. 3, comma 2° lett.c, Legge 171\73).
A fronte di queste
precise disposizioni l’adeguamento degli scarichi idrici ai limiti di legge lo
si era ottenuto solo nel 1983 e cioè con dieci anni di ritardo rispetto alla
promulgazione della legge.
A questo rilievo si deve
però replicare che il ritardo nell’adeguamento degli scarichi idrici non appare
attribuibile agli imputati se si tiene conto che i principi generali fissati
con la Legge 171\73 si erano concretizzati in più precise disposizioni di
carattere pratico con il D.P.R. 20\9\1973 n.962 che prevedeva in una apposita
tabella i limiti di accettabilità applicabili agli scarichi idrici in laguna e
che tali limiti erano entrati effettivamente in vigore solo in data 1\3\1980.
L’appellante contesta
poi l’affermazione del Tribunale secondo cui “in materia di gestione dei
rifiuti, accanto a forme di smaltimento in discarica (come d’uso in allora),
furono impiegate tecnologie avanzate” e ricorda in proposito che l’impianto CS
28 di incenerimento dei residui clorurati aveva evidenziato fin dall’inizio
forti carenze a causa dell’utilizzo di materiali inadeguati in relazione alla
corrosività dei fluidi trattati.
Tali carenze erano
spiegabili solo con scelte di risparmio economico in quanto la Montedison,
all’epoca, gestiva numerosi impianti che trattavano fluidi corrosivi ed era
sicuramente a conoscenza della esistenza di materiali disponibili sul mercato e
resistenti alla corrosione acida.
Sul punto specifico le affermazioni del P.M.
appaiono smentite dalla descrizione dell’impianto contenuta nel documento di
collaudo dal quale si rileva che per la costruzione di varie parti
dell’impianto stesso furono utilizzati: acciai ebanitati, rivestimenti
antiacido, teflon, grafite, Hastelloy. Nella relazione di collaudo si specifica
anche che: “Ben noto è infatti l’elevato potere corrosivo dell’acido cloridrico
per cui solo taluni materiali, quali grafite, teflon, hastelloy, acciaio
ebanitato o altri rivestimenti antiacido, a seconda della condizione, danno
sufficienti garanzie di resistenza”.
Risulta quindi che
furono impiegati nell’impianto in questione proprio quei materiali ritenuti
all’epoca più idonei per quel tipo di uso.
Infine il P.M. segnala
che la sentenza impugnata nulla ha detto di altri impianti di incenerimento di
rifiuti come quello di incenerimento di reflui liquidi del reparto TD del quale
erano state evidenziate in aula le carenze impiantistiche o dell’impianto di
incenerimento del nerofumo del reparto AC1 privo di sistemi di abbattimento
degli inquinanti.
In realtà il silenzio
della sentenza di primo grado sui due impianti sopra indicati trova la sua
spiegazione nella circostanza, in precedenza già ricordata (V. par. 3.7.1), che
le immissioni in atmosfera di inquinanti sono risultate irrilevanti ai fini
dell’accertamento della sussistenza dei reati di disastro, avvelenamento e
adulterazione.
L’appellante accenna
anche all’impianto di produzione di cloro-soda con celle a catodo di mercurio e
ai connessi problemi di formazione e rilascio in ambiente di rilevanti quantità
di residui tossici e reflui contenenti mercurio e diossine, ma anche questa
questione è stata esaminata e trattata nel paragrafo 3.7.1.
CAPITOLO 3.8
APPELLO P.M.
LE CONSULENZE TECNICHE DEL PUBBLICO MINISTERO
L’ACCERTAMENTO DEL
LABORATORIO M.P.U. DI BERLINO
3.8.1 Rapporto tra prima e seconda zona
industriale.
Come è stato già
ricordato nella parte relativa alla esposizione dei fatti, la sentenza di primo
grado ha rigettato la tesi accusatoria che indicava nel Petrolchimico l’unica
fonte dell’inquinamento riscontrato in laguna precisando che in realtà un ruolo
determinante era stato individuato in un fenomeno di inquinamento di vecchia
data proveniente dalla prima zona industriale e diffusosi in laguna attraverso
i dragaggi dei canali, il movimento dei natanti a motore e, soprattutto, a
seguito di vasti imbonimenti della Seconda Zona Industriale ove poi era sorto
il Petrolchimico.
A proposito
dell’imbonimento la sentenza affermava: “E’ acquisizione probatoria sicura che
il sottosuolo della Seconda Zona Industriale, per l’estensione di alcune
centinaia di ettari (ad est dell’alveo del Canale Bondante) è costituito da rifiuti di antica derivazione dalle
produzioni insediate nell’ambito della Prima Zona Industriale. Rifiuti che con
valutazione tecnica e normativa dell’oggi diremmo tossico-nocivi. Allora ritenuti dalla mano pubblica una risorsa
preziosa per strappare terra alle acque e sostenere la vocazione industriale di
Venezia. E’ acquisizione certa che nello zoccolo di questa enorme massa di
rifiuti sono stati scavati interamente il Canale Industriale Sud, il Canale
Industriale Ovest e, in parte, il Canale Malamocco-Marghera (Seconda Zona
Industriale)” (Sentenza pag.656-659).
Gli appellanti
contestano le conclusioni del Tribunale sul punto mettendo in discussione la
cronologia dell’opera di imbonimento dell’area destinata alla Seconda Zona
Industriale evidenziando l’esistenza di mappe e foto aeree dalle quali emerge
che già negli anni ’40 – ’50 gran parte della seconda zona industriale era già
bonificata con ampi spazi agricoli e che nella stessa area erano state create
discariche di rifiuti provenienti dal Petrolchimico prima del 1970 e fino alla
fine degli anni ’80.
Le obiezioni degli
appellanti risultano però chiaramente smentite da varie prove acquisite nel
corso del giudizio di primo grado. Vi è un primo documento che attesta l’inizio
dell’imbonimento addirittura negli anni ’30 con materiali di risulta delle
produzioni della prima zona industriale ed è la convenzione tra il Magistrato
alle Acque, il Corpo Reale del Genio Civile, la Provincia di Venezia, l’Ufficio
di Venezia con la ditta Ettore Levi datata 30\3\1929, con la quale quest’ultima
concedeva che una parte dei terreni barenosi
di sua proprietà siti in corrispondenza dell’attuale seconda zona
industriale venissero adibiti a sacca di deposito di rifiuti delle lavorazioni
industriali che dovevano essere spianati alla quota di m.1,50 sopra il medio
mare e poi ricoperti con uno strato di materiale proveniente dagli scavi del
Porto Laguna di Venezia.
Il Piano Direttore del
2000 della Regione Veneto attesta che “le aree industriali di Porto Marghera
sono state realizzate innalzando e consolidando il terreno naturale barenoso
fino a quota +2.00 – 2,50 m s.l.m., sia
mediante l’impiego di materiali dragati, sia utilizzando rifiuti e residui di
lavorazione industriale, Tutta l’area è stata interessata, a partire dagli anni
’20, dal riporto di rifiuti e di residui di lavorazioni industriali per
imbonimento; questa pratica si è protratta fino agli anni ’70 fino a
raggiungere spessori medi di riporto di 2,5-3 m.”
Vi sono altri documenti
che confermano le stesse cose e tra questi possiamo ricordare l’ “Indagine
sulle risulte industriali di Porto Marghera”, Consorzio Venezia Nuova del 1996;
l’ “Analisi di rischio dell’area 43 ettari” realizzata dal Comune di Venezia
nel 1999; il “Progetto generale di arresto e inversione del degrado lagunare”
redatto nel 1993 dal Magistrato alle Acque.
Oltre alla prova
documentale vi è anche una prova testimoniale proveniente da uno dei testi
chiave dell’accusa e cioè il teste Chiozzotto, tecnico del Comune, il quale
all’udienza del 27\4\2001 ha testualmente riferito che: “…una volta realizzate
le prime aziende, la volontà di allargare il polo industriale ha comportato
l’opportunità ritenuta allora evidentemente ottimale dell’impiego di
determinati materiali per recuperi altimetrici per quanto riguarda i terreni di
gronda, cioè, vale a dire, quei terreni che sono a est del Canale Bondante….i
materiali di risulta delle attività produttive della prima zona industriale …”.
Questo quadro probatorio
certo, coerente e univoco non può certo essere inficiato dalla circostanza che
dalle mappe e dalle foto aeree le aree in questione apparivano, negli anni ’40
–’50 coltivate o comunque coperte da vegetazione; infatti i primi imbonimenti
erano iniziati negli anni ’30 con materiali provenienti dalla prima zona
industriale che poi venivano ricoperti con altri materiali provenienti dagli
scavi del Porto di Venezia (come previsto dalla Convenzione Levi del 1929) e
ciò consentiva il successivo utilizzo dei terreni così ottenuti ad uso agricolo
in attesa dei nuovi insediamenti industriali.
Risulta altresì
pacificamente provato che parte delle aree ottenute con l’imbonimento furono
utilizzate anche per creare delle discariche utilizzate per i rifiuti del
Petrolchimico prima dell’entrata in vigore della normativa generale sui
rifiuti, ma la circostanza non contrasta affatto con il precedente imbonimento
del terreno nei tempi e nei modi sopra indicati.
Il P.M., sempre nel
tentativo di evidenziare l’erroneità delle conclusioni del Tribunale sul punto
in esame, ricorda che il Canale Brentella e il Canale Industriale Nord (situati
nell’ambito della Prima Zona Industriale) erano stati dragati negli anni ’60 e
che, successivamente, vi era stata riscontrata la presenza di sedimenti
contaminati che ovviamente vi si erano depositati dopo tale data.
“Dato che le impronte –
secondo il Collegio – sarebbero quelle tipiche del catabolismo della prima zona
industriale, evidentemente c’è qualcosa che non torna nel ragionamento fatto
dal Collegio stesso (e mutuato esattamente dalle argomentazioni della difesa).
Per l’accusa la questione è più semplice: si tratta dell’ennesima prova che
dimostra come anche attualmente vengano prodotte impronte di vario genere come
detto e come si dirà” (motivi P.M. pag.1319).
L’osservazione
dell’appellante potrebbe avere grande rilievo se veramente l’inquinamento
proveniente dalla Prima Zona Industriale si fosse fermato negli anni ’50, ma
ciò non risponde a verità. I consulenti della difesa Colombo e Bellucci hanno
infatti riferito che nella prima zona industriale l’attività di decuprazione
delle ceneri di pirite fosse continuata fino ai primi anni ’70 e che la
lavorazione dell’alluminio si era protratta fino ad anni recenti; precisando
che i reflui di tali lavorazioni erano stati scaricati direttamente nel canale
Brentella e nel canale industriale Nord provocandone così l’inquinamento anche
dopo i dragaggi degli anni ’60.
Le affermazioni dei due
consulenti non sono state smentite da nessuno in sede processuale e vanificano
anche questa doglianza del P.M.
Gli appellanti insistono
comunque nel sostenere che il massimo della contaminazione è stato raggiunto
con le lavorazioni della seconda zona industriale e, quindi, del Petrolchimico
e ricordano che: “le barene campionate a S.Erasmo e Fusina, così come
presentate dal Consulente Tecnico di EniChem dr.Frignani (sigla M1 e M2) hanno
la concentrazione massima della asserita – dalla difesa – impronta della prima
zona industriale in strati che loro stessi dicono corrispondere agli anni
’60-’80 e questo vuole dire che erano emissioni di quegli anni (quindi
lavorazioni prodotte dalla seconda zona industriale), che possono essere
arrivate là solo attraverso l’atmosfera. Non esiste infatti nessuna possibilità
che rifiuti solidi, come quelli che sarebbero stati prodotti (con
quell’impronta) prima del 1940, si siano potuti ridistribuire sulle barene a
quella distanza!” (motivi P.M. pag.1287).
Anche a questo rilievo
si può replicare, come è stato fatto per il precedente, evidenziando che le
attività inquinanti della prima zona industriale continuarono fin oltre gli
anni ’70 per cui la presenza di alte concentrazioni di inquinanti in strati corrispondenti
agli anni ’60 – ’80 risulta perfettamente compatibile con la tesi della
provenienza dalle industrie della prima zona industriale.
A ciò si deve aggiungere
che, come ha evidenziato la difesa degli imputati in varie memorie, i
consulenti Frignani e Bellucci avevano analizzato anche i sedimenti di barena e
dalle cronologie era emerso con chiarezza come l’inquinamento da metalli e da
inquinanti organici precedeva l’inizio delle attività del Petrolchimico e che i
massimi di contaminazione risalivano agli anni ’50 – ’60 e non agli anni ’60 –
’80 come sostenuto dall’accusa (Cfr. doc. 0 allegato alla memoria
Colombo-Bellucci).
La circostanza di cui
sopra è confermata anche dal Programma 2023 – Linea C nell’ambito del quale
erano state studiate due barene (M3 ed M4) che integrano le informazioni
ottenute dalle barene M1 e M2 (studiate da Frignani); anche le cronologie dei
sedimenti di queste barene rivelano nuovamente che i valori massimi di Diossine
e Furani sono stati raggiunti negli anni ’50 – ’60 e le massime concentrazioni
di Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) risalgono agli anni ’60. In questi
stessi siti le concentrazioni di contaminanti nei livelli più superficiali e,
quindi, più recenti del sedimento, sono invece prossime ai valori di fondo.
A questo punto il P.M.
ripropone nei motivi d’appello l’argomento dell’ “impronta delle diossine”,
ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado.
Bisogna premettere che
la famiglia delle diossine e dei furani (PCDD e PCDF) è composta da 210
“congeneri”; di questi usualmente vengono analizzati i diciassette “congeneri”
dalla tossicità più elevata; questi 17 “congeneri” possono essere riuniti per
“grado di clorurazione” in base agli atomi di cloro presenti nella molecola e
così, con questa ulteriore operazione, i “congeneri” vengono ridotti da 17 a
dieci “omologhi” e cioè: tetra-, penta-, esa-, epta- e octa- diossine; e tetra-, penta-, esa-,
epta-, e octa-furani.
Quando varia il processo
produttivo che genera le diossine e i furani varia in qualche misura anche la
proporzione fra i dieci gruppi di PCDD\PCDF sopra elencati.
In buona sostanza è
possibile individuare una “impronta” ( o “profilo”) delle PCDD\PCDF e
associarlo ad un determinato processo chimico.
Esistono studi che
indagano i “profili” delle PCDD\F e che cercano di associare un tipo di
“impronta” a tipi di produzione.
Di conseguenza trovando
in un campione di sedimento contaminato un “profilo” (o “impronta”) simile ad
uno dei “profili” noti è possibile associare quella contaminazione al processo
produttivo in grado di determinarla anche se in maniera non scientificamente
certa.
Il Tribunale, dopo aver
preso in esame lo studio del confronto delle impronte della contaminazione da
PCDD\F su campioni prelevati in diverse zone della laguna e nei canali della
prima e della seconda zona industriale effettuato dal consulente della difesa
prof. Vighi, aveva ritenuto la sussistenza di una sostanziale differenza tra le
caratteristiche del sedimento della prima zona industriale ( in particolare
canale Brentella e canale industriale Nord) e quelle dei campioni prelevati nel
canale Lusore-Brentelle ove pacificamente il Petrolchimico effettuava i suoi
scarichi prima della regolarizzazione.
Tale evidente differenza
rendeva altresì palese che le due aree erano soggette a fonti diverse di
contaminazione da PCDD\F.
Il P.M. contesta le
conclusioni del primo giudice evidenziando che “il ciclo di lavorazione
DCE-PVC-CVM produce non uno solo, ma almeno due (se non di più) diversi tipi di
impronta”.
Non si può parlare,
secondo l’appellante, di impronte relative alla prima zona industriale diverse
da quelle della seconda zona industriale in quanto la diversità delle impronte
è provocata anche da diverse modalità di produzione.
A sostegno di tale
affermazione il P.M. ha evidenziato che facendo la media delle impronte dei
fanghi prelevati da ARPAV, Enichem e Chelab dai pozzetti fognari interni al
Petrolchimico si ottiene un’impronta sovrapponibile a quella dei “fanghi rossi”
presenti all’esterno dell’impianto.
A parte ogni
considerazione circa la provenienza dei “fanghi rossi” che, come si vedrà in
seguito, risultano reflui di produzioni diverse da quelle del Petrolchimico, è
lecito dubitare della validità scientifica della operazione consistita nel
mediare le impronte dei fanghi dei pozzetti.
Si è già detto dei dubbi
scientifici che si nutrono sulla validità del procedimento con il quale si
giunge a determinare i “profili” di congenere; ovviamente tali dubbi aumentano
quando addirittura si pretende di ricavare delle “medie” dai profili stessi.
Resta da ricordare che
l’esame di due carote di sedimento prelevate nel canale Lusore-Brentelle, (le
carote C9 e C11) ove il Petrolchimico aveva sempre scaricato in precedenza i
suoi reflui, ha permesso al consulente della difesa prof. Vighi di dimostrare
che l’impronta di PCDD\F nei sedimenti (completamente diversa dall’impronta
“media” indicata dal P.M.) si è mantenuta sostanzialmente costante nel tempo.
Ciò esclude che nel ciclo produttivo dello stabilimento si siano verificati nel
tempo cambiamenti tali da modificare in modo sensibile le caratteristiche delle
emissioni la cui impronta risulta diversa, anche per il passato, da quella
della prima zona industriale.
3.8.2 Peci
clorurate (prodotte da vari impianti), fanghi rossi e pirite, come supposte
fonti della contaminazione da diossine.
La sentenza di primo grado, dopo aver
esaminato la questione dei rapporti fra la prima e la seconda zona industriale,
è giunta alla conclusione che per almeno cinquanta anni ( a partire dagli anni
’20 e fino a tutti gli anni ’70) le industrie insediate nella prima zona
industriale avevano scaricato tutti i rifiuti liquidi nelle acque dei canali
industriali stante l’assenza di norme relative alla tutela dell’ambiente; i
rifiuti solidi provenienti dalle stesse industrie erano stati invece utilizzati
per innalzare il terreno ove poi sarebbe sorta la seconda zona industriale.
Queste circostanze di
fatto fornivano una spiegazione logica ad un’altra importante circostanza
emersa nel corso dell’istruttoria dibattimentale e cioè che la contaminazione
dei canali decresce costantemente man mano che ci si allontana dai canali della
prima zona industriale (canale Brentella e canale industriale Nord) per
arrivare a quelli della seconda zona industriale (canale Ovest, canale
Malamocco-Marghera, canale Sud) per finire ai bassi fondali situati a sud del
Petrolchimico.
La conclusione logica
era, secondo i primi giudici, che le sorgenti della contaminazione dei
sedimenti dei canali dovevano individuarsi nella prima zona industriale dato
che proprio nei canali di tale zona si erano riscontrati i valori massimi di
tutte le sostanze che contaminano i sedimenti e cioè diossine, Bifenili
Policlorurati (PCB), Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) e metalli pesanti.
In conclusione la
contaminazione dei sedimenti non poteva essere imputata al Petrolchimico, né
per quella riscontrata nei canali della prima zona industriale ove non aveva
scarichi, né per quella (molto bassa) riscontrata nei canali confinanti lo
stesso insediamento industriale perché provocata per la massima parte dai
rifiuti solidi delle industrie della prima zona industriale utilizzati per
imbonire il terreno e soggetti a evidenti fenomeni di erosione da parte delle
acque dei canali stessi.
Il P.M. non condivide
questa conclusione e nei motivi d’appello ripropone la questione delle peci
clorurate già posta in primo grado.
Secondo le risultanze
processuali nel Petrolchimico il reparto di produzione del dicloroetano (DL2)
aveva come residui della lavorazione peci clorurate per un quantitativo di
circa 300 ton\mese.
Secondo il Tribunale
tutte le peci venivano trattate nell’impianto CS28; in realtà quest’ultimo
impianto bruciava soltanto le peci liquide, mentre le peci solide venivano
stoccate in serbatoi riscaldati (Kettle), trasferite in fusti e poi smaltite al
di fuori dello stabilimento in alcune discariche.
Dato il rilevante
quantitativo di peci da smaltire non si poteva escludere che parte di tale
rifiuto fosse stato scaricato, per mezzo di bettoline e camion, nei canali
della prima zona industriale; l’ipotesi formulata dal P.M. trovava supporto in
un documento del Magistrato alle Acque (Biotecnica, 1996) che confermava tale
possibilità.
Alla obiezione formulata
dalla difesa che aveva evidenziato come in nessun luogo della prima zona
industriale si era riscontrata l’associazione tra diossina e clorurati (come
sarebbe stato logico attendersi se veramente fossero state scaricate peci
clorurate), ma solo associazione tra diossina e metalli pesanti, il P.M. aveva
replicato facendo presente che le peci, durante la fase di riscaldamento
perdevano per evaporazione i clorurati ed era quindi possibile trovare diossine
senza i clorurati.
Il Tribunale aveva
comunque rilevato che l’ipotesi formulata dal P.M. di un trasporto di peci a
mezzo autobotti nei canali della prima zona industriale era rimasta una
semplice congettura non suffragata dal più labile indizio.
La tesi accusatoria
viene ora riproposta dal P.G. il quale sostiene che lo scarico di peci
clorurate mediante autobotti rappresenta una realtà operativa pienamente in
atto ancora nel 1978 ed anche in epoche successive; la prova di ciò è
rappresentata addirittura da un documento Montedison e cioè da una scheda
datata 28\3\1978 del manuale operativo del reparto CV11 relativa alle
“operazioni sulla rampa di carico peci su autobotti”.
La difesa ha replicato
producendo la relazione tecnica del 25\6\75 allegata alla commessa 1514
concernente la rampa di carico sopra citata e da tale relazione si rileva che:
“Il reparto CV11 produce circa 10 tonnellate\die di sottoprodotti altobollenti
che devono essere trasferiti al reparto CS28 per essere distrutti……Il
trasferimento dal reparto CV11 al reparto CS28 di questo prodotto viene fatto a
mezzo autobotti”.
Ad avviso di questo
Collegio non sembra proprio che il documento indicato dal P.G. provi la
circostanza che le peci venivano scaricate nei canali industriali; ma solamente
che venivano caricate su autobotti per essere portate alla distruzione nel
reparto CS28, o per essere depositate nelle discariche esterne di Dogaletto e
Moranzani (dove in effetti sono stati individuati i solventi clorurati che
caratterizzano le peci in questione).
Continua invece a
mancare qualsiasi prova che le autobotti scaricassero le peci nei canali della
laguna.
L’appellante contesta
poi l’affermazione fatta dal primo giudice che i c.d. “fanghi rossi”,
affioranti lungo le sponde dei canali della seconda zona industriale, derivino
dalle lavorazioni della prima zona industriale e non da quelle del
Petrolchimico.
Il primo giudice aveva
infatti affermato che: “le elevate concentrazioni di alluminio e di arsenico
nei campioni di fanghi rossi consentono di associare i campioni di tale rifiuto
alle tipologie produttive che li hanno originati: a) cinque di essi, come è
evidente, alla lavorazione della bauxite (tale attribuzione è confortata,
naturalmente, da informazioni bibliografiche, tra le quali, ad esempio, le
concentrazioni medie di Al, Cd, e Cu dei fanghi rossi bauxitici riportate nel
Piano Direttore 2000 della Regione Veneto, citato in precedenza); b) uno di
essi, come è altrettanto chiaro, alla decuprazione delle ceneri di pirite, in
tale campione l’arsenico essendo presente in concentrazioni di tre ordini di
grandezza superiori a quello contenuto negli altri campioni” (Sentenza
pag.662).
A queste osservazioni
del Tribunale il P.M. replica nei motivi d’appello rilevando che i valori di
alluminio trovati nei campioni esaminati sono uguali o inferiori ai valori di
alluminio di sedimenti non inquinati dell’Adriatico e non possono ritenersi
indicativi di presenza di bauxite.
Tale rilievo non appare
determinante in quanto risulta scientificamente erroneo paragonare le concentrazioni
di alluminio presenti in sedimenti naturali, come le rocce disciolte nei
fondali dell’Adriatico, con quelle rilevate in rifiuti industriali quali sono i
fanghi rossi.
Si deve inoltre
ricordare che la provenienza dei fanghi rossi dalle industrie della prima zona
industriale risulta confermata dal dott. Ferrari, consulente del P.M., che
nella relazione del 10\4\2001, riportando i dati dell’ufficio Escavazione
Porti, riferisce: “L’ufficio Escavazione Porti ha potuto constatare, durante
gli scavi eseguiti dai propri mezzi effossori, la presenza di fanghi rossi non
solo sul fondo del passo navigabile del canale-porto di Lido, ma anche di altri
canali lagunari. I rapporti percentuali di fanghi rispetto al quantitativo
totale del materiale di escavo presentavano i massimi valori nel canale Nord di
Marghera (13,3% nel 1947) e di S. Giuliano (14,0% nel 1951). Tali forti
quantità osservate sono da attribuirsi principalmente ai notevoli scarichi di
materiale in detti canali durante il periodo bellico in seguito alle difficoltà
di poter eseguire lo scarico stesso in mare”.
Ciò conferma che la
maggiore quantità di fanghi rossi era presente proprio nei canali della prima
zona industriale quando ancora il Petrolchimico non era stato costruito.
Infine il P.M. ed il
P.G. rilevano che la tipologia produttiva che utilizzava la bauxite per
ottenere l’alluminio attraverso il processo Haglund non poteva produrre
diossine perché in tale processo manca il cloro.
In realtà, secondo i più
accreditati studi in materia, anche una minima presenza di cloro, quale
impurità presente nei reagenti del processo Haglund, è sufficiente per la
formazione di diossina. E’ pacifico che a Porto Marghera l’industria
dell’alluminio ha utilizzato composti clorurati fino agli anni ’70 (in particolare
esacloroetano) nel processo di raffinazione, composti che determinano la
formazione di elevate quantità di diossine (Cfr. Weber e Hagenmaier, 1997,
pag.21).
Solo in epoca successiva
agli anni ’70 le industrie dell’alluminio hanno adottato al posto del processo
Haglund il processo Bayer dal quale non ci si attende la formazione di
diossina.
3.8.3 Superamento
dei livelli C e compromissione ambientale della laguna prospiciente Porto
Marghera.
Prima
di affrontare la questione posta dal P.M. in questo paragrafo dei motivi
d’appello bisogna ricordare che in sede di indagini, per valutare lo stato di
inquinamento dei canali e degli specchi lagunari, i consulenti dell’accusa
(Sesana, Micheletti, Muller e Ferrari) avevano prelevato ed analizzato 10
campioni di sedimento in vari punti circostanti il Petrolchimico.
In
mancanza di qualsiasi normativa italiana di riferimento per i sedimenti marini,
i consulenti avevano fatto riferimento ad una classificazione prevista da una
legge Olandese del 1993.
Sulla
base di tali criteri 8 campioni su 10 erano risultati non contaminati, 1 aveva
dato risultati incerti che avrebbero richiesto altre indagini e solo uno era
risultato contaminato, ma si trattava del campione prelevato da un sedimento
profondo del Canale Lusore-Brentelle dove il Petrolchimico non scaricava più da
oltre venti anni.
In
dibattimento, invece, i valori riscontrati nei campioni erano stati confrontati
con i parametri previsti nelle Tabelle allegate al “Protocollo di Intesa per la
Laguna di Venezia” del 1993; in base a tale Protocollo i sedimenti appartenenti
alla tabella A potevano essere utilizzati direttamente in laguna senza alcuna
precauzione, mentre per quelli appartenenti alle tabelle B e C era prescritto
il loro completo e permanente confinamento per evitare il contatto con le acque
lagunari.
I
campioni esaminati dai consulenti erano risultati tutti rientranti nelle
tabelle B e C.
Il
Tribunale aveva ritenuto che le tabelle sopra indicate non potevano fornire un
parametro di qualità valido per valutare se vi era stata o meno rottura delle
condizioni di sicurezza per la pubblica incolumità: “…le tabelle B) e C) non
significano pericolo reale. Ed ecco perché, a maggior ragione non esprimono
condizioni di rottura di sicurezza per l’ecosistema. E’ di tutta evidenza che
la scelta di un parametro di valutazione non può essere arbitraria. I limiti
del Protocollo d’Intesa sono stati fissati per la definizione delle
caratteristiche del materiale da utilizzare per interventi in laguna e non per
definire lo stato di salute del sedimento. L’uso del Protocollo di Intesa 1993,
osserva il Collegio, può quindi essere utilizzato al più per esprimere
comparazioni tra lo stato del sedimento di una zona rispetto all’altra. Ed in
questo senso lo si apprezza. Ma non può essere utilizzato come parametro”
(sentenza pag.679).
In
sede di motivi d’appello il P.M. ripropone il “livello C” come parametro di
qualità dei sedimenti senza però indicare particolari argomentazioni a sostegno
della sua tesi e a confutazione della motivazione del Tribunale.
Questo
Collegio ritiene pienamente condivisibili le argomentazioni sul punto del primo
giudice.
Il
Protocollo di Intesa era stato stilato per disciplinare l’escavo dei canali e
dei rii del centro storico di Venezia, la caratterizzazione e l’analisi
chimico-fisica dei fanghi di risulta e le condizioni e le modalità del loro
reimpiego in quelle zone della laguna colpite dal fenomeno dell’erosione.
La
divisione dei sedimenti nelle classi A, B e C era funzionale alla
determinazione dei diversi modi di reimpiego degli stessi all’interno della
laguna ed anche i fanghi che eccedano la classe C potevano essere reimpiegati
per il ripristino altimetrico di aree depresse al di fuori della laguna.
Da ciò è facile dedurre che le tabelle in esame non hanno e non possono
avere la funzione di determinare il livello di soglia di un pericolo reale
perché, se così fosse, si sarebbe prevista l’eliminazione dei fanghi
contaminati in modo pericoloso e non già la riutilizzazione come materiale da
imbonimento.
3.8.4 Dati forniti dal dott. Vighi, C.T. di Enichem,
ritenuti fondamentali dal Tribunale.
In questo paragrafo il P.M. rivolge alcune critiche metodologiche
rispetto alla deposizione e alla relazione del prof. Vighi che conterrebbero
“della carenze rilevantissime che da un punto di vista scientifico, fanno venir
meno ogni valenza della sua tesi assolutoria” (motivi pag.1292).
Come si è già detto il prof. Vighi ha effettuato il confronto tra le
impronte di diossine e furani (PCDD\F) relative a campioni di sedimento
prelevati dai canali delle due zone industriali. Questo confronto è stato
realizzato mediante l’analisi delle componenti principali (PCA) e cioè un
metodo statistico che consente di mettere in evidenza analogie e differenze tra
oggetti (nel nostro caso campioni di sedimento) caratterizzati da una serie di
valori numerici relativi a diversi parametri (nel nostro caso le concentrazioni
di congeneri di PCDD\F).
Il P.M. si lamenta del fatto che il prof. Vighi non ha spiegato come ha
fatto l’Analisi dei Componenti Principali (PCA) avendo selezionato ed eliminato
dei dati senza indicare quali e con quali criteri tanto che si era passati da
centinaia di campioni (232+216) a pochi campioni nei canali industriali.
La doglianza dell’appellante non appare fondata.
In primo luogo bisogna ricordare che solo 216 campioni erano relativi ai
canali industriali, mentre gli altri 232 riguardavano altre zone della laguna
per cui, date le specifiche finalità dell’analisi eseguita dal consulente, lo
studio si è concentrato sui campioni dei canali industriali.
Dalla relazione del prof. Vighi depositata il 5\4\2001 risulta che ogni
campione è stato analizzato per misurare la concentrazione di 17 diversi
congeneri, però non tutti i campioni prelevati permettevano di misurare tutti i
congeneri alcuni dei quali presentavano valori inferiori al limite di
rilevabilità analitica. Se in qualche campione non era stato possibile misurare
un numero significativo di congeneri (6), il campione stesso doveva ritenersi
non significativo.
In buona sostanza è possibile classificare una serie di oggetti (campioni
di sedimento) sulla base di 17 caratteristiche prestabilite (congeneri), ma se
in alcuni oggetti non sono rilevabili oltre un terzo delle caratteristiche è
meglio escluderli dalla base di calcolo perché la possibilità di confusione è
così elevata che il risultato complessivo della classificazione rischia di
essere invalidato.
Per questo motivo il consulente ha eliminato dalla sua analisi quei campioni
nei quali almeno 6 congeneri su 17 presentavano valori non misurabili seguendo
un metodo scientificamente corretto.
Il P.M. contesta però la scelta fatta dal prof. Vighi di escludere tutti i
campioni caratterizzati da valori inferiori al limite di rilevabilità analitica
definendola “del tutto discutibile, dato che esistono metodi che permettono di
inserire anche tali tipi di campioni” (motivi pag.1309).
La critica dell’appellante può risultare fondata da un punto di vista
teorico in quanto nella scienza statistica esistono metodi che consentono l’uso
di tali dati ignoti ai quali viene attribuito un valore ipotetico. Infatti si
può attribuire ai dati non quantificabili un valore pari al limite di
rilevabilità, oppure un valore pari a zero o ancora un valore pari alla metà
del limite di rilevabilità.
Si tratta però, come appare evidente, di attribuzioni di valori arbitrari
(ovviamente uguali fra loro) ai campioni esaminati e non aggiungerà alcun
contenuto informativo ai campioni in esame.
Resta quindi condivisibile la scelta fatta dal consulente Vighi.
L’appellante elenca anche una serie di rilievi di carattere tecnico al
procedimento usato dal consulente della difesa per l’interpretazione della PCA
sulle concentrazioni di PCDD\F nei sedimenti dei canali industriali.
In particolare dice il P.M. “non si spiega quali sono i congeneri, tra i
17 utilizzati nell’elaborazione, che formano i due assi (fattori) della PCA, né
i loro pesi relativi e quindi è impossibile verificare la composizione dei
fattori. Questo fatto rende impossibile il controllo della elaborazione fatta
dal prof. Vighi, inficiandone il significato” (motivi pag.1308).
Si è già detto che la PCA è un metodo statistico che permette di evidenziare
analogie e differenze tra oggetti le cui caratteristiche sono determinate da un
certo numero di variabili. Ovviamente più le variabili sono numerose, più
diventa difficile determinare analogie e differenze, ma con la PCA il problema
viene risolto raggruppando l’informazione contenuta nelle diverse variabili in
un numero ridotto di “componenti”; di norma sono sufficienti due o tre
componenti per descrivere una percentuale sufficientemente alta della totale
variabilità degli oggetti.
Le “componenti” che rappresentano il contenuto informativo racchiuso in
ciascuno degli assi non possono quindi essere identificate con l’uno o con
l’altro dei parametri. Lungo ciascun asse è spiegato parte del contenuto
informativo racchiuso nel complesso dei campioni e non è possibile individuare
esattamente quali variabili formino i due assi secondo i quali si distribuisce
la maggior parte della variabilità dei dati. Sono la distribuzione sul piano e
la distanza tra i campioni che permettono di spiegare analogie e differenze tra
di essi.
Il P.M. lamenta anche il fatto che il consulente non avrebbe evidenziato
alcune figure contenute nella sua relazione o che non avrebbe spiegato il
passaggio da una figura ad un’altra, ma si tratta di questioni meramente
formali che avrebbero dovuto e potuto essere rilevate durante il giudizio di
primo grado e che, comunque, non inficiano le conclusioni tratte dal consulente
sulla base dei suoi studi.
L’accertamento del laboratorio M.P.U. di Berlino.
Il P.M., continuando l’opera di critica alla selezione dei dati di fatto
attuata dal Tribunale, passa ad esaminare le questioni concernenti
l’accertamento tecnico effettuato presso il laboratorio MPU di Berlino.
Si deve preliminarmente ricordare che nel corso dell’istruttoria
dibattimentale erano emersi notevoli contrasti sull’esito delle analisi fatte
dai consulenti del P.M. sulla entità delle sostanze inquinanti presenti su
alcuni campioni di biota prelevati in laguna; in particolare i risultati
riportati nella relazione dei consulenti Sesana, Michieletti e Muller e nella
perizia Bonamin risultavano notevolmente inferiori ai risultati delle analisi
effettuate dal consulente Raccanelli. Il Tribunale aveva allora sollecitato le
parti ad effettuare un nuovo campionamento su biota prelevato negli stessi
punti nei quali aveva effettuato i suoi campionamenti il consulente Raccanelli
e tali campioni erano poi stati analizzati nel contraddittorio delle parti
presso il laboratorio MPU di Berlino.
In conclusione per tutti gli inquinanti di interesse processuale i dati
di Berlino erano risultati notevolmente inferiori a quelli presentati da
Raccanelli.
In questa parte dei motivi d’appello il P.M. contesta la sentenza di
primo grado nel punto in cui mette a confronto i risultati del laboratorio di
Berlino con quelli esposti da Raccanelli valutando questi ultimi meno
attendibili.
Secondo l’appellante il Tribunale non ha tenuto conto di alcuni elementi
di fatto che applicati ai dati da confrontare avrebbero giustificato le
differenze tra le concentrazioni di contaminanti rilevate da Raccanelli e
quelle rilevate a Berlino.
In primo luogo bisogna tener conto della “stagionalità”; le vongole
analizzate da Raccanelli erano state raccolte ad ottobre ed avevano raggiunto
la fase di massimo accumulo annuale, mentre le vongole analizzate a Berlino
erano state raccolte a febbraio ed erano meno grasse perché avevano esaurito le
scorte energetiche durante l’inverno e presentavano quindi un carico di
contaminanti inferiore del 50%. Però il calcolo di un così netto calo di peso
per le vongole si basa (per quanto riferito dallo stesso Raccanelli
nell’udienza dell’8\5\2001) su uno studio condotto su vongole dell’Atlantico
settentrionale dove in inverno la temperatura dell’acqua è molto più bassa di
quella che si può riscontrare nei canali industriali di Porto Marghera. Uno
studio specifico sulle vongole della laguna non è mai stato fatto e quindi
quella di Raccanelli resta una semplice ipotesi non confermata.
Comunque, anche se si volesse accettare in via ipotetica la tesi
sostenuta da Raccanelli, una diminuzione del grasso delle vongole del 50%
avrebbe comportato al massimo una diminuzione del carico inquinante di pari
entità con un dimezzamento dei valori, ma non potrebbe mai giustificare
differenze dell’ordine di quelle rilevate a Berlino ( 28 volte in meno per
l’esaclorobenzene, 37 volte in meno per gli IPA, 40 volte in meno per il
piombo).
A questo punto il P.M. aggiunge un’altra doglianza e cioè che prima di
confrontare i dati delle due analisi occorre “normalizzarli”.
Infatti secondo l’appellante il Tribunale non avrebbe preso in
considerazione quanto esposto dal dott. Raccanelli nell’udienza dell’8\5\2001
su come debba essere “condotto il confronto dei dati, e cioè normalizzandoli
rispetto al contenuto di lipidi per gli organici e al contenuto di sostanza
secca per i metalli, così come suggerito dagli studi e dalle procedure EPA”
(motivi pag.1327); grazie a tale normalizzazione le differenze fra i risultati
di Berlino e quelli di Raccanelli spariscono ed in alcuni casi i risultati di
Berlino risultano superiori.
Appare strano che il consulente Raccanelli proponga la problematica della
“normalizzazione” dei dati solo dopo essere venuto a conoscenza dei risultati
di Berlino; lo stesso consulente nella sua “Relazione di perizia tecnica” aveva
calcolato tutti i valori di concentrazione riscontrati nell’ittiofauna sempre
sulla parte edibile senza effettuare alcuna “normalizzazione” dei dati e lo
stesso metodo aveva seguito nell’effettuare i confronti tra i valori riscontrati
nelle vongole raccolte nei canali industriali e quelli delle vongole di
S.Erasmo. Nell’allegato 1 della sua Relazione il dott. Raccanelli commenta le
notevoli differenze tra le concentrazioni da lui rilevate nelle vongole e
quelle riportate in altre relazioni degli altri consulenti del P.M. (Turrio
Baldassarri, Di Domenico, Bonamin, Sesana e Muller) ed esegue tutti i confronti
tra concentrazioni espresse sulla parte edibile dei molluschi senza effettuare
alcuna “normalizzazione” relativamente alla parte grassa.
Inoltre è da rilevare che tutti i consulenti delle parti hanno sempre
espresso la concentrazione dei contaminanti facendo riferimento alla parte
edibile senza alcuna “normalizzazione”.
Resta comunque un dato di fatto incontestabile che la quantità di
contaminanti contenuta in 1 grammo di vongole resta sempre la stessa, qualunque
sia il metodo utilizzato per esprimere i valori di concentrazione.
In realtà ciò che interessa ai fini processuali è accertare la quantità
di contaminante assunta da un eventuale consumatore di vongole; quindi quando
si deve calcolare la esposizione dell’uomo a contaminanti contenuti negli
alimenti è corretto utilizzare le concentrazioni espresse sul peso fresco della
parte edibile dei prodotti ittici.
L’appellante osserva poi che anche prendendo in considerazione i valori
delle concentrazioni risultanti dai dati di Berlino e confrontandoli con le
concentrazioni dei bivalvi cresciuti nel sedimento superficiale di S.Erasmo
(zona antropizzata ma non direttamente influenzata dal Petrolchimico) emerge in
modo chiaro la contaminazione dei molluschi che crescono nei canali della zona
industriale. Infatti la tossicità dovuta a PCDD\F e a PCB è 13 volte superiore
nelle vongole dei canali industriali, la tossicità dovuta a HCB è 38 volte
superiore; per i metalli la contaminazione dei molluschi che crescono nei
canali industriali è 7,8 volte superiore per il piombo, è 4,4 volte superiore
per il cadmio.
Ad avviso di questo Collegio il confronto fatto dal P.M. fra le vongole
che crescono a S.Erasmo e quelle che crescono nei canali industriali può
fornire indicazioni su una migliore qualità del prodotto ittico in base al
luogo in cui viene pescato, ma non è rilevante ai fini della decisione. Una
volta stabilite le concentrazioni di contaminanti rilevate nei molluschi dei
canali industriali si deve accertare se tali concentrazioni siano o meno
anomale; i dati di riferimento sono costituiti esclusivamente dalla
concentrazione massima ammissibile (CL) stabilita dal legislatore e, in
mancanza di Concentrazione Limite, dal giudizio di “normalità” risultante dalla
comparazione tra le concentrazioni rilevate nei bivalvi dei canali industriali
e le concentrazioni rilevate nei diversi mari il cui pescato è ritenuto edibile
e liberamente commerciabile in tutto il mondo.
Prosegue poi il P.M. prendendo in
esame il seguente passo della sentenza: “…gli esperti delle difese hanno confrontato
per tutti gli inquinanti di interesse processuale…..i valori mediani di
concentrazione ottenuti all’esito di tale controllo con i valori mediani
di concentrazione evinti prima di tale sopravvenienza, dalle relazioni degli
esperti dell’accusa, Raccanelli compreso” (Sentenza,pag.804).
Secondo il P.M. il valore “mediano” non dovrebbe mai essere utilizzato:
con esso infatti si eliminerebbe non solo il minimo, ma anche il massimo,
ignorando i soggetti che mangeranno le vongole a concentrazione più elevata;
usare il valore “mediano” vorrebbe dire, nel caso dei dati di Berlino,
eliminare il campione più inquinato pescato nel canale industriale Sud dove si
svolge la maggiore attività di pesca abusiva.
Per spiegare la sua obiezione l’appellante fa l’esempio di Bhopal: non si
può sostenere che a Bhopal nessuno correva pericolo perché in media in India la
popolazione non era esposta a nube tossica, “se a Bhopal avessero considerato
la mediana, non sarebbe di fatto esistita la nube tossica, essendo la nube solo
il valore tossico in un punto dell’India, e pertanto da eliminare” (Motivi
pag.1330-31).
L’obiezione non appare fondata. Il calcolo di valori rappresentativi di
una serie di dati di misura (media aritmetica, media geometrica, mediana) non
elimina i valori estremi, ma si basa sull’intera serie dei dati per il calcolo.
La media aritmetica si calcola dalla somma di tutti i valori diviso il loro
numero, la media geometrica rappresenta la media di tutti i valori su base
logaritmica, la mediana è il valore intermedio della distribuzione dei singoli
valori.
La media geometrica e la mediana sono parametri sufficientemente solidi
da non essere alterati troppo da valori non rappresentativi della serie di dati
considerata.
La mediana è considerata in statistica particolarmente adatta in quei
casi in cui la serie dei valori non segue una distribuzione normale, ma è
caratterizzata da variabilità molto ampia
o presenta valori estremi che si discostano molto dalla maggioranza degli
altri valori.
E’ evidente che un unico valore anormale non può essere considerato
rappresentativo della distribuzione; la mediana non esclude questo valore
dall’analisi, ma gli attribuisce un peso adeguato alla sua rappresentatività
nell’ambito della serie di dati in esame.
In realtà qualunque valutazione di esposizione deve essere effettuata sui
valori medi dei potenziali contaminanti, non sui valori massimi che non sono
certo rappresentativi della reale situazione, ma soltanto di una situazione
estrema.
Risulta quindi corretto il ricorso ai valori mediani per il confronto
delle concentrazioni degli inquinanti.
Appare fuori luogo il richiamo fatto dal P.M. al caso di Bhopal per
sostenere che il valore “mediano” non dovrebbe mai essere utilizzato. Nel
nostro caso quando si parla di mediana ci si riferisce alla media delle
concentrazioni nei canali industriali di Marghera, non a quella del mar
Mediterraneo o dell’Italia in generale. Le medie, quando vengono utilizzate si
riferiscono ad un sistema ben circoscritto all’interno del quale l’esposizione
a sostanze potenzialmente pericolose è soggetta ad una certa variabilità.
L’appellante afferma poi che: “…anche con i campioni di Berlino
(prelevati alla fine della stagione invernale durante la quale i bivalvi
avevano consumato grassi ed espulso gli inquinanti) ad un giovane di 40 Kg:
bastano 24 grammi edibili per superare la DGA prevista dal WHO a causa della
concentrazione di PCDD\F e PCB.” (motivi pag.1331).
Tale affermazione non è però confermata dai dati processuali; infatti nei
campioni di vongole esaminati presso il laboratorio di Berlino la
concentrazione media di diossine è risultata pari a 0,48 pg\g, mentre quella
dei PCB a 0,42 pg WHO-TEQ\g. La somma dei due valori porta ad una
concentrazione di 0,9 pg WHO-TEQ\g. La Dose Giornaliera Accettabile (DGA)
indicata dal WHO è di 1 –4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die. Ciò significa che
per un ragazzo di 40 Kg di peso la DGA è di 40 –160 pg WHO-TEQ giorno e per
raggiungere tale valore lo stesso ragazzo preso in esame dal P.M. dovrebbe
assumere giornalmente per lunghi periodi
44,5 –180 grammi di vongole (parte edibile).
In fine il P.M. sostiene che le medie statistiche non servirebbero a
nulla quando si tratta di individuare il “forte consumatore”: con esse infatti
sarebbero trascurati i soggetti che consumano il pescato abusivo dei canali
industriali e che non rientrano nelle statistiche.
In vero il concetto di “forte consumatore” utilizzato dai consulenti
della difesa e accolto dal Tribunale è quello emerso da un’indagine (COSES)
che, come si vedrà in seguito, ha rilevato direttamente i consumi di prodotti
ittici, interpellando un campione significativo della popolazione di Venezia ed
elaborando i dati ottenuti per individuare il “consumatore medio” ed il “forte
consumatore”. Si tratta del metodo più attendibile per rilevare la fascia di
popolazione che ha un forte consumo di prodotti ittici e si tratta di un metodo
che, basandosi su dati rilevati sulla popolazione oggetto di studio, presenta
anche il pregio di non trascurare nessuna tipologia di consumatori. Inoltre
bisogna tener presente che nella stima dell’assunzione di contaminanti da parte
dell’uomo, gli esperti della difesa hanno sempre ipotizzato (in via
cautelativa) una situazione in cui ai “forti consumatori” di Venezia si
attribuiva un consumo costante per tutta la vita di vongole provenienti
esclusivamente dai canali industriali di Porto Marghera (v. relazioni dott.
Pompa del 18\4\2001 e dell’8\5\2001).
Non si può quindi fondatamente sostenere che nel presente procedimento
non si sia tenuto conto dei “forti
consumatori” del pescato abusivo dei canali industriali.
CAPITOLO
3.9 APPELLO P.M.
3.9.1 TRASFERIMENTO
ORIZZONTALE DI INQUINAMENTO VERSO LA LAGUNA E CONTAMINAZIONE DELLA ( e DALLA)
FALDA SOTTOSTANTE IL PETROLCHIMICO E DEI SUOLI.
In questo paragrafo il P.M. cerca di dimostrare l’infondatezza
dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata per cui il trasferimento
di acque dal sottosuolo del Petrolchimico ai canali della laguna sarebbe
irrilevante ai fini dell’inquinamento delle acque degli stessi canali.
L’appellante parte dalla constatazione fatta dal Tribunale per cui “da
tutta l’area del Petrolchimico deriva un apporto per moto di trasferimento
orizzontale dalla prima falda di quattro litri al secondo”.(Sent.pag.533).
Premesso che il dato sopra indicato di 4 litri al secondo, espresso in
tale unità temporale, tende ad essere percepito come molto piccolo, ma che in
realtà equivale e 345.600 litri\giorno e a più di 126 milioni di litri\anno,
l’appellante passa ad esaminare le misure della concentrazione di diossine nelle
acque sottostanti il Petrolchimico, effettuate a cura dell’ENICHEM in relazione
al disposto del DM 471\99 sulle bonifiche.
Il P.M. ricorda che nell’ambito degli accertamenti fatti dall’ENICHEM
entro l’anno 2000 sulle acque sottostanti il Petrolchimico in ottemperanza a
quanto disposto dal DM 471\99 erano stati raccolti 55 campioni. Rispetto al
totale dei campioni solo per 6 era stata effettuata anche l’analisi delle
diossine. In tutti questi 6 campioni diossine e composti simili erano stati
rilevati in valori misurabili; in particolare tre campioni avevano presentato
valori superiori al limite fissato dal DM 471\99 in 4 pg\l (campione 001700,
634 pg\l- TE\I; campione 001638, 26,2 pg\l – TE\I; campione 00126, 4,60 pg\l –
TE\I).
Il primo di tali campioni presentava quindi un livello estremamente
elevato di diossine ed inoltre aveva evidenziato anche la presenza di diossina
2,3,7,8 – TCDD a livello elevato (10,6 pg 2,3,7,8 – TCDD\I).
Considerato che con un campionamento numericamente molto limitato (6 campioni)
erano stati rinvenuti due casi di contaminazione particolarmente alta si doveva
dedurre che livelli simili non potessero essere considerati un evento sporadico
e raro.
Fra tutti i 6 campioni in questione l’intervallo dei valori misurati è
compreso fra un minimo di 2.31 pg\l (I-TE) e un massimo di 634 pg\l (I-TE) e,
conseguentemente, la media è di circa 112 pg\l (I-TE).
Quindi partendo dall’ipotesi di una contaminazione media dell’acqua di
falda di circa 112 pg\l (I-TE) e di un rilascio di 4 litri\secondo di questa
acqua verso i canali, ovvero di 126 milioni di litri\anno, il quantitativo di
diossine (I-TE) potenzialmente trasportate annualmente verso i canali risulta
dell’ordine di circa 14 miliardi di pg (I-TE)\anno (circa 14 mg (I-TE)\anno).
Si osserva che “un solo milligrammo I-TE può contaminare ogni anno ad un
livello pari a 10 volte quello di fondo un quantitativo di sedimento pari a 100
tonnellate, certamente non trascurabile. Date le caratteristiche di
elevatissima persistenza ambientale delle sostanze in esame, l’impatto di più
anni successivi si somma portando ad un progressivo aumento delle
concentrazioni nei sedimenti. Vale la pena di sottolineare che 1 mg I-TE di
diossine corrisponde ad un valore 14 volte inferiore rispetto a quello che sarebbe
immesso in laguna nell’arco di un anno con un trasporto di 4 litri\secondo di
acque contaminate al valore medio di quelli misurati a cura dell’ENICHEM.”
(motivi pag.1346).
In conclusione il trasferimento orizzontale di inquinamento dalla falda
sottostante il Petrolchimico alla laguna non può essere considerato
trascurabile (come ha fatto il primo giudice), ma considerevole e prevedibile.
Indubbiamente le considerazioni fatte dal P.M. possono apparire
convincenti e fondate, ma risultano basate su dati di fatto non corretti.
Esaminando la tabella allegata al database informatico EniChem S.p.a. –
Stabilimento di Porto Marghera – Banca dati idrogeologica e qualitativa,
realizzato da Aquater S.p.a. il 31\5\2000, si rileva che i due campioni citati
dal P.M. con i valori di diossine più alti (campione 001700, 634 pg\l e
campione 001638, 26,2 pg\l) corrispondono rispettivamente al piezometro N4387
ed N3671 che sono piezometri superficiali e pescano nell’acqua del terreno di
riporto.
Come si è già detto in precedenza, l’acqua del terreno di riporto non
costituisce una falda dotata di moto proprio, ma è acqua stagnante di
impregnazione. Di conseguenza non può apportare alcunché in laguna e pertanto
la presenza si diossine in quest’acqua (ampiamente prevedibile trattandosi di
liquido che impregna una massa di rifiuti) non rappresenta in nessun modo un
rischio diretto nei confronti della laguna.
Poiché le acque di impregnazione non hanno la possibilità di muoversi in
senso orizzontale verso la laguna essendo acque stagnati, bisogna chiedersi se
per le stesse sia possibile un trasferimento verticale verso le acque della
falda sottostante che invece sversa in laguna 4 litri al secondo.
Una risposta a questa domanda ci viene fornita dalla stessa tabella sopra
citata.
I piezometri N4458 e N4387 sono situati praticamente nello stesso punto
dello stabilimento, ma N4387 pesca nelle acque di riporto, mentre N4458 pesca
in quelle di prima falda; il primo ha la concentrazione più elevata indicata
dal P.M. (634 pg\l), mentre il secondo ha una concentrazione pari a 3,6 pg\l
addirittura più bassa del limite di 4 pg\l stabilito dal DM 471\99.
Si può quindi affermare che il trasferimento verticale fra acque di
impregnazione e acque di prima falda è limitatissimo.
Detto questo e preso atto che solo le acque di prima falda possono
apportare sostanze alla laguna si deve passare ad esaminare i risultati dei
piezometri che effettivamente pescano in prima falda.
Tre di tali piezometri presentano valori inferiori al limite di 4 pg\l
(N2834: 2,31 pg\l; N3460: 2,89 pg\l; N4458: 3,68 pg\l), il quarto invece (N2894
situato a oltre 200 metri dalla Darsena della Rana) presenta un valore di 4,6
pg\l di poco superiore al limite.
In base ai valori effettivi riscontrati nelle acque della prima falda si
deve concludere che il valore medio non è di 112 pg\l come calcolato dal P.M.,
ma di 3,37 pg\l che è ovviamente inferiore al limite di 4 pg\l fissato dal DM
471\99.
Quindi con una contaminazione media dell’acqua di falda di circa 3,37
pg\l ed un rilascio di 4 litri\secondo di questa acqua verso i canali, il
quantitativo di diossine potenzialmente trasportato nel corso di un anno verso
i canali risulterebbe dell’ordine di circa 0,42 mg\l per anno e non già di 14
mg\l per anno come calcolato dal P.M.
Ma in realtà neanche il dato di 0,42 mg\l per anno può ritenersi corretto
in quanto non tiene conto del noto fenomeno del “ritardo” in base al quale la
diossina si muove più lentamente rispetto alla velocità della falda (già di per
sé molto bassa).
Il fenomeno del “ritardo” è dovuto al fatto che le diossine hanno una
scarsissima idrosolubilità ed una affinità molto elevata per il carbonio
organico contenuto nel suolo. Quindi quando l’acqua di falda contaminata dalla
diossina avanza verso la laguna ed incontra porzioni di terreno senza diossina
o con concentrazioni molto più basse, la diossina presente nella falda tende ad
aderire al terreno.
Quindi, tenuto conto dei modesti valori di diossina riscontrati nelle
acque della falda, dei bassi valori di velocità e portata delle falde (già
valutati ed accertati in precedenza) e dei diversi processi di assorbimento e
dispersione a cui la diossina è soggetta nel percorso tra falda e laguna, si
deve convenire con il Tribunale che l’apporto di contaminanti in laguna da parte
della falda sottostante il Petrolchimico è veramente insignificante e comunque
non rilevante al fine di provare la sussistenza dei reati di disastro,
avvelenamento e adulterazione oggetto del presente procedimento.
3.9.2 I parametri
di rischio disponibili per le diossine e composti simili (PCDD, PCDF e PCB
“dioxin – like”).
In questo paragrafo il P.M. prende in esame la questione dei “limiti
soglia” cioè di quei limiti fissati dalle organizzazioni internazionali, con
criteri precauzionali, per definire i valori di dose giornaliera tollerabili di
presenza di diossine e composti simili nelle sostanze alimentari.
L’appellante lamenta il fatto che la sentenza, adeguandosi alle
argomentazioni dei consulenti delle difese, avrebbe fatto costante riferimento
ai valori indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) trascurando
invece il contenuto del documento del Comitato Scientifico della Commissione
Europea per la protezione degli alimenti (SCF).
Occorre ricordare che l’ OMS aveva fissato un valore di dose giornaliera
tollerabile per le diossine e composti simili (TDI) presenti negli alimenti
pari a 1 – 4 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die.
Invece l’SCF aveva indicato nel 2000 un TDI inferiore pari a 1 pg
WHO-TEQ\Kg peso corporeo\die, parametro in vigore per tutto il dibattimento di
primo grado.
In fatto la doglianza del P.M. non risulta fondata. Nel corso
dell’istruttoria dibattimentale tutti i consulenti (tanto della difesa che
della Pubblica Accusa) e, di conseguenza, il Tribunale nella sentenza, hanno
sempre fatto riferimento al valore più basso fra quelli indicati dall’OMS e
cioè 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno corrispondente esattamente a quello
indicato dall’SCF.
A riprova di ciò basterà esaminare le tabelle contenute nelle pagine 879
e 946 della sentenza ove vengono presi in considerazione sia l’estremo
inferiore che quello superiore dell’intervallo 1-4 pg\g indicato dall’OMS ed il
margine di sicurezza viene calcolato rispetto al dato minimo di TDI.
Il P.M. rileva poi che dopo la chiusura del dibattimento, e precisamente
nel 2001, l’SCF aveva aumentato il TDI a 2 pg WHO-TEQ\kg peso corporeo\die
sottolineando che, considerate le assunzioni medie di diossine e PCB
dioxin-like attraverso la dieta, nei paesi europei di 1,2 – 3,0 pg WHO-TEQ\Kg
p.c.\die, una percentuale considerevole della popolazione europea dovrebbe
superare il TDI indicato dal Comitato.
Quindi, secondo l’appellante, i valori di riferimento del Comitato
sarebbero già superati per l’inquinamento di fondo per una parte di rilievo
della popolazione con la conseguenza che ogni esposizione che vada ad
aggiungersi a quella di fondo deve essere considerata alla luce
dell’affermazione che quest’ultima è già critica. In altre parole sarebbe
sufficiente una minima esposizione aggiuntiva per superare il valore di TDI
stabilito da SCF.
A questa obiezione si può replicare facendo presente che nel caso in
esame manca qualsiasi termine di raffronto e cioè l’indicazione dell’esposizione
di fondo dei consumatori veneziani. Per valutare il rapporto tra esposizione di
fondo ed esposizioni aggiuntive il dato essenziale di partenza è costituito
dalla stima di carico totale di diossine e di composti diossino-simili negli
abitanti della laguna. Non esistono studi che riportino tali stime e non vi
sono elementi per ipotizzare che i veneziani abbiano un carico totale di
diossine più elevato di quello di persone residenti in altre aree.
Bisogna inoltre evidenziare che la componente alimentare ittica viene
assunta dall’appellante come aggiuntiva rispetto al carico totale derivante
dall’esposizione conseguente alla componente alimentare di fonte diversa. In
realtà se la dieta alimentare degli abitanti della laguna fosse costituita esclusivamente
dai pesci e dai molluschi contaminati, dovremmo togliere dal carico totale di
diossine quello relativo ad alimenti di altra natura.
Il Tribunale ha tenuto conto di tutto ciò valutando l’assunzione
complessiva di diossine da tutti gli alimenti comprendendo un consumo medio di
prodotti ittici pari a 30 grammi\die ed il risultato è stato tranquillizzante
(Vedi tabella a pag.890 della sentenza).
Il P.M. sostiene poi che non è corretto parlare, come fa la sentenza a
pag. 799, di distanze di ordini di grandezza tra la dose di assunzione di
sostanze tossiche e la dose di assunzione che non ha provocato effetti tossici
in sede sperimentale sull’animale e, a maggior ragione, nell’uomo. Gli studi
effettuati dal Comitato Scientifico Europeo su animali sperimentali avevano
evidenziato che il TDI di 2 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die era inferiore da 10 a 25
volte rispetto a dosi per le quali era ritenuto possibile un effetto avverso
sull’uomo e inferiore di un fattore 5 rispetto alla dose stimata priva di
effetti.In realtà gli studi a cui fanno riferimento il Comitato Scientifico
Europeo ed il P.M. non riguardano l’uomo, ma il ratto (è lo stesso P.M. a
precisarlo a pag.1358 dei motivi), mentre gli studi eseguiti sull’uomo
confermano che le distanze che separano le classi di dosi che hanno provocato
effetti tossici nell’uomo e quelle alle quali sono esposti i residenti della
laguna sono distanti diversi ordini di grandezza (v. Greene, Hays, Paustenbach
(2003), Basis for a proposed reference dose (RfD) for dioxin of 1-10 pg\Kg-day:a
weight of evidence evaluation of the human and animal studies,in J. Toxicol. Environ. Health B. Crit. Rev., 6:115-59).
L’appellante, infine, critica il Tribunale che, pur avendo citato più
volte l’U.S. Environmental Protection Agency (US.EPA) come ente di grande
rilievo tra le agenzie di credito indiscusso, ha invece completamente ignorato
le stime di rischio dello stesso ente per le diossine e composti simili.
Ricorda il P.M. che l’US EPA in uno studio del
settembre 2000 (“Exposure and human health reassessment of 2,3,7,8 –
Tetrachlorodibenzo-p-dioxin and related compounds – Part. II, Preliminary Draft”)
stima un incremento di rischio cancerogeno dell’ordine di 1 su 1000 per
un’esposizione aggiuntiva di 1 pg WHO-TEQ\Kg peso corporeo\giorno )in termini
di PCDD, PCDF e PCB), ma queste valutazioni di rischio non sono mai state
riportate nella motivazione della sentenza.
Rileva questo Collegio che quelle dell’EPA sono semplici stime di rischio
basate su modelli matematici e non su effetti osservati ed è per questo motivo
che il Tribunale si è basato solo sugli effetti osservati (unico indice
possibile di pericolo reale) e sui valori di TDI fissati dalle Agenzie
nazionali e internazionali che disciplinano il rischio alimentare.
3.9.3 L’esposizione di fondo e il contributo
dei PCB “Diossina-simili” (Dioxin-like) alla tossicità equivalente.
Secondo gli appellanti la sentenza impugnata, al fine di giungere ad una
corretta stima del rischio derivante dal consumo dell’ittiofauna per cui è
processo, non avrebbe tenuto conto, in modo scientificamente appropriato, del
contributo in termini di tossicità equivalente dei PCB dioxin-like.
Il P.M. ricorda come l’OMS, il Comitato Scientifico dell’EU e anche l’EPA
abbiano più volte sottolineato la necessità di considerare congiuntamente
diossine (PCDD, PCDF) e PCB (simili alla diossina); infatti se non si
considerasse il contributo dei PCB dioxin-like si otterrebbe una grave
sottostima del rischio per l’esposizione umana.
Il Comitato Scientifico Europeo ha stimato i livelli medi di fondo per
l’esposizione degli adulti europei attraverso la dieta nella seguente misura:
per diossine PCDD e PCDF (quindi senza PCB) compresi tra 0,4 e 1,5 pg I-TE\Kg
p.c.\die; per i soli PCB compresi fra 0,8 e 1,5 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\die.
Sommando i due dati la stima dell’esposizione globale degli adulti
europei attraverso la dieta a PCDD, PCDF e PCB dioxin-like è, secondo lo stesso
Comitato Scientifico Europeo, pari a 1,2 – 3,0 pg WHO-TEQ\Kg p.c.\giorno.
La considerazione del contributo dei PCB dioxin-like in Europa
comporterebbe dunque un incremento delle concentrazioni tossicologicamente
equivalenti di un fattore tra 2 e 3 rispetto alla valutazione basata solo sulle
diossine.
Anche per l’EPA la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like
comporterebbe un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti
di un fattore sino a 2, rispetto alla valutazione basata solo su diossine (PCDD
e PCDF).
Vi è poi uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità per la Regione
Veneto (“Studio sulla detossificazione di microinquinanti persistenti” del
1999) per il quale la considerazione del contributo dei PCB dioxin-like
comporta un incremento delle concentrazioni tossicologicamente equivalenti nei
bivalvi della laguna di Venezia di un fattore di circa 1,6 rispetto alla
valutazione basata solo su PCDD e PCDF.
Secondo il P.M. si può quindi affermare che l’uso di un fattore
correttivo 1,6 da applicare ai dati di concentrazione di PCDD e PCDF può
ragionevolmente evitare una sottostima dell’esposizione complessiva e del
rischio correlato.
Fatte queste premesse, l’appellante ricorda che correttamente il suo
consulente dott. Zapponi, nella relazione dal titolo: “Valutazione del rischio
della 2,3,7,8-tetraclorodibenzodiossina e composti assimilabili in relazione ai
dati della laguna di Venezia”, aveva fatto uso di un fattore di correzione 1,5
da applicare ai dati di concentrazione relativi alle sole diossine per tener
conto del contributo dei PCB dioxin-like.
Sbaglia quindi il Tribunale quando a pag.906 della sentenza definisce
come errore esiziale dell’esperto dell’accusa Zapponi l’uso di un fattore di
correzione 1,5 per definire la stima della concentrazione equivalente
complessiva di PCDD, PCDF e PCB espressa in WHO-TEQ.
Rileva questo Collegio che l’errore evidenziato dal Tribunale non
riguarda il modo di determinare il fattore di correzione seguito dal consulente
Zapponi sull’esempio delle più accreditate agenzie nazionali ed internazionali,
ma il fatto che il consulente abbia preteso di calcolare i PCB mediante un
fattore di conversione generale applicabile a tutti i molluschi su campioni per
i quali non era stata effettuata alcuna indagine, trascurando al contempo i
dati reali raccolti su altri campioni nei quali erano stati ricercati anche i
PCB. Leggendo la sentenza impugnata risulta in modo certo che il Tribunale ha
sempre considerato l’apporto congiunto della contaminazione derivante dalle
diossine con quella dovuta ai PCB dioxin-like giungendo alla conclusione
dell’esistenza di un ampio margine di sicurezza per l’eventuale consumatore
delle vongole dei canali industriali.
Il Tribunale, per giungere alle conclusioni sopra indicate, non si è
basato sulle stime di rischio prospettate da Zapponi, ma su dati del modo reale
validamente acquisiti agli atti del processo.
Si tratta dei valori rilevati in 9 campioni di vongole prelevati nei
canali industriali di Marghera: di questi 9 campioni, 5 erano stati esaminati
dall’esperto dell’accusa Raccanelli e 4 dal laboratorio MPU di Berlino: Questi erano
gli unici dati disponibili in quanto le indagini di Raccanelli e del
laboratorio di Berlino erano le uniche che avevano ricercato i PCB nelle
vongole dei canali industriali.
Dall’esame dei valori riscontrati in questi campioni è emersa l’esistenza
di un margine di sicurezza, rispetto al TDI di 1-4 pg previsto dalla WHO, che
oscilla da un minimo di 3 volte, considerando i dati di Raccanelli e il consumo
di un forte consumatore, a un massimo di 215 volte, considerando i dati di
Berlino e i consumi di un medio consumatore.
In particolare la concentrazione di PCB osservata da Raccanelli è pari a
0,92 pg\g, mentre per la verifica effettuata a Berlino tale valore scende fino
a 0,42 pg\g.
Basta moltiplicare queste concentrazioni reali per i dati reali di consumo
riportati dalla relazione COSES per ottenere l’esposizione reale dei
consumatori veneziani: così partendo dai dati di Raccanelli, l’esposizione
totale a diossine + PCB è pari per il consumatore normale, a 0,04 pg\kg
p.c.\die (0,02 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,02 pg\kg p.c.\die di PCB), mentre
è di 0,33 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori (0,18 pg\kg p.c.\die di
diossine + 0,15 pg\kg p.c.\die di PCB).
I valori sono ancora più bassi prendendo in considerazione le
concentrazioni misurate a Berlino; infatti l’esposizione scende per i
consumatori normali a 0,018 pg\kg p.c.\die (0,010 pg\kg p.c.\die di diossine +
0,008 pg\kg p.c.\die di PCB) e a 0,143 pg\kg p.c.\die per i forti consumatori
(o,076 pg\kg p.c.\die di diossine + 0,067 pg\kg p.c.\die di PCB).
Indubbiamente vi è una differenza fra le stime effettuate dalle varie
agenzie (e anche dal consulente Zapponi) sul contributo dei PCB dioxin-like
alle concentrazioni tossicologicamente equivalenti e i dati reali risultati
dalle analisi di Raccanelli e del laboratorio di Berlino, ma tale differenza
risulta facilmente spiegabile.
Infatti è pacifico che le fonti di diossine e di PCB sono diverse,
pertanto i rapporti di concentrazione tra diossine e PCB sono diversi quando è
diverso l’ambiente analizzato; inoltre è dimostrato che ogni specie di animale
ha una specifica caratteristica metabolica nei confronti delle diossine e dei
PCB, per cui, a parità di assunzione, i rapporti tra diossine e PCB cambiano
nelle diverse specie.
Giustamente quindi il Tribunale si è attenuto esclusivamente ai rapporti
rilevati in modo reale nelle vongole dei canali industriali oggetto del
presente giudizio e non ha accolto le stime generali perché non
sufficientemente adeguate ad un accertamento tranquillizzante dei dati necessari
alla decisione.
3.9.4 Il consumo
di bivalvi, la “resa” ovvero la percentuale edibile rispetto al lordo e le
stime di esposizione.
3.9.4.1.1
Conseguenze che derivano
applicando ai dati dei consulenti della difesa i parametri di “resa” (rapporto
tra la parte edibile ed il lordo) dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli
Alimenti e la Nutrizione.
Sempre nel tentativo di
dimostrare la erroneità delle valutazioni fatte dal Tribunale circa i valori
delle dosi di sostanze contaminanti assunte dagli abitanti della laguna
mangiando mitili provenienti dai canali della zona industriale il P.M. prende
in esame uno dei dati fondamentali ai fini di tale calcolo e cioè la “resa”
(rapporto tra la parte edibile ed il lordo) dei bivalvi in questione.
A tal fine l’appellante si richiama ai
parametri di “resa” degli alimenti elaborati dall’Istituto Nazionale per gli
Alimenti e la Nutrizione (“Tabelle di Composizione degli Alimenti –
Aggiornamento 2000” a cura di E. Carnevale e L. Marletta, Roma 2000).
In particolare tali dati
indicano una parte edibile pari al 25% per le vongole e al 32% e per le cozze.
Applicando i parametri
sopra indicati ai dati statistici di consumo del COSES, ritenuti dalla sentenza
come una stima reale, si ottengono dei valori netti di consumo giornaliero pro
capite di vongole e cozze che risultano quasi 2 volte più elevati di quelli
indicati dal Tribunale a pag. 855 della sentenza sia per i consumatori medi che
per i forti consumatori.
Tali consumi,
moltiplicati per la concentrazione di diossine indicata nella perizia Bonamin
(1,85 pg\ I-TE\g) e sommati all’esposizione derivante dai PCB dioxin-like
(calcolata col fattore di correzione universale 1,5 proposto da Zapponi ed
esaminato nel paragrafo precedente) porterebbe al superamento del limite di 2
pg WHO-TEQ\kg p.c.\die, previsto dal Comitato Scientifico Europeo.
Quindi, secondo il P.M.,
alla luce dei dati forniti dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti
e la Nutrizione si può affermare che erano sbagliati i dati di “resa” emersi
nel processo di primo grado perché la resa effettiva delle vongole è pari al
25%.
Anche in questo caso le
conclusioni dell’appellante non possono essere condivise. Ci si dimentica
infatti di tutti i dati reali emersi nel corso del dibattimento.
In primo luogo è proprio
un esperto del P.M., il dott. Raccanelli, che, nel corso della deposizione resa
all’udienza del 7\11\2000, afferma che le vongole esaminate nel suo studio, pescate
nei canali industriali della laguna, presentavano una parte edibile pari a
circa il 10% del peso lordo.
Sul punto concorda
sostanzialmente anche l’esperto della difesa, dott. Pompa, il quale nella sua
relazione del 18\4\2001, aveva riferito che, pur essendo a conoscenza del fatto
che il dott. Raccanelli aveva indicato una resa del 10% per le vongole, aveva
per i suoi calcoli adottato un valore leggermente superiore (14%) a scopo
cautelativo.
Nel corso del
dibattimento il P.M. non aveva mai contestato i dati di resa delle vongole
forniti dal suo consulente e dal dott. Pompa, perché altrimenti sarebbe stato
estremamente agevole verificare anche tali dati nel corso delle indagini svolte
presso il laboratorio di Berlino.
Bisogna comunque
ricordare che il dott. Raccanelli ha personalmente analizzato 5 campioni di
vongole e che all’inizio delle operazioni di analisi le vongole vengono pesate
(peso lordo), quindi vengono sgusciate e poi viene pesata la parte edibile
(peso netto) prima di procedere con le analisi vere e proprie: Quindi il
consulente del P.M. ha eseguito personalmente le operazioni preliminari di
pesatura ed ha potuto verificare direttamente le “rese” dei molluschi
esaminati. E’ fuor di dubbio che se Raccanelli avesse rilevato un valore di resa
significativamente superiore al 10% lo avrebbe riferito in dibattimento.
Il valore leggermente
superiore indicato dal consulente Pompa (14%) trova una giustificazione
fisiologica nel fatto che la quantità di acqua che imbibisce il mollusco
interno (parte edibile) può leggermente influenzare il peso del campione.
A questo punto è giusto
chiedersi come mai i dati forniti dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli
Alimenti e la Nutrizione siano tanto diversi da quelli riferiti in dibattimento
dai consulenti delle parti.
In linea generale
bisogna ricordare che la pubblicazione dell’INRAN dalla quale sono stati tratti
i dati era dedicata in via pressoché esclusiva alla composizione chimica e al
livello energetico degli alimenti, e non invece alla determinazione precisa del
rapporto tra parte comunque edibile dei prodotti esaminati e scarto non
commestibile.
Ma l’elemento più
rilevante consiste nel fatto che la “resa” del 25% per la parte edibile della
vongola determinata dall’INRAN concerne una specie particolare di vongola, la
amigdala decussata, diversa dalle tapes philippinarum che sono state l’oggetto
delle consulenze nel presente procedimento.
La vongola amigdala
decussata, caratterizzata da un guscio molto sottile e da una resa molto
maggiore rispetto ad altre, è molto rara in laguna e comunque non risulta
essere mai stata raccolta ed esaminata fra i campioni prelevati per le
consulenze del presente processo che hanno sempre riguardato la vongola tape
philippinarum (come si rileva dalla descrizione contenuta nei verbali di
campionamento condotti nel marzo 2001 e nei verbali preliminari delle analisi
presso il laboratorio MPU di Berlino).
In conclusione si può
affermare che anche per determinare la “resa” dei bivalvi il Tribunale si è
giustamente attenuto ai dati reali raccolti nel corso del dibattimento che sono
risultati essere gli unici corrispondenti alle circostanze di fatto che il
giudice doveva prendere in considerazione ai fini della decisione.
3.9.4.2
I dati dell’Istituto
Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione sui consumi medi giornalieri pro-capite di molluschi in
Italia per il 1994-96.
L’appellante contesta la
sentenza anche per quanto riguarda i dati dei consumi medi giornalieri dei
veneziani.
Si deve infatti
ricordare che i calcoli della dose giornaliera di assunzione di sostanze
inquinanti da parte dei veneziani tramite una dieta contenente mitili sono
stati fatti dal primo giudice tenendo conto del consumo di tale prodotto ittico
desunto da una indagine effettuata dal COSES – Comune di Venezia – nel 1996.
Secondo il P.M., invece,
il calcolo deve essere effettuato sulla base delle statistiche di consumo
dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione relative al
territorio nazionale desumibili da uno studio INN – CIA del 1994\96.
Osserva l’appellante che
lo studio indicato muove da una distinzione essenziale tra consumo medio totale
pro-capite e consumo pro-capite medio per i “soli consumatori” (11,6% della
popolazione) identificati come diversi dai “non consumatori” e dai “consumatori
sporadici”; partendo da tale base ed effettuando tutta una serie di calcoli,
analiticamente riportati nei motivi d’appello, si arriva a conclusioni circa
l’effettivo consumo giornaliero di vongole e mitili quasi simili a quelle
indicate dai consulenti dell’accusa e disattese dal Tribunale perché smentite
dall’indagine Coses.
In realtà non sembra
accettabile, ai nostri fini, il criterio indicato per calcolare il consumo.
Infatti secondo tale criterio i soli “consumatori” (pari all’11,6% percento
della popolazione nazionale) mangerebbero tutto il prodotto ittico nazionale.
Ciò risulta palesemente illogico se si tiene conto del fatto che nella
categoria dei “consumatori” rientrerebbero solo coloro che mangiano molluschi
assiduamente trascurando quindi tutti coloro (88,4%) che mangiano pesce in modo
non assiduo e cioè una o due volte alla settimana, o anche una volta al mese.
Per poter sostenere che
l’11,6% della popolazione mangia tutto il prodotto ittico, si dovrebbe provare
che tutto il resto della popolazione (e cioè la stragrande maggioranza) non ne
mangia mai.
Si tratta di una
conclusione palesemente illogica che porta ad un sovradimensionamento dei
valori di consumo da parte della categoria dei “veri consumatori”.
A queste considerazioni
si deve anche aggiungere che risulterebbe veramente inspiegabile far ricorso a
statistiche di carattere nazionale pur avendo a disposizione una indagine
condotta proprio sui consumi dei veneziani da parte di una fonte che non può
definirsi sospetta e cioè il Comune di Venezia che è anche parte civile nel
presente processo.
Si deve quindi
condividere la decisione del Tribunale di dare credito all’indagine COSES al
fine di determinare i reali consumi di prodotti ittici da parte dei veneziani.
3.9.5 Alcune considerazioni su “gli esiti della valutazione
tecnica correttamente operata (per il Tribunale) dagli esperti delle difese
(relazione Pompa 18\4\2001)” relativamente alla comparazione con i dati di
altri paesi.
A questo punto il P.M.
torna al tema della concentrazione media di diossine nei bivalvi dell’area
industriale della laguna per contestare quanto affermato in proposito dalla
sentenza di primo grado e cioè che “tutte le concentrazioni di diossine
rilevate in pesci e molluschi della laguna Veneziana sono confrontabili con le
concentrazioni di diossine (0,1 – 1 pg TE\g) riscontrate in pesci e molluschi
edibili, provenienti da aree che risentono di un impatto antropico diretto
moderato” (Sentenza pag.876).
L’appellante rileva che
in realtà la concentrazione media di diossine nei bivalvi campionati nell’area
industriale della laguna, rilevata nell’ambito della perizia Bonamin, Di
Domenico et al. (1997) è pari a 1,85 pg I-TE\g. e viene a collocarsi al secondo
posto, in ordine di grandezza, della serie di 11 dati riportati a pag. 876
della sentenza e desunti da una pubblicazione della Agenzia Europea per
l’ambiente TasK 4 e da una pubblicazione dell’EPA.
Il P.M. ricorda anche un
documento dell’Unione Europea sull’esposizione, per ingestione attraverso la
dieta, a diossine e PCB correlati nei paesi membri pubblicato nel giugno 2000.
Nella Tabella 5 di tale documento sono elencati 49 valori relativi ad alimenti
ittici europei campionati nel 1995-1999 e solo 5 sono superiori alla
concentrazione media (1,85 pg I-TE\g) rilevata nei bivalvi di Venezia dalla
perizia Bonamin, Di Domenico et al.
Risulta quindi evidente,
per l’appellante, che la concentrazione di diossine nei bivalvi della laguna è
superiore a quella (0,1 – 1 pg TE\g) riscontrata nei pesci e nei molluschi
provenienti da aree con impatto antropico diretto moderato.
Osserva questo Collegio
che i dati reali della contaminazione sulla base di tutti i dati raccolti nel
corso del dibattimento (analisi effettuate dal Consulente del P.M. Raccanelli,
dal laboratorio di Berlino, dai consulenti Zapponi, Di Domenico e Turrio
Baldassarri) hanno portato ad indicare un valore medio di contaminazione da
diossine pari a 1,09 pg I-TE\g sostanzialmente diverso da quello indicato dal
P.M.
La spiegazione di questa
diversità si ricava dal fatto che l’appellante prende in considerazione
solamente i risultati della perizia Bonamin che effettivamente era arrivata a
determinare un valore medio di contaminazione pari a 1,85 I-TE\g.
Esaminando il contenuto
della perizia Bonamin si rileva che nella stessa compare un campione di cozze
che presenta un valore di concentrazione particolarmente elevato (4,9 pg
I-TE\g); si tratta di un valore che lo stesso consulente del P.M. dott. Zapponi
definisce come “raro” ( V. relazione “Concentrazioni nei bivalvi dell’area
industriale di Venezia: alcune considerazioni aggiuntive” del 15\5\2001).
Quindi la perizia
Bonamin si basa sull’esame di 7 campioni di cui 2 concernenti cozze (uno dei
quali con un valore di concentrazione definito “raro”), a fronte di 9 campioni
di vongole esaminati complessivamente da Raccanelli e dal laboratorio di
Berlino e risultati avere un valore medio di concentrazione pari a 1,09 pg
I-TE\g.
Bisogna inoltre
ricordare che nel presente processo tutti i consulenti (sia dell’accusa che
della difesa) hanno sempre affrontato il problema dell’esposizione dell’uomo a
contaminanti attraverso il consumo di vongole pescate abusivamente nei canali
industriali, mentre non si sono mai occupati di cozze per una serie di motivi
ben precisi: 1) ai pescatori abusivi non sono mai state sequestrate cozze; 2)
in tutte le consulenze del P.M. sono state raccolte ed analizzate vongole e mai
cozze; 3) anche l’indagine del laboratorio di Berlino ha preso in
considerazione solamente le vongole.
Comunque l’obiezione
dell’appellante risulta totalmente irrilevante ai fini della decisione in
quanto anche la concentrazione di 1,85 pg\g indicata nella perizia Bonamin non
è neppure la metà di quella indicata dalla Comunità Europea (con il Regolamento
n.2375\2001 del 29\11\2001) per la edibilità dei prodotti ittici (pari a 4
pg\g) ed è lontana anche dal “livello di attenzione” che fa scattare le
indagini per la bonifica dei siti fissato a 3 pg\g dalla Raccomandazione della
Commissione Europea emanata il 4\3\2002 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
delle Comunità Europee in data 9\3\2002.
3.9.6 Microinquinanti tossici nella laguna di Venezia. Le
diossine e i composti simili: La perizia tecnica di V. Bonamin, A. Di Domenico,
R. Fanelli, L. Turrio Baldassarri (1977), la correlata Consulenza tecnica di L.
Simonato, L. Tomatis, P. Vineis e G.A. Zapponi (1998) e l’indagine
dell’Istituto Superiore di Sanità (A. Di Domenico, L. Turrito Baldassarri, G.
Ziemacki, 1996).
Il P.M. lamenta il fatto
che le perizie e consulenze tecniche indicate in intestazione siano state più
volte citate ed utilizzate nel corso del procedimento e nella stesura della
motivazione della sentenza, ma frequentemente in modo impreciso e senza
considerarle in tutti gli aspetti di rilievo.
Prima di procedere
nell’esame di questa doglianza occorre fare una breve premessa per ricostruire
la successione delle indagini, delle perizie e delle consulenze in questione.
Dal punto di vista
temporale vi è prima di tutto una indagine dell’Istituto Superiore di Sanità
datata 21\11\96 sulla contaminazione di bivalvi nelle aree di allevamento e
mitilicultura della Laguna Veneta, svolta dagli esperti Alessandro Di Domenico,
Luigi Turrio Baldassarri e Giovanni Ziemacki.
Tale indagini aveva
avuto come oggetto 20 campioni di biota raccolti in larga maggioranza in zone
della Laguna Veneta ufficialmente destinate all’allevamento ed alla pesca in
quanto un solo campione era stato prelevato in area industriale ed uno in area
prevalentemente o esclusivamente urbana; la media del complesso dei campioni
aveva fornito un valore di concentrazione di diossine di circa 0,52 pg I-TE\g e
nel rapporto conclusivo gli esperti avevano osservato che le concentrazioni
rilevate erano confrontabili “con livelli frequentemente riscontrati …in aree
sotto l’influenza di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.
Nel 1997 era stata
disposta dal P.M. Ennio Fortuna la perizia Bonamin, della quale erano stati
coautori anche Di Domenico, Turrio Baldassarre e Ziemacki (autori dell’indagine
ISS), volta ad indagare l’impatto degli scarichi industriali sulla qualità
dell’ambiente e dei prodotti ittici lagunari.
Tale perizia aveva
recepito le determinazioni di PCDD e PCDF già effettuate dall’indagine ISS ed
aveva ampliato i campionamenti nell’area industriale.
Al contempo era stata
disposta una consulenza tecnica diretta a valutare l’esposizione umana alla
diossina e ad analizzare e stimare i rischi tossicologici con incarico conferito
a L. Simonato, L. Tomatis, P. Vineis e G.A. Zapponi.
Il P.M. nei motivi
d’appello contesta quanto sostenuto nella sentenza impugnata in relazione
all’indagine ISS e alla perizia Bonamin e cioè che le conclusioni dell’indagine
ISS fossero “non dissimili da quelle prese dagli stessi studiosi (Di Domenico,
Turrio Baldassarri e Ziemacki) nella sede della relazione di consulenza redatta
per la pubblica accusa”.
Secondo l’appellante i
periti nominati dal P.M. avevano fatto un ampio campionamento soprattutto in
zona industriale con 12 campioni (9 su bivalvi e 3 su pesci) non compresi
nell’indagine ISS ed il perito Bonamin era giunto a determinare un valore medio
di contaminazione per i bivalvi dell’area industriale pari a 1,85 pg I-TE\g ben
diversa da quella determinata nel corso dell’indagine precedente.
Le affermazioni del P.M.
non risultano condivisibili. In primo luogo sembra davvero difficile
parlare di ampio campionamento per la
perizia Bonamin rispetto alla indagine ISS. Infatti i 9 campioni di bivalvi
descritti nella perizia sono così composti: 2 campioni riguardano cozze che,
per i motivi esposti nel paragrafo precedente, devono ritenersi ininfluenti al
fine di valutare l’esposizione dei consumatori veneziani; un campione è lo
stesso esaminato nell’indagine ISS del 1996 e 5 sono gli stessi esaminati
nell’altra relazione dei consulenti del P.M. Sesana, Micheletti e Muller. Vi è
quindi un solo nuovo campione che ha fornito un valore pari a 1,2 pg\g.
In buona sostanza per
quanto riguarda le concentrazioni di diossine nelle vongole (e non nelle cozze)
dei canali industriali si può affermare
che i valori medi non si discostano sostanzialmente da quelli rilevati
nello studio ISS.
Restano quindi valide le
conclusioni di tale studio nel senso che le concentrazioni riscontrate “sono di
fatto propriamente confrontabili con i livelli frequentemente riscontrati
(circa 0,2 – 1 pg\I-TE\g) degli stessi contaminanti in pesci e molluschi
normalmente utilizzati per l’alimentazione umana provenienti da aree sotto l’influenza
di un impatto antropico diretto da moderato a trascurabile”.
Le stesse conclusioni
sono raggiunte dagli altri consulenti del P.M. Sesana, Micheletti e Muller che
dopo aver analizzato altri campioni di vongole e aver confrontato la
concentrazione di diossine rilevata nelle stesse con quelle rilevate nella
letteratura, affermano: “i risultati sui molluschi della laguna di Venezia, se
riferiti alle indagini norvegesi, coincidono quasi completamente con i valori
appartenenti alla parte superiore della scala di valori normali” (relazione
Sesana et al. pag.4).
Questo dato viene
ribadito anche da altri consulenti del P.M. e cioè Simonato, Tomatis, Vineis e
Zapponi che nella loro relazione scrivono: “ le analisi di vongole (campioni
7484\A e 4411\A) provenienti da aree sottoposte a inquinamento industriale o
urbano effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità sono caratterizzate da
valori 0,87 – 1,3 pg I-TE\g, …confrontabili con quelli di altre aree a
contaminazione moderata o bassa”.
Per quanto riguarda la
Consulenza tecnica di Simonato, Tomatis, Vineis e Zapponi, il P.M. lamenta il
fatto che sia stata citata nella sentenza in modo molto parziale tanto da
impedirne l’appropriata e corretta comprensione.
E’ vero che tale
consulenza, a seguito della presentazione di uno studio epidemiologico
descrittivo geografico, afferma testualmente: “Non emergono, dall’analisi di
questi dati, elementi che depongono a favore di un rischio più elevato nella
popolazione lagunare rispetto a quella della terraferma” (frase riportata nella
motivazione della sentenza), ma poi aggiunge : “ mentre dall’insieme della
crescita nel tempo di alcune sedi tumorali (LNH, mammella, rene, tutti i
tumori) emerge la necessità di indagini più approfondite per poter individuare
possibili fattori eziologici, tra i quali vanno inclusi anche esposizioni
legate all’inquinamento della laguna” (frase non citata nella sentenza).
Alla consulenza è stata
allegata una tabella che mette in evidenza nel periodo tra il 1987 e il 1994 un
incremento, rispetto al riferimento regionale, statisticamente significativo,
di tutti i tumori nell’area di Venezia e di Mestre, dei tumori della mammella
nelle donne di Venezia e di Mestre e dei linfomi non Hodgkin nei maschi di
Venezia. Si tratta di un incremento che merita grande attenzione e che non è
coerente con l’affermazione della sentenza a pag.1011: “Conclusioni
incompatibili con aumento di rischio nello scenario delineato in imputazione
mette a capo la consulenza espletata nel 1997 per conto della Procura Circondariale
Veneziana, dagli esperti Tomatis, Simonato, Vineis e Zapponi”. In realtà
l’attestato incremento di tumori è per definizione compatibile con un aumento
di rischio.
Inoltre la Consulenza di
Simonato et al. include varie conclusioni e raccomandazioni non citate nella
motivazione della sentenza. In particolare si conclude per la presenza di una
contaminazione della Laguna in gran parte dovuta a scarichi industriali, che
comprende varie sostanze cancerogene bioaccumulabili, le quali per un’esposizione
prolungata anche a piccole dosi possono comportare un incremento di rischio
cancerogeno, sia con effetto additivo che sinergico. La consulenza raccomanda
poi l’eliminazione di scarichi in laguna suscettibili di incrementare
l’inquinamento, il divieto di consumo e immissione sul mercato di prodotti
ittici provenienti dalle aree industriali della laguna, la definizione
appropriata delle aree in cui consentire la pesca e l’allevamento, la bonifica
e il monitoraggio dell’inquinamento.
Rileva l’appellante che
di tutto ciò nulla si dice in sentenza.
Ad avviso di questo
Collegio il Tribunale non ha trascurato il contenuto della consulenza Simonato
et al., ma lo ha valutato, anche se in maniera concisa, dandone una
interpretazione sostanzialmente corretta.
Quanto al risultato
ottenuto dalla consulenza, consistito nell’accertamento di un incremento totale
dei tumori, un incremento dei tumori della mammella tra le donne e un
incremento dei linfomi non Hodgkin, lo stesso P.M. riconosce che non è
adeguatamente identificabile la causa di tale fenomeno tanto che gli stessi
consulenti prospettano la necessità di indagini più approfondite per poter
individuare possibili fattori eziologici fra i quali vanno ovviamente inclusi
anche le esposizioni legate all’inquinamento della laguna.
Le conclusioni dello
studio di Simonato et al. confermano che allo stato attuale non è possibile
dimostrare alcun rischio per la salute umana direttamente collegabile alle
condizioni della laguna.
Non vi è prova
scientifica che l’aumento riscontrato del numero dei tumori sia collegabile a
esposizione per ingestione.
Giustamente il P.M.
afferma che il risultato ottenuto dalla consulenza Simonato merita grande
attenzione. Ma questo invito all’attenzione può essere rivolto a chi ha la
responsabilità di una adeguata politica sanitaria ed ambientale, non ad
un’autorità giudiziaria chiamata a decidere sulla responsabilità di singoli
individui che devono rispondere di reati gravi come il disastro,
l’avvelenamento e l’adulterazione di sostanze alimentari. Ai fini del giudizio
penale sono sempre necessari dati di fatto adeguatamente provati.
Anche le raccomandazioni
contenute nella consulenza come ad esempio quella di escludere dalla pesca le
aree della laguna caratterizzate da inquinamento industriale e le aree con
intenso traffico di motobarche o quella di eliminare gli scarichi in laguna
suscettibili di incrementare l’inquinamento suonano come semplici indicazioni
di ciò che sarebbe opportuno fare in vista di una maggior tutela dei
consumatori di prodotti ittici.
Nella stessa consulenza,
però, non vi è alcuna prova che il consumo di pesci e molluschi provenienti
dalla laguna sia pericoloso per la salute non essendo stato individuato alcun
elemento probatorio a sostegno di tale ipotesi.
La stessa raccomandazione
fatta dai consulenti di vietare il consumo e l’immissione sul mercato di
prodotti ittici provenienti dalle aree industriali della laguna risulta essere
una misura suggerita dagli stessi a scopo cautelativo, ma non è una indicazione
di rischio per la salute dei consumatori.
Basterà ricordare che
(come si è già accennato in precedenza) l’Unione Europea (con il Regolamento
n.2375\2001 del 29\11\2001 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità
Europea come Legge 231\5 del 6\12\2001) ha individuato la concentrazione limite
(CL) proprio per le diossine ammesse nei prodotti ittici, ai fini della loro
edibilità e della loro libera commercializzazione, nell’ambito dei paesi UE in
4 WHO-TEQ\g di prodotto fresco, concentrazione che è più di quattro volte
superiore a quella media riscontrata dagli esperti dell’accusa nelle vongole
dei canali industriali.
A ciò si deve aggiungere
quanto stabilito dalla Raccomandazione della Commissione Europea emanata il
4\3\2002 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee in data
9\3\2002 relativa alla riduzione della presenza di diossine e furani nei
mangimi e negli alimenti. Tale Raccomandazione suggerisce un nuovo modo per
affrontare il problema delle concentrazioni di diossine negli alimenti basato
sulla introduzione di una nuova classe di livelli di concentrazione che
prendono il nome di “livelli d’azione” che si distingue dalla classe di valori
presi in considerazione per la edibilità dei prodotti. Il documento della
Commissione Europea raccomanda, qualora le concentrazioni di diossine negli
alimenti superino i “livelli d’azione”, l’avvio di indagini per individuare la
fonte di contaminazione dell’alimento in modo da adottare i provvedimenti
necessari per risolvere il problema; in ogni caso l’alimento resta comunque
edibile e commerciabile fino a quando la concentrazione di diossine non supera
il livello di concentrazione limite di 4 pg\ WHO-TEQ\g.
La stessa
Raccomandazione fissa per le diossine nei prodotti ittici il “livello d’azione”
in 3 pg\g di prodotto fresco. Ciò significa che il “livello d’azione” è di
circa 3 volte superiore a quello medio riscontrato nelle vongole dei canali
industriali ed è quasi 7 volte superiore alla concentrazione media di diossine
presente in tutti i molluschi raccolti in laguna.
In conclusione per i
parametri europei le vongole raccolte nei canali industriali di Porto Marghera
non solo sono edibili, ma la quantità di diossine in esse presenti è tale da
non consigliare neppure l’adozione di provvedimenti urgenti per la bonifica dei
siti di provenienza.
CAPITOLO 3.10
APPELLO P.M.
IMMOTIVATA E
CONTRADDITORIA ASSOLUZIONE DEGLI IMPUTATI DA TUTTE LE CONTRAVVENZIONI LORO
RISPETTIVAMENTE CONTESTATE CON PERMANENZA IN ATTO.
In questo capitolo il
P.M. impugna la assoluzione pronunciata dal Tribunale, in maniera immotivata e
contradditoria, per tutte le contravvenzioni contestate agli imputati
nell’ambito del secondo capo d’imputazione.
Ricorda l’appellante che
già nell’originario capo d’imputazione erano contestate varie contravvenzioni
in materia ambientale e di igiene del lavoro per fatti commessi “fino
all’autunno del 1995”; con la contestazione suppletiva effettuata all’udienza
del 13\12\2000 erano state contestate altre violazioni contravvenzionali nonché
la permanenza in atto.
Il Tribunale aveva
assolto tutti gli imputati da tutte le contravvenzioni perché il fatto non
sussiste senza alcuna motivazione e nonostante le prove raccolte nel corso
dell’istruttoria dibattimentale.
La doglianza del P.M.
risulta parzialmente fondata.
Occorre però fare una
preliminare distinzione fra le varie contravvenzioni che l’appellante elenca
nei suoi motivi.
In vero il capo
d’imputazione è chiaramente incentrato sulla contestazione dei delitti di
avvelenamento, adulterazione e disastro, ma vi sono menzionati anche numerosi
riferimenti normativi che richiamano fattispecie contravvenzionali.
Vi è il richiamo agli
artt. 17 e 18 del D.P.R. 19\3\1956 n.303 “Norme generali per l’igiene del
lavoro”; agli artt.1 sexies d.l. 27\6\85 n.312 “Disposizioni urgenti per la
tutela delle zone di particolare interesse ambientale”; all’art. 9
D.Lgs.15\8\91 n.277 in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi
derivanti da esposizione ad agenti chimici.
Per questo primo gruppo
di contravvenzioni che il P.M. asserisce di aver contestato con la formulazione
del capo d’imputazione bisogna rilevare che oltre al riferimento numerico agli
articoli manca qualsiasi descrizione di condotte, attive od omissive,
corrispondenti alle contravvenzioni richiamate, né vi è alcuna indicazione di
carattere temporale che consenta di individuare l’inizio dell’attività punibile
e, soprattutto, quali degli imputati debbano rispondere per tali violazioni.
In mancanza degli
elementi sopra indicati, essenziali per una corretta e giuridicamente valida
contestazione di contravvenzioni, il Tribunale ha giustamente valutato tale
elencazione di norme come contestazione di colpa specifica e cioè come modalità
di causazione degli eventi di avvelenamento, adulterazione e disastro con
violazione di norme cautelari.
La situazione appare
invece diversa per altre norme richiamate nel capo d’imputazione e cioè per gli
artt.3, comma 3°, 1, comma 1° lett. a) b) c), 9, 10, 16, 24, 25, commi 1,2 e 3,
26, 31 e 32 D.P.R. 10\9\82 n.915 recante norme di attuazione delle direttive
CEE relative ai rifiuti, poi sostituito dal D.Lgs. 5\2\97 n.22.
In questo caso il capo
d’imputazione descrive condotte astrattamente idonee ad integrare la violazione
delle disposizioni elencate. Si tratta di quella parte della contestazione
relativa alla asserita gestione abusiva delle discariche di cui si è parlato a
lungo nei primi capitoli di questa motivazione. In buona sostanza, come si
ricorderà, si è ritenuto che gli imputati si fossero attenuti alle disposizioni
regolanti la gestione dei rifiuti dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 915\82 e
che su di loro non gravasse l’obbligo di attivarsi per risanare i siti
inquinati dai predecessori. Non sembra necessario riproporre in questa sede gli
argomenti già esposti a sostegno di tali conclusioni che vengono ora
integralmente richiamate.
Si può quindi affermare
che gli imputati dovevano essere assolti dalle contravvenzione in materia di
gestione di rifiuti perché il fatto non sussiste, così come ha deciso il
Tribunale.
Completamente diversa
appare invece la situazione per quanto riguarda la normativa di cui agli
artt.9,ult.co., 15, 21, 25 e 26 Legge 10\5\1976 n.319 recante norme per la
tutela delle acque dall’inquinamento; artt.10, 13,15 e 26 Legge 15\3\63 n.366 “Nuove
norme relative alle lagune di Venezia e Marano”; artt.1 e 9 Legge 16\4\73 n.171
“Interventi per la salvaguardia di Venezia” e art.3 D.P.R. 20\9\73 n.962
recante “Norme per la tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli
inquinamenti delle acque”.
In questo caso il capo
d’imputazione descrive in modo preciso la condotta contestata agli imputati e
cioè l’aver effettuato nelle acque della laguna scarichi idrici con
concentrazioni di sostanze inquinanti superiori ai limiti previsti dal D.P.R.
962\1973. In particolare si è contestato agli imputati di aver effettuato
“scarichi dei fanghi, dei catalizzatori esausti (esempio quelli a sali di
mercurio) e degli altri sottoprodotti di risulta dei trattamenti, attraverso
gli scarichi 2 e 15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai
limiti previsti dal D.P.R. 962\73”.
La generica descrizione
delle condotte configuranti le contravvenzioni in esame risulta integrata e
completata dalla documentazione acquisita agli atti processuali e cioè dai
numerosissimi bollettini interni delle analisi compiute sugli scarichi del
Petrolchimico il cui contenuto è stato ampiamente discusso dalle parti nel
corso dell’istruttoria dibattimentale.
Da tali bollettini si
ottiene, oltre alla conferma dei numerosi superamenti dei parametri tabellari
di cui al D.P.R. 962\73 da parte degli scarichi del Petrolchimico, anche
l’indicazione temporale delle singole violazioni.
La difesa degli imputati
non può quindi sostenere la tesi della mancata contestazione formale di tali
contravvenzioni in quanto la formulazione del capo d’imputazione, integrata
dalla documentazione acquisita nel corso del dibattimento e discussa nel
contraddittorio delle parti, ha messo in grado gli imputati di difendersi nel
migliore dei modi.
Per altro si tratta di
circostanze di fatto che nessuno degli imputati ha mai contestato, anzi i
consulenti della difesa hanno esaminato e studiato i bollettini non già per
negare l’esistenza dei superamenti dei limiti tabellari da parte degli
scarichi, ma per dimostrare il progressivo miglioramento della situazione
confermata dalla discesa della percentuale di superamenti dal 4,4% del 1990
all’1% del 2000.
Ha quindi sbagliato il
Tribunale quando ha assolto gli imputati dalle contravvenzioni in esame perché
il fatto non sussiste.
In realtà le prove
acquisite dimostravano l’avvenuto superamento dei limiti tabellari di cui al
D.P.R. 962\73 in numerose e ripetute occasioni e non poteva esserci dubbio
sulla sussistenza delle contravvenzioni.
In questa sede si deve però
prendere atto del decorso del termine massimo di prescrizione di anni quattro e
mesi sei, sia se calcolato dal luglio 1994 (epoca dalla quale non si ha più in
atti la prova documentale dei superamenti tabellari), sia se calcolato
dall’autunno del 1995 come indicato nella contestazione originaria.
Sul punto il P.M. ha
fatto presente nei suoi motivi d’appello che in data 13\12\2000 aveva integrato
il capo d’imputazione originario contestando al permanenza in atto per tutte le
contravvenzioni.
Osserva il Collegio che
in questa sede interessa esaminare la questione della permanenza posta dal P.M.
esclusivamente con riferimento alle contravvenzioni relative al superamento dei
limiti tabellari in quanto per tutte le altre contravvenzioni si ritiene di
confermare la assoluzione perché il fatto non sussiste.
Per quanto riguarda le
contravvenzioni concernenti il superamento dei limiti tabellari risulta invece
importante, ai nostri fini, decidere se possa o meno parlarsi di permanenza, in
quanto la soluzione del problema in un senso o nell’altro viene ad incidere sul
calcolo del termine di prescrizione.
L’appellante sostiene la
tesi della configurabilità della natura permanente del reato relativo al
superamento dei limiti tabellari richiamando una decisione delle Suprema Corte
in cui si afferma testualmente: “ La contravvenzione di cui all’art.21, terzo
comma della legge n.319 del 1976 è caratterizzata da un elemento ulteriore
rispetto ai casi previsti dai due commi precedenti, indicati nello stesso
articolo, ossia dal superamento nello scarico dei limiti di
accettabilità……Trattasi, dunque, di reato permanente, poiché la omissione
colposa di misure atte ad evitare che lo scarico superi i limiti della tabella,
implicando un dovere positivo di controllo e di intervento, non si risolve in
un inadempimento istantaneo, ma si protrae nel tempo. Il prelievo dei campioni
evidenzia soltanto il protrarsi di una azione antigiuridica. E’ compito
dell’imputato offrire la prova che la permanenza è cessata per avere egli
compiuto atti idonei a tale scopo” (Cass. Pen. 21 luglio 1988 n.8318).
Analogo principio vale
per quanto riguarda il reato relativo alla mancata adozione di misure idonee ad
evitare l’aumento temporaneo dell’inquinamento: “ E’ omissivo permanente il
reato previsto dagli artt.21 e 25 legge 10 maggio 1976 n.319, che consiste nel
mancato adempimento dell’obbligo di adottare misure necessarie ad evitare un
aumento anche temporaneo dell’inquinamento, poiché la situazione dannosa o
pericolosa si protrae nel tempo a causa del perdurare della condotta
antigiuridica di colui che effettua lo scarico” (Cass.pen sez. III, 7 settembre
1987 n. 9776).
Ad avviso di questo
Collegio il sopra indicato orientamento della Cassazione appare poco
convincente soprattutto perché prevede esplicitamente una inversione dell’onere
della prova in contrasto con i principi del nostro ordinamento.
In effetti la
Cassazione, in epoca più recente, ha corretto tale indirizzo giurisprudenziale
stabilendo che il reato di cui all’art.21, comma 3° della legge 319\76 che
consiste nel superamento dei limiti di accettabilità prescritti “non può essere
ritenuto di natura permanente a meno che non si provi in concreto che lo
scarico extratabellare sia continuo, e cioè che l’alterazione della
accettabilità ecologica del corpo recettore si protragga nel tempo senza
soluzione di continuità per effetto della persistente condotta volontaria del
titolare dello scarico” (Cass. Sez. III, 16 novembre 1993).
Nello stesso senso si è
pronunciata la Cassazione in data 3 febbraio 1995 con specifico riferimento
alla legge 171\73 “Interventi per la salvaguardia di Venezia” statuendo che:
“Mentre lo scarico oltre i limiti tabellari, di cui all’art.9, sesto comma
ultima parte della Legge 16\4\73 n.171 è per sua natura reato non permanente, essendo legato ad un accertamento specifico
in un dato tempo, invece lo scarico senza autorizzazione, di cui al medesimo
art.9, sesto comma, prima parte citata legge n.171 del 1973, la natura del
reato permanente è collegata alla persistenza della condotta omissiva del
titolare fino a quando non risulti provato il possesso del titolo abilitativo
rilasciato da parte della pubblica amministrazione competente”.
Quest’ultimo
orientamento appare maggiormente accettabile anche perché prevede che la prova
della continuità del carattere extratabellare dello scarico deve essere fornita
dall’accusa secondo i fondamentali principi del nostro ordinamento.
Bisogna ricordare che
nel caso del Petrolchimico le prove raccolte attestano solo superamenti
occasionali dei limiti tabellari (anche se con una certa frequenza), ma non vi
è prova di una continuità di tale situazione illegittima.
In conclusione, ad
avviso di questo Collegio, si impone una declaratoria di improcedibilità nei
confronti degli imputati Porta, Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai,
Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi, Presotto, Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e
Patron relativamente alle contravvenzioni concernenti i superamenti tabellari
di cui al D.P.R. 962\73 perché estinte per intervenuta prescrizione ed in tal
senso deve essere riformata sul punto l’impugnata sentenza.
CONCLUSIONI SUL II° CAPO DI IMPUTAZIONE
Dopo avere esaminato le
singole doglianze proposte dal P.M. e dalle altre parti appellanti nei confronti
della sentenza impugnata relativamente al secondo capo d’imputazione, sembra
necessario fare una valutazione complessiva delle decisioni del Tribunale sui
vari aspetti dell’ipotesi accusatoria.
Come si è già detto
nella premessa, la base dell’accusa era costituita dalla contestazione dei
reati di avvelenamento e adulterazione colposa di acque o sostanze destinate
all’alimentazione.
Queste accuse sono
risultate in fatto non provate.
Per quanto riguarda i
pesci e i molluschi pescati nei canali industriali bisogna ricordare che i
risultati delle analisi dei campioni, ampiamente discussi nel corso del
dibattimento, hanno sostanzialmente escluso l’esistenza di un pericolo reale
per la salute pubblica derivante dal consumo alimentare di tale tipo di biota.
Le concentrazioni di
inquinanti rilevate nei pesci e nei molluschi pescati nei canali industriali
sono risultate inferiori alle Concentrazioni Limite stabilite dalla legge per i
singoli inquinanti ai fini della edibilità; per gli inquinanti rispetto ai
quali non risultava fissata per legge una Concentrazione Limite si è appurato
che la loro presenza rientrava comunque nei limiti considerati in tutto il
mondo normali per la edibilità.
In considerazione del
fatto che gli abitanti della laguna hanno una propensione al consumo di
prodotti ittici particolarmente elevata, si è calcolato con cura particolare il
consumo di tali prodotti da parte dei veneziani sulla base di uno studio
specifico condotto dallo stesso Comune di Venezia.
Il consumo così
quantificato di prodotto ittico è stato poi moltiplicato per le dosi medie di
inquinanti riscontrate nei mitili pescati nei canali industriali ottenendo la
dose media di assunzione di tali inquinanti nel lungo periodo da parte dei
consumatori veneziani.
I dati ottenuti sono
apparsi tranquillizzanti in quanto le dosi di assunzione dei veneziani sono
risultate di molto inferiori rispetto alle classi di dosi astratte capaci di
generare effetti dannosi osservati; addirittura sono risultati inferiori
perfino ai limiti-soglia fissati da varie agenzie internazionali in via
precauzionale e quindi dotati di un fattore di sicurezza che li tiene lontani
dalle soglie di pericolo reale.
Gli appellanti hanno
tentato di mettere in discussione tali risultati senza però riuscirvi, come si
è visto in precedenza nel corso dell’esame dei singoli motivi sul punto.
Si deve altresì
escludere la sussistenza di un pericolo reale per la salute pubblica derivante
dalle acque di falda.
La tesi accusatoria
secondo la quale le acque di falda sarebbero state contaminate dagli inquinanti
provenienti dai rifiuti tossico-nocivi accumulati nel corso degli anni in varie
discariche create sia all’interno che all’esterno del Petrolchimico non ha
trovato conferma.
Infatti nessun pozzo ad
uso umano o ad uso agricolo situato all’esterno del Petrolchimico è risultato
contaminato in base alle analisi eseguite ed acquisite agli atti del processo.
Le acque della prima falda sottostante l’impianto industriale sono risultate
assolutamente non utilizzabili a fini antropici per la loro qualità (eccessiva
salinità), per la loro insignificante quantità nonché per il divieto tassativo
di emungimento al fine di evitare il fenomeno della subsidenza.
Il contributo fornito
dalle acque della prima falda sottostante il Petrolchimico (pacificamente
contaminate) all’inquinamento dei canali industriali è risultato
sostanzialmente insignificante.
Quindi anche sotto
questo profilo si può escludere l’esistenza di un qualsiasi pericolo reale per
la salute pubblica.
Nel corso di questo
processo si è invece accertato in modo chiaro il grave inquinamento dei canali
industriali Nord e Brentella, situati nell’ambito della prima zona industriale,
e che tale inquinamento tende a diminuire man mano che ci si sposta verso la
seconda zona industriale ove è insediato il Petrolchimico.
Si è altresì appurato
che tale inquinamento è stato provocato dalle industrie che operavano fin dagli
anni ’20 nella prima zona industriale e che, gradatamente si è diffuso, a
seguito dei dragaggi e dei movimenti dei natanti, fino a raggiungere i canali
della seconda zona industriale.
A tutto ciò si deve
aggiungere anche il fatto, egualmente appurato nel corso del presente processo,
che la seconda zona industriale è stata interamente costruita sui rifiuti solidi
provenienti dalla prima zona industriale e che tali rifiuti, a contatto con le
acque dei canali, hanno continuato a generare inquinamento.
Come si è già detto, il
contributo apportato dal Petrolchimico all’inquinamento delle acque e dei
sedimenti dei canali è risultato estremamente modesto in quanto dovuto
all’afflusso delle acque di falda provenienti dal sottosuolo contaminate dai
rifiuti delle discariche e agli scarichi idrici nelle occasioni in cui
superavano i limiti tabellari.
In presenza di tale
situazione di fatto circa l’origine dell’inquinamento dei canali si è proceduto
alla valutazione delle concentrazioni di inquinanti nei sedimenti della seconda
zona industriale e si è appurato che tali concentrazioni non raggiungono mai il
livello degli effetti osservati e
non superano neppure i limiti di accettabilità determinati dalle varie agenzie
internazionali con l’applicazione di fattori di sicurezza.
A questo punto, dopo
aver escluso per i motivi sopra indicati, la sussistenza dei reati di avvelenamento
e adulterazione, resta da chiedersi se possa comunque ravvisarsi la sussistenza
del contestato reato di disastro colposo in relazione al contributo che il
Petrolchimico ha fornito nel corso degli anni all’inquinamento dei canali
industriali e dei relativi sedimenti e, più in generale, al deterioramento
ambientale dell’ecosistema lagunare.
Agli imputati viene
contestato il reato di “disastro innominato colposo” ai sensi degli artt.434 e
449 c.p.; per la dottrina e la giurisprudenza il disastro sussiste se vi è
esposizione a pericolo della pubblica incolumità provocata da un evento di
danno per persone e cose.
Non può accettarsi una
definizione di disastro che non preveda il requisito del danno per le persone e
per le cose incentrandosi unicamente sul pericolo per la pubblica incolumità
perché in tal caso si arriverebbe alla punibilità del mero pericolo di disastro
innominato al di fuori dei casi in cui il mero pericolo di disastro è
normativamente punito ex art.450 c.p. e cioè dei casi tassativamente indicati
in tale articolo ( “pericolo di disastro ferroviario, di un’inondazione, di un
naufragio, o della sommersione di una nave o di un altro edificio natante”).
Ma se per la sussistenza
del disastro innominato colposo è necessario un evento di danno per le persone
e per le cose, è altresì necessaria una concreta situazione di pericolo per la
pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità
relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un
numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie
determinate di soggetti.
Nel caso in esame non è
possibile parlare di un evento di danno grave e complesso nel senso naturalistico
dell’espressione in quanto l’inquinamento dei canali lagunari si è verificato
progressivamente nel corso degli anni ad opera prevalentemente di varie
attività industriali estranee al presente procedimento e con un modesto
contributo del Petrolchimico.
Comunque anche volendo
accettare la tesi dell’evento di danno a formazione progressiva, manca il
secondo requisito del pericolo per la pubblica incolumità che, notoriamente nei
delitti contro l’incolumità pubblica, è il pericolo concreto.
In altre parole è sempre
necessaria l’esistenza di un pericolo reale e concreto che deve essere
accertato sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili e formulando un
giudizio di massima concretezza sulla base di tutte le circostanze esistenti al
momento del fatto.
Il presente procedimento
non è riuscito ad evidenziare la presenza di un concreto pericolo reale
derivante dall’inquinamento cagionato dal Petrolchimico perché i sedimenti
provenienti dai canali circostanti lo
stabilimento hanno evidenziato concentrazioni di inquinanti che non raggiungono
mai il livello degli effetti osservati e non superano neppure i precauzionali
limiti di accettabilità.
In conclusione risulta
condivisibile la decisione del Tribunale di escludere la sussistenza dei
delitti di disastro innominato colposo, di avvelenamento, di adulterazione e
degli altri reati contravvenzionali contestati diversi da quelli che verranno
di seguito indicati; conseguentemente la sentenza impugnata deve essere
confermata, fatta eccezione per il capo relativo alle contravvenzioni
concernenti il superamento dei limiti tabellari di cui al D.P.R. 962\73 da
parte degli scarichi idrici del Petrolchimico per le quali si impone una
parziale riforma con declaratoria di improcedibilità essendo le stesse estinte
per prescrizione.
Nei termini di cui sopra
va dunque parzialmente riformata l’impugnata sentenza, e gli imputati
Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte vanno conseguentemente
condannati al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi del
giudizio.
Attesa la varietà e
complessità delle numerose questioni sottoposte all’esame della Corte, il
termine per la redazione dei motivi della decisione è fissato, ex art. 544, 3°
co., cpp, in novanta giorni.
P.Q.M.La
Corte d’Appello di Venezia-seconda sez. penale-
Visti gli artt. 605, 531, 533, 535, 592,
538, 539, 541 c.p.p., 62 bis c.p.,
in parziale riforma
della sentenza del Tribunale di Venezia in data 2/11/2001 appellata dal P.M.,
dalle Parti Civili specificate in intestazione, e dall’imputato Cefis Eugenio,
dichiara non doversi procedere nei confronti di Cefis Eugenio e di Sebastiani
Angelo in ordine ai reati loro ascritti perché estinti per morte degli imputati
medesimi; dichiara non doversi procedere nei confronti di Bartalini Emilio,
Calvi Renato, Grandi Alberto, Gatti Pier Giorgio e D’Armino Monforte Giovanni
in ordine al reato di lesioni personali colpose consistite in malattia di
Raynaud in danno di Donaggio Bruno per essere estinto per intervenuta
prescrizione; dichiara non doversi procedere nei confronti dei predetti
imputati in ordine ai reati di lesioni personali colpose consistite in
epatopatie in danno di Bartolomiello Ilario, Poppi Antonio, Salvi Andrea,
Scarpa Giuseppe, Sicchiero Giorgio, nonché in danno di Brussolo Sergio, Granziera
Enrico, Foffano Ferdinando, Leonardi Giannino, Pardo Giancarlo e Serena Rino,
perché estinti per intervenuta prescrizione; escluse, quanto ai reati di
omicidio colposo per angiosarcoma epatico, le aggravanti di cui al 3° comma
dell’art. 589 c.p., 61, nn 1, 3, 5, 7, 8 e 11 c.p., nonché la continuazione ex
art. 81 cpv c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati
Bartalini, Grandi e Gatti in ordine al reato di cui all’art. 589, 1° e 2° co.,
c.p., ai danni di Simonetto Ennio, nonché nei confronti degli imputati medesimi
e degli imputati Calvi e D’Arminio Monforte in ordine ai reati ex art. 589, 1°
e 2° co., c.p. ai danni di Agnoletto Augusto, Zecchinato Gianfranco e Pistolato
Primo, perché estinti tutti i reati stessi per intervenuta prescrizione;
dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Bartalini, Calvi,
Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte in ordine ai reati ex art. 589, 1° e 2° co.,
c.p., ai danni di Battaggia Giorgio, Fiorin Fiorenzo e Suffogrosso Guido,
concesse prevalenti attenuanti generiche, perché estinti per prescrizione;
dichiara gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte,
esclusa la cooperazione colposa ex art. 113 c.p. ed applicato l’art. 41 c.p.,
colpevoli del reato ex art. 589, 1° e 2° co., c.p., ai danni di Faggian Tullio,
e, concesse prevalenti attenuanti generiche, li condanna alla pena di anni uno
e mesi sei di reclusione ciascuno; concede agli imputati stessi i benefici
della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna;
condanna i medesimi predetti imputati, nonché il responsabile civile Edison
S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, al risarcimento, in
solido, dei danni subiti dalle costituite parti civili prossimi congiunti di
Faggian Tullio, da liquidarsi in separata sede, assegnando intanto ai figli
Faggian Stefano e Faggian Alessandro la somma di euro 50.000,00 (cinquantamila)
ciascuno, ed ai fratelli e sorelle costituiti la somma di euro 8.000,00
(ottomila) ciascuno, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ex
lege;
condanna altresì in
solido i predetti imputati ed il responsabile civile Edison S.p.A. alla
rifusione delle spese di costituzione ed assistenza nel presente giudizio delle
parti civili medesime, che liquida in complessivi euro 19.718,30 comprensivi di
onorari, diritti, spese, accessori e IVA, come da relativa parcella; assolve
gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte dal reato di
omissione dolosa di cautele da cui sono derivati infortuni ex art. 437, 1° e 2°
co., c.p. per condotte tenute fino a tutto il 1973, perché il fatto non
costituisce reato; dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati
Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D’Arminio Monforte, Lupo, Trapasso, Diaz,
Morrione, Reichenbach, Gaiba, Fabbri, Presotto, Belloni e Gritti Bottacco, in
ordine al reato di cui all’art. 437, 1° co., c.p., in relazione all’omessa
collocazione di impianti di aspirazione, dal 1974 al 1980, perché estinto per
prescrizione;dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati Porta,
Morrione, Reichenbach, Marzollo, Fabbri, Smai, Pisani, Zerbo, Trapasso, Grandi,
Presotto, Palmieri, Burrai, Necci, Parillo e Patron in ordine alle
contravvenzioni di cui al DPR 962/73 contestate nel secondo capo d’imputazione,
perché estinte per intervenuta prescrizione; condanna gli imputati Bartalini,
Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte al pagamento in solido delle spese
processuali dei due gradi del giudizio;conferma nel resto l’impugnata
sentenza;visto l’art. 544 c.p.p.,fissa in giorni 90 il termine per il deposito
della sentenza.
Venezia, 15 dicembre
2004.
UNA NETTA LINEA DI DEMARCAZIONE TRA IL GIUDIZIO STORICO
EMESSO DAL PROLETARIATO IN LOTTA SIN DAGLI ANNI 60-70 CON DIVERSE E MOLTEPLICI
FORME DI LOTTA, DALLE SENTENZE DELLA BORGHESIA, COSTRUITE PERALTRO CON PROCESSI
MOLTO TARDIVI
Riprodotto liberamente perché degli atti pubblici
non c’è copyright
Questo per gli stronzi che si fan belli sulle cose
altrui pensando così di esserne proprietari
Paolo Dorigo, coordinatore provinciale SLAI/COBAS
– sindacato di classe – provinciale VENEZIA